Itako, le donne giapponesi che parlano con gli spiriti: la diretta testimonianza di chi le ha incontrate dal vivo

le Itako sono sciamane della cultura popolare nipponica, da collocarsi idealmente a metà tra le differenti religioni locali, tutte però accomunate dalla costante interazione con l’Aldilà
Itako le donne giapponesi che parlano con gli spiriti la diretta testimonianza di chi le ha incontrate dal vivo

Il tema universale della morte, in Occidente, è un territorio la cui maggioranza preferirebbe lasciare inesplorato, a tal punto da costituire un vero tabù. Ma in Oriente così non è e con la morte ci si impegna ad avere invece un rapporto da riprendere e rivalutare, al fine di non dimenticarne l’importanza.

Marianna Zanetta, antropologa, ha scritto su questo un saggio intitolato Itako, Sciamane e spiriti dei morti nel Giappone contemporaneo (Mimesis, pagg. 258, € 20), in cui affronta il tema del lutto e dei riti funebri attraverso le itako le sciamane giapponesi capaci di relazionarsi con il mondo dei morti. Una credenza che nel paese del Sol Levante, durante gli ultimi settant’anni, è andata incontro a trasformazioni, rafforzandosi.

1 Le donne itako del Giappone che parlando con i morti, la storia di Nakamura. Immagine @UtagawaKuniyoshi


Il delicato sorriso di Nakamura

Per conoscerle più da vicino, l’autrice è andata a spasso tra i boschi e le montagne sperdute nel profondo Nordest del Giappone, svolgendo ricerche approfondite sul campo, proprio lì dove queste signore, non vedenti, dall’aria enigmatica e piena di fascino, abitano. Una di loro si chiama Nakamura Take e la sua storia ha percorso 10.000 chilometri per arrivare fino a noi.

Tra le diverse itako che ha visto di persona, Nakamura è quella che più le è rimasta impressa, quella che più di ogni altra voleva raccontarci. Come mai? Cosa la rende unica?
«Perché lei è la donna che rappresenta il simbolo e lo stile dell’itako per eccellenza. Inizialmente, era un po’ intimorita da questo incontro, perché le avevo conosciute studiandole esclusivamente sui testi. Su quelle pagine, il tutto aveva un’aura molto fiabesca. Successivamente, vedendole man mano dal vivo, è stato un po’ come dare forma, dare concretezza, a questo tipo di figura, da romanzo. Nella mia Polaroid, Nakamura aveva un’aria severa e leggermente indispettita, mentre di persona mi sono trovata di fronte ad una signora dal sorriso morbido e dal suono soffice della sua voce anziana. È stata la prima che ho incontrato, un bel modo veramente di cominciare quest’avventura».

In quale zona esattamente del Nordest del Giappone l’ha incontrata?
«A Mutsu, una cittadina provinciale di circa 60.000 abitanti, nella prefettura di Aomori, nelle vicinanze dove si solleva il monte Osore. Era luglio durante una classica estate giapponese, calda e afosa. Sono passata letteralmente dai grattacieli di Tokyo dove sono atterrata, alle foreste della penisola di Shimokita».

Come avete comunicato? Cosa vi siete dette quel giorno?
«Solitamente viene richiesto che qualcuno faccia da interprete, perché la gente della zona parla un dialetto molto stretto. Perciò pur conoscendo io il giapponese, ho incontrato Nakamura assieme ad una persona del posto che sapeva l’idioma locale. Ha parlato a lungo. Aveva molta voglia di parlare di se, della propria vita, della propria esperienza, della propria infanzia. Davanti a me ho trovato una persona aperta, sorridente e disponibile. Tutto quello che potevo sperare c’è stato. E poi sul momento ha eseguito un rituale, richiesto in anticipo dalla mia interprete, che desiderava mettersi in contatto con il nonno defunto».

Durante il rito, quando comunicano con i defunti, indossano un costume degli accessori tipici?
«Durante il rito tendono a indossare una casacca rituale bianca. Hanno poi un enorme rosario di origine buddista, l’irataka juzu, lungo e pesante, che si può mettere al collo, ma di solito, essendo molto grosso, lo tengono in mano. È fatto con delle sfere di legno, ossa di animale, piccole zanne, denti e monete. Parlando della quotidianità Nakamura aveva un abbigliamento ordinario. In estate, quando l’ho incontrata, indossava lo yukata, il kimono estivo, questo perché era una donna di un’altra epoca, ma l’ho vista anche con dei comunissimi pantaloni».

