Elena Di Cioccio: «Finalmente lo dico: sono sieropositiva»

Come si vive 21 anni senza essere sé stessi? Lo sa l'ex Iena Elena Di Cioccio, che ha deciso di rompere il silenzio sul suo segreto più grande.  E poi la cocaina, il suicidio, le botte: qui, e a breve in un libro, fa il suo coming out per, finalmente, iniziare la sua terza vita. Insieme a una Regina
Elena Di Cioccio «Finalmente lo dico sono sieropositiva»

Questa intervista è stata pubblicata sul numero 14 di Vanity Fair: è stata una delle più apprezzate dalle nostre lettrici e dai nostri lettori nel 2023. E ve la riproponiamo qui.

Tutto è avvenuto, ormai, quando si spostano dal frigorifero, nascosti dietro la lattuga, e arrivano sullo scaffale della cucina. I farmaci antiretrovirali contro l’Hiv sono ora dentro una scatola su cui c’è scritto «Ti amo». «Così mi ricordo ogni mattina quello che non sono mai stata in grado di fare: volermi bene», dice Elena Di Cioccio, gli occhi lucidi. È la prima volta che parla del suo libro, Cattivo sangue, che segna l’inizio della sua terza vita, quella libera da segreti. Nella prima c’è Elena bambina, felice a casa delle nonne, e contro il mondo, a Milano, in quella dei suoi genitori, Anita e Franz, due figli dei fiori che si sono sposati giovani e separati quando lei aveva sei anni. «Era la fine degli anni ’70, nessuno sapeva esattamente cosa fosse un divorzio e i figli dei divorziati: è stata un’infanzia difficile», racconta Elena, lo sguardo che corre verso Regina, il cane nero con le zampe bianche che, dice, «è la mia famiglia». La seconda vita inizia a 28 anni, quando scopre di essere sieropositiva e decide di non dirlo a nessuno, fino a oggi, salvo ad alcuni fidanzati, poi ai genitori e alla sorella, ad alcuni amici. «Mi sono buttata sul lavoro in radio e in tv, e la sera tornavo a casa e mi stordivo, per non pensare».

Quanta emozione prova all’inizio della sua terza vita?
«Sono felicissima di poter finalmente dire: sono sieropositiva. È una grande liberazione».

Partiamo dalla prima: racconta di essere stata una bambina con un disturbo d’ansia e fobie, come quelle per i ragni e gli squali.
«Scrivo anche che, più avanti, vandalizzavo auto, case, spray sui muri, sassi alle finestre, con gli amici rubavamo per il gusto di rubare».

I suoi genitori cosa le dicevano?
«Ero una bambina che viveva in un contesto troppo grande per lei, le mie esigenze venivano sempre dopo. Mio padre era spessissimo via per suonare (Franz Di Cioccio è tra i fondatori della Premiata Forneria Marconi, ndr) e nessuno si trovava a tavola a fine giornata a chiedere: come è andata oggi?».

Lei è molto onesta nel racconto, fa la tara del fatto di avere avuto genitori alternativi e un padre rockstar, un po’ il suo supereroe.
«E io ero anche una testa calda. Nel libro non parlo molto di mio papà, mai del suo gruppo, del mio patrigno e della mia matrigna dico tre cose, quelle che restano, perché c’è un diritto alla privacy che non intendo violare. Parlo di me, soprattutto. Nella mia storia non c’è uno bravo e gli altri intorno sono tutti cattivi. Ognuno deve spazzare la propria parte di marciapiede, anch’io ho un milione di responsabilità».

Quali?
«A 15-16 anni ero difficile, a 18 incazzatissima, facevo uso di cocaina,
avevo una proprietà di linguaggio che mi permetteva di intavolare discussioni, e non avevo paura di niente, fuori. Dentro, di tutto».

Chi l’ha salvata?
«Mia madre, quando avevo 22 anni. Si era accorta, a un matrimonio, di un viavai dal bagno. Mi ha guardato in faccia e mi ha detto: “Anche tu, no, amore, per favore no”. Quel giorno, la sua delusione, il mio imbarazzo, l’essermi sentita una perdente invece che la figa che pensavo di essere, mi hanno fermato. Ci ho messo mesi a smettere, ma ce l’ho fatta: sono militare quando decido una cosa. Mai più fatto uso».

