di Edoardo Vigna - @globalist

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Dire che scalpiti è un eufemismo. Il figlio di Yoweri Museveni – 78 anni, padre-padrone-presidente dell’Uganda da 40 – scalcia come un mulo per prendere il posto del padre. Muhoozi Kainerugaba, 48 anni – non più un ragazzino, insomma – generale e capo delle forze armate, non si tiene più: ha appena detto chiaro di «essere stanco di aspettare», e a giorni alterni twitta l’annuncio di candidarsi per il voto del ’26. Museveni, però, ostenta buona salute e nessuna intenzione di farsi da parte, pensando invece a “intronare” l’erede solo alla propria dipartita. Intanto tira dritto con decisioni drastiche, contestate anche dall’Onu, come quella approvata dal Parlamento di punire con la morte gli atti omosessuali.

A “Junior”, però, Museveni perdona tutto: tra le ultime esternazioni, la dichiarazione del desiderio di voler invadere il Kenya e ora quella di voler mandare i soldati a difendere Putin contro l’Occidente (un messaggio a Mosca, da cui l’Uganda, avamposto del risiko russo in Africa, compra armi). Muhoozi ha lanciato pure MK, brand per movimento politico, tv e radio personali. Nessuno crede che l’élite possa cambiare cavallo. Ma l’esuberanza del figlio è parsa al limite anche al padre: niente di nuovo sotto il cielo (shakespeariano).

Ranger e pubblici ufficiali non corrotti. Pronti a combattere, con il proprio lavoro, per salvare gli elefanti. Alla fine il segreto è tutto lì. Funziona? Può funzionare. Come accade in Uganda. Che è diventato un Paese modello nella difesa dei pachidermi, la cui strage continua nel resto dell’Africa al ritmo di tre esemplari uccisi illegalmente ogni ora.

Uno studio sostenuto dal co-fondatore di Microsoft — Paul Allen — prova invece che gli elefanti ugandesi, ai minimi termini negli anni 80, sono tornati (da7/800 che erano diventati dopo l’era del tiranno Idi Amin) a essere più di 5 mila. «È la prova che una buona legge fatta rispettare rende possibile invertire la rotta verso l’estinzione», dice Simon Hedges, della Wildlife Conservation Society.

E la prova sta anche nel fatto che, al contrario, dall’altra parte del lago Vittoria, in Tanzania il massacro continua come e più di prima. Il mercato dell’avorio, alimentato soprattutto dalla domanda cinese, fiorisce grazie all’alleanza — evidenziato da un report dell’ong britannica Environmental Investigation Agency — tra gang di Pechino e ufficiali tanzaniani corrotti, agevolato dal proliferare di porti attraverso cui le zanne sono esportate. Ma la “lunga marcia” degli elefanti lontano dal cimitero ha trovato un punto di partenza.

Così la gioventù ugandese ha salvato le banane. 14 milioni di ugandesi ne mangiano ogni giorno: sette etti di consumo quotidiano a testa. Nessuno, al mondo, fa di più.

Finché un bel giorno, arriva un batterio – la sigla è Bbw, banana bacterial wilt – che minaccia le colture nazionali, distruggendole così rapidamente che, se non fosse stato fermato, rischiava di far fuori la produzione nazionale in un anno. Finché una consulente della Banca Mondiale, Lyudmila Bujorenu, ha cominciato a mandare sms.

Appena ha saputo del Bbw, ha pensato infatti a U-report, una rete di comunicazione creata dall’Unicef in Uganda per dare una voce ai giovani, che conta 240mila U-reporter. Fatto uno più uno, ha inviato un messaggio a tutti, invitandoli a verificare se i sintomi della Bbw fosse presente nelle piantagioni a loro portata.

Entro 24 ore dal primo sms, le risposte sono state 35mila. Nei giorni successivi sono state inviate a tutti – da diffondere – le istruzioni per contrastare il batterio. In pochi giorni, 190mila ugandesi sapevano come salvare le banane. Ed evitare una perdita (nazionale) di 300 milioni di euro.

Il primo lunedì di ogni mese scendono in marcia per le strade di Kampala vestiti di nero: «Siamo in lutto per la perdita del denaro pubblico che dalle casse dell’Uganda finiscono nelle tasche dei corrotti», spiegano i leader del Black Monday Movement. I cartelli, pacifici quanto duri, ripetono la stessa cosa: “Restituite i soldi e dimettetevi”. Niente anti-politica: nel cuore dell’Africa la società civile, come sottolinea uno dei più autorevoli commentatori di questa regione, André-Michel Essoungou, è scesa in piazza per costringere l’élite di governo a farla finita con un saccheggio sistematico della collettività. Se c’è un limite, a questa lotta, è che non è la prima volta che parte, nel continente, ma grandi risultati non se ne sono visti. Già una ventina d’anni fa, hanno cominciato gli attivisti sudafricani: oggi il Paese è sceso ancora, al 72° posto (su 175), nella classifica della corruzione di Transparency International. Eppure la società civile di Pretoria e delle altre grandi città non demorde: da 11 mesi, Corruption Watch raccoglie denunce (1.227, a oggi) che rilancia via social network. Nella Repubblica Democratica del Congo, in Senegal, in Nigeria, le comunità stanno reagendo con energia. Ovviamente il compito è enorme: impari, forse, rispetto al risultato necessario. Ma, a cominciare dall’Uganda, la società civile non sembra avere intenzione di arrendersi.