L'irataka juzu, il rosario di origine buddista. Crediti fotografici, Edmondo Perrone

Per quale ragione Nakamura è diventata un’itako?
«Da piccola all’età di tre anni aveva contratto il morbillo. I genitori non se n’erano accorti e così è degenerato, perdendo la vista e non potendo andare nemmeno a scuola. Essendo il Nord del Giappone, dove si tiene la pratica delle itako, una zona dal contesto abbastanza povera, le donne come lei, fondamentalmente, non hanno avuto scelta. Per andare avanti, per sopravvivere si sono dovute inventare un futuro».

Che tipo di percorso ha dovuto seguire?
«Nakamura è nata nel 1932, ed è diventata itako attorno al 1945, quando aveva all’incirca tredici anni. Il percorso di addestramento, che se ricordo bene è di cinque anni, viene impartito di generazione in generazione, apprendendo le varie pratiche da un’altra itako».

Devono per forza essere cieche? Fa parte dei requisiti?
«È stato così per molta parte della loro storia. Si diventa itako perché si è non vedenti. In un contesto rurale, in cui tutti devono lavorare, per non essere un peso, l’unica soluzione che rimaneva loro era la via spirituale. È stata la caratteristica dominante per secoli. Poi l’ultima itako che ho incontrato era vedente. Forse questo è un po’ l’assaggio di quello che potrebbe diventare questa professione in futuro, incluse le trasformazioni culturali che la riguarderanno, solo e sempre se sopravviverà agli scossoni della modernità».

Che ruolo rivestono le donne come Nakamura all’interno della società giapponese?
«Le itako come Nakamura sono diventate delle figure di rilievo, all’interno di una realtà complessa che caratterizza il Giappone, partendo però da una posizione molto complicata. Tra gli anni ’60 e ’70 del Novecento l’aspetto dell’occulto in Giappone, quindi della comunicazione con gli spiriti dei morti, ha avuto molto successo, facendole diventare di fatto l’emblema della comunicazione con le anime dei defunti. Ho visto con i miei occhi degli autobus partire della grande città come Tokyo e Kyoto per andare nel Nord a parlare con loro. Non immaginiamo fenomeni su larga scala, ci sono però delle agenzie che organizzano viaggi appositi di questo genere».

Chi si rivolge a loro?
«Essendo la perdita un aspetto universale che unisce tutti, non ci sono veramente confini: dal libero professionista alla famiglia, dal figlio al genitore. In fondo è un modo per andare a sopperire ad una mancanza. Nel 2011 a causa della catastrofe dello tsunami, con tanti dispersi e morti, le richieste di volerle incontrare erano aumentate. È comunque necessario sottolineare che le itako sono una dimensione molto ridotta all’interno del grande mondo giapponese».

Sono le uniche che comunicano con defunti?
«Circoscrivendo il tema al Giappone, ci sono altre praticanti che fanno esorcismi, che scacciano gli spiriti, soprattutto nel buddismo, ma non loro. La tipica invocazione dei defunti è per antonomasia da attribuire alle itako. Adesso sono particolarmente famose per questo aspetto, ma erano anche guaritrici, benedicevano le case, invocavano gli dèi, erano sciamane nel senso più ampio del termine».

Lei dice che la tradizione della itako ci spinge a riflettere sul tema della morte in Occidente. In che modo?
«È proprio il tema della morte in generale che l’Occidente non affronta. C’è un netto rifiuto ad avvicinarsi a questa dimensione. Noi, in Italia, in Occidente, non ne parliamo praticamente mai. È un tabù oramai storico. Così facendo ci perdiamo una serie di dinamiche che sono culturalmente e socialmente molto interessanti. È importante che riprendiamo questo confronto, perché ci dice molto del valore che possiamo dare alla vita e alle sue varie fasi».

La copertina del libro di Marianna Zanetta, Itako, Sciamane e spiriti dei morti nel Giappone contemporaneo (Mimesis, pagg. 258, € 20)