Il valore di una medaglia è relativo. C’è chi festeggia per un bronzo e chi archivia un argento come un’occasione persa. Dipende dalla storia, dal momento della vita, dalle aspettative che cambiano di volta in volta.

Stefano Travisani, vice campione paralimpico di tiro con l’arco, il secondo posto di Tokyo 2020 nella gara mista in coppia con Elisabetta Mijno l’aveva digerito con una certa dose di amarezza: "Questa per me è una medaglia persa. Ma è la mia prima Paralimpiade e va bene così", aveva detto.

A distanza di tre anni, l’emozione degli esordi è spenta e l’occasione di rifarsi, sulla pedana di Parigi 2024, a portata di freccia. Ovviamente, in attesa di scoccare, gioca al ribasso. "Al momento non ho aspettative: tutti vogliono vincere, anche io, ma non mi sbilancio e non faccio promesse se non quella di dare il massimo".

Certo, dice, riconfermarsi è sempre difficile, c’è più pressione: ma quello che ha vinto nessuno glielo toglie e, tanto, ogni gara comincia da zero: lui guarda avanti. E, avanti, ha due appuntamenti da non mancare: la gara individuale di arco olimpico, il 4 settembre, e quella a coppie, sempre con Elisabetta Mijno il 5, a cui arriva con il miglior punteggio nel girone di classificazione.

Stefano Travisani, l'incidente in mountain bike e l'importanza dello sport

Trentanove anni da compiere a metà settembre, architetto, un passato da atleta nella MTB, racconta la sua storia partendo dal giorno che ha cambiato tutti i suoi piani. "Anche nella mia vita di prima ero uno sportivo, ed è proprio facendo sport che ho incontrato il mio destino", dice.

"Il 13 giugno 2015, in sella alla mia mountain bike, mentre scendevo lungo il percorso in un bike park, sono caduto in un vuoto non segnalato e nonostante le protezioni che indossavo, mi sono fratturato la colonna vertebrale. Avrei potuto incolpare la bicicletta, sentirmi tradito, ma la verità è che doveva andare così: poteva succedere in mille altri modi e invece mi è capitato mentre facevo quello che amavo di più. Anzi, lo sport è stato quello che mi ha aiutato fin dalle prime settimane a rimettermi in pista e riappropriarmi di una vita che ovviamente era cambiata".

Lo sport mi ha aiutato fin dalle prime settimane a rimettermi in pista e riappropriami della vita

Intervista a Stefano Travisani, alle Paralimpiadi a caccia di un oro nel tiro con l'arco

Come sei finito a tirare con l’arco?

"Mentre ero ancora in riabilitazione, mi sono messo in testa di partecipare alle Paralimpiadi: a Rio mancava un anno ed era fuori discussione, ma per Tokyo c’era tutto il tempo. Mi sono attaccato a quel pensiero e, all’unità spinale dove facevo riabilitazione, ho provato tutti gli sport a disposizione compreso, appunto, il tiro con l’arco. Che non avevo mai fatto prima e su cui ero scettico perché per me lo sport era sempre stato adrenalina. Con il tempo, ho scoperto che c’è più adrenalina a tirare una freccia che sulla mia amata bici".

Dello sport paralimpico, prima dell’incidente, che cosa sapevi?

"Praticamente nulla, perché nei vari sport che facevo non mi era mai capitata l’occasione di incontrare atleti con disabilità. Mi sono trovato catapultato in questo mondo dalla sera alla mattina, e il mio primo affaccio è stata la televisione: mentre ero ricoverato, trasmettevano delle gare e, guardandole, ho pensato che quella potesse essere una soluzione giusta per me".

Tra i tanti sport che poteva fare, perché proprio il tiro con l’arco e non, magari, l’handbike?

"Perché nel tiro con l’arco non ci sono distinzioni tra atleti normo e non. Non ci sono adattamenti nel regolamento: si compete tutti insieme e questa è la molla che mi ha spinto, soprattutto all’inizio. Mi piaceva l’idea di andare in gara e non sentirmi diverso, o una categoria a parte. Poi c’è stata anche la soddisfazione di battere tanti atleti normo e piazzarmi nei primi 20 del ranking nazionale. L’arco mi ha fatto rinascere e mi ridato un futuro. Tanto che, tra investire tempo nella riabilitazione e investirlo negli allenamenti, ho preferito la seconda opzione. Due anni dopo l’incidente, ero Campione del Mondo nel circuito paralimpico. E questo ha voluto dire tanto".

Potrei pensare a quello che quello che ho perso, ma preferisco considerarmi fortunato

È una questione di prospettiva?

"Sempre. Potrei pensare a quello che quello che ho perso e alla sfortuna che ho avuto, ma preferisco considerarmi un uomo fortunato. La mia lesione è incompleta e, anche solo per cinque minuti, ma riesco a stare in piedi. La verità è che sono un miracolato: potevo rompermi l’osso del collo e non avere nemmeno l’opportunità di tirare con l’arco. E invece, ho vissuto esperienze che mai avrei avuto occasione di fare".

Nel tuo racconto non c’è mai rabbia. Possibile?

"Non voglio sminuire quello che mi è successo: i 30 anni li ho festeggiati in ospedale. Avevo tanti sogni, una vita davanti ancora da costruire, un lavoro da architetto a cui ho rinunciato perché nei cantieri in carrozzina non ci potevo andare. Però lo sport mi ha dato un’alternativa vera, bella: mi sono licenziato e ho scelto di dedicare tutto il tempo a questo progetto e vivere da atleta anche prima di entrare nei gruppi sportivi dell’esercito".

Il modo in cui si parla dello sport paralimpico la convince?

"Non sempre. Non mi piace quando ci chiamano eroi: non non siamo eroi, siamo persone che hanno avuto un incidente e, dopo, hanno avuto la forza di reagire invece di chiuderci in casa e cedere alla depressione, tentazione molto umana. Noi, prima di tutto, siamo degli atleti. Io faccio la stessa vita dei miei colleghi olimpici anche se, spesso, con il doppio della fatica e tutte le difficoltà del caso. Per esempio, con la circolazione rallentata per colpa della paraplegia, i miei tempi di recupero sono più lunghi. Però faccio tutto quello che fanno gli altri, e questo per me vuol dire tanto. Quando ripenso al mio percorso, mi riempio di orgoglio".