Neanche dopo, lavorando nel mondo dello spettacolo?
«Mi è capitato di trovarmi in situazioni dove la coca girava, certo. Ma non ho ceduto. Oggi non fumo, non bevo, non sono neanche addicted dello yoga che pratico».

Con sua madre ha recuperato un rapporto più avanti. Di suo padre invece scrive che «non c’è stato», anche dopo avergli confidato la sua sieropositività. 
«Mia madre, nel suo modo contorto e strano, e con i suoi mezzi, ha fatto tutto quello che poteva per me. Su mio padre non ho molto da dire, a parte che ognuno ha le sue priorità. Io ho capito tardi di averne, ero sempre in scena in funzione di altri».

A 28 anni si è scoperta sieropositiva. Come è successo?
«Era l’11 febbraio 2002 quando ho saputo dagli esami del sangue, che facevo ogni sei-otto mesi, compreso il test per l’Hiv, che ero infetta. Era sconcertante perché all’epoca ero un’integralista, temevo le malattie a trasmissione sessuale e mi proteggevo. Avevo convinto anche il mio nuovo fidanzato a fare il test. Peccato che tra l’ultimo esito negativo e quel ragazzo qualcosa è andato storto».

Ai fidanzati importanti ha confidato il suo stato. Con uno non è andata bene.
«C’è chi mi ha accolta e chi ha finto e poi è stato un carnefice. Ogni carnefice ha bisogno di una vittima e viceversa, io con la mia autostima sottozero ero una facile preda».

L’ha pestata a sangue e lasciata sull’asfalto.
«Sì, terribile. Ma ci concentriamo sempre sulle botte e poco sulla violenza psicologica. Avere paura tutti i giorni che stia per succedere qualche cosa è un continuo fare a pezzi la tua autonomia. Io avevo toccato il fondo».

È allora che ha pensato al suicidio?
«Ricordo bene quel giorno, io con i piedi che sporgono dal cornicione del palazzo dove ero cresciuta, e il suo messaggio: “Adesso mando a tutti i numeri della mia rubrica, che è quasi identica alla tua, che sei una sieropositiva di merda”. Sentivo di essermi infilata in un tunnel, come quelli che mentono sulla laurea o che hanno i debiti o vengono licenziati e non lo dicono in famiglia, come nell’Avversario di Carrère».

Che cosa le ha fatto fare un passo indietro anziché in avanti?
«Un’illuminazione: avrei solo dato di nuovo potere a quell’uomo, per l’ennesima volta non mi sarei occupata di me. Peccato che poi, anche se quell’uomo l’ho lasciato ho solo cambiato dipendenza: mi sono messa a lavorare come una matta, e mi stordivo di marijuana».

Si riferisce al periodo in cui era una Iena in completo nero?
«Sì, Velena di giorno, sana e superperformante, ed Elena di notte, depressa, malata, strafatta di canne».

Non se n’è accorto nessuno?
«No. Mettevo in scena la sicurezza per nascondermi da chi non sapeva, e per rassicurare chi sapeva».

Quanto pesa un segreto simile?
«Significa che non sei mai onesta con nessuno, è come non vivere. Avevo paura di essere me stessa, temevo di essere squalificata dalla partita. Ma la partita di chi?».

Per l’Aids è tutto cambiato dal 2002.
«Certo, io sono figlia dello stigma, del pregiudizio del secolo precedente, dell’alone viola della Pubblicità Progresso. Quando ho scoperto di essere sieropositiva Freddie Mercury non era morto neanche da dieci anni e solo Lady Diana aveva capito come si trasmetteva, andando negli ospedali a parlare coi malati di Aids».

Ora è tutto diverso, lato terapie.
«È più facile parlarne perché la medicina ha fatto passi da gigante, una paziente come me negativizzata non è contagiosa. Io oggi, dopo anni di terapia antiretrovirale, non posso infettare, posso avere rapporti senza preservativo, e potrei partorire in modo naturale. Anche se l’endometriosi ha reso ostico il mio percorso di maternità».

Quando ha deciso di fare coming out con un libro?
«Avevo frammenti in vari diari, ma durante il lockdown è diventato necessario mettere in ordine la mia storia per intero. Il cambiamento interiore era già avvenuto, avevo lasciato agente, amici, chiuso una storia importante, e mi preparavo a lasciare Roma, dopo 12 anni, per ricominciare a Milano, nel 2020».

Ma è arrivata la pandemia.
«E la solitudine, in una casa vuota. Ho scritto una prima stesura, ma edulcoravo. Ne ho scritta una seconda, con dentro di tutto. Alla fine ho ripulito, perché c’erano cose che non serviva dire: il libro che uscirà è la mia storia cruda».

È stata una forma di terapia.
«Una psicoterapeuta mi ha spiegato che il trauma è come una ferita che sotto suppura anche se l’hai chiusa. Quindi devi riaprirla, tagliare la pelle, e fa male, ripulire e poi richiudere. La cicatrice resta, e devi accettarla. Il libro racconta molte delle deviazioni intraprese per non aver affrontato i miei traumi».

Quando ha smesso di deviare?
«La molla del cambiamento è stata il suicido di mia madre, nel 2016».

Vuole raccontarlo?
«Il lutto di una madre è sempre devastante, comunque muoia. Nel mio caso lei era la mia unica figura genitoriale. Era depressa e io le avevo anche confessato i miei timori di essere trascinata giù con lei: mi aveva salutata, aveva capito». Pausa. «All’inizio ti occupi delle cose burocratiche e ti tieni occupato, poi entri in un’altra fase del lutto: lì mi sono resa conto che avevamo la stessa dinamica, che avrei fatto una brutta fine anche io, se non fossi cambiata, del resto avevo accarezzato più volte l’idea di farla finita. Ho deciso di dare una svolta. Avevo da parte dei soldi grazie al mio lavoro e mamma mi ha lasciato qualcosa, quindi potevo anche fermarmi, occuparmi di me».

Da dove ha iniziato?
«In campagna, nella casa della mia amata nonna, mi sono messa a tagliare la legna, pulire il giardino, costruire mobiletti. Ha presente le cose che si fanno nei montaggi cinematografici?».

Sì, ma il mobiletto di legno poi non lo fa nessuno davvero.
«Io sì! Poi a un certo punto ho detto: ho bisogno del mio mestiere. Sono un’attrice, una performer. Ma erano solo dei gran “ti richiamo”, e poi il nulla. Era molto peggio di quello che mi aspettavo: poi per fortuna ho trovato due meravigliose agenti e sono tornata a fare progetti, film, radio. E ora finalmente esce il libro».

Nei ringraziamenti scrive: mi scuso con chi non sapeva. Ha paura delle reazioni degli altri?
«No, perché ormai tutto il male che potevo farmi l’ho già fatto io a me stessa: la mia è una storia di auto-discriminazione, che cosa mi può importare se qualcuno mi insulta? Sono su un altro livello».

Quale?
«Ho resistito tantissimo a dire la verità. Ma la verità rende liberi. Lo dice Gesù Cristo nel Vangelo, anche se io sono buddista. Ho accettato che l’Universo mi dicesse: “Adesso ti metto il mazzo in fila, queste sono le carte. Non serve che mischi, usciranno sempre queste, la carta della salute non c’è. Accetta te stessa, la malattia, tua mamma, la tua famiglia, la vergogna, l’abbandono, il tradimento. Fai pace”. Ho fatto tutto il percorso e l’ho superata. Ora sono anche quella persona lì, ma non solo».

Qual è la prima cosa che si godrà, dopo questa intervista?
«Adesso che tutti sapranno, non devo più dire “Mi piaci un sacco, però, virgola, ti devo dire una cosa, due punti”, e scrutare la reazione. Chi vorrà essere nella mia vita lo farà liberamente».

E la scatola dei farmaci resta in bella vista.
«Sì, anche se ora vorrei cambiare terapia e fare quell’iniezione che mi consentirebbe di non dover prendere pillole ogni giorno. Un bel viaggio, con la nuova Elena».