Imponiamo una tassa supplementare del 5% sull’alcol e usiamo il ricavato come fondo per la riabilitazione degli alcolisti o per le famiglie delle vittime.

Perché l’Africa ha un reale problema di etilismo. E qualcuno lancia anche proposte concrete: come quella di cui sopra, avanzata dall’Uganda Alcohol Policy Alliance, che esplicitamente ha posto la questione in uno dei Paesi Sub-Sahariani più colpiti dalla piaga (e a livelli mai raggiunti).

I dati continentali parlano ormai di una vera e propria epidemia: il 25% dei binge drinkers (gli “sbronzi della domenica”) di tutto il mondo vivono qui. E la somma delle ragioni è evidente: popolazione molto giovane – con relativa alta disoccupazione in questa fascia d’età; classe media in espansione continua – con relativo maggior potere d’acquisto; tasse favorevoli alle multinazionali delle bevande alcoliche, che trovano qui un nuovo mercato ideale; agevolazioni ai birrifici locali che creano posti di lavoro.

C’è ora chi invita a prendere atto del problema, che raddoppia i costi se si considerano quelli che pesano sul sistema sanitario nazionale. Così, in Sudafrica s’è ragionato sul bando della pubblicità degli alcolici, mentre in Kenya il governo s’è fatto promotore di una conferenza nazionale sul tema.

I più determinati, però, sembrano gli ugandesi, con la loro proposta di tassa per finanziare centri di riabilitazione e aumentare le forze dell’ordine per far rispettare la legge – finora assai poco rispettata – che vieta la vendita ai minori, teenager e universitari, le prime vittime della patologia.

Si ritrovano in gruppi, a parlare. Loro, le ragazze, hanno tra i 13 e i 21 anni; la “mentore” che guida la conversazione – e cerca di portarle sugli argomenti “giusti” – ne ha solo uno o due di più. Discutono di musica e poesia, ma anche dei problemi della vita per giovani della loro età.

E così arrivano a confrontarsi su mestruazioni e metodi anticoncezionali (molte famiglie hanno insegnato loro che prendere la pillola è sbagliato e porta alla sterilità…), Aids e, soprattutto, violenza sulle donne.

Argomenti a lungo tabù nei villaggi del remoto Karamoja, il Nord-Est dell’Uganda, a 420 chilometri di strada per lo più sterrata dalla capitale Kampala.

Un milione di persone vivono nella regione, e fra loro matrimoni precoci – a partire dai 13 anni –, gravidanze non volute (il Paese africano ha il 5° tasso di incremento della popolazione al mondo, con una media di 6,2 figli per donna), e disoccupazione giovanile (al 62% tra i 15 e i 24 anni), prima di tutto femminile, sono ancora la regola.

Ma i “club delle ragazze”, che sono già 1.200 in tutta l’Uganda, funzionano. La partecipazione alle conversazioni è alta – si parla di 50mila ragazze – e i risultati si vedono. Basti dire che l’uso del preservativo è salito in breve tempo del 50% e il problema delle gravidanze precoci sceso del 26%: ancora più significativa, e incredibile, la percentuale di partecipanti che hanno dichiarato di avere avuto, nell’ultimo anno, rapporti sessuali contro la propria volontà, passata dal 21% a zero.

A organizzare questi gruppi, ecco un’altra bella storia in questa bella storia, è la più grande organizzazione non governativa del mondo, Brac, creata nel ’72 a Dhaka, oggi impegnata con 100mila persone ad aiutarne 126 milioni.

Una grande lezione: il poverissimo Bangladesh insegna quanto sia importante “dare potere” alle donne. E in Uganda lo fa, naturalmente, anche insegnando loro i rudimenti necessari ad avviare piccole attività imprenditoriali, dalla sartoria all’agricoltura. Prima dell’avvento di Brac, solo il 6,5% delle giovani donne coinvolte lavorava in proprio, ora è già il 32. I “club delle ragazze” funzionano, e – per il momento – i villaggi sembrano averli accolti bene.

La sua famiglia arrivò in Uganda dall’India nel 1890 e cominciò ad aprire piccoli commerci. Quando il dittatore Idi Amin Dada buttò fuori gli asiatici dal Paese, nel ’72, i Thakkar persero tutto.

In Africa ci sono tornati nel 1993: Rwanda, un attimo prima del genocidio, e di perdere di nuovo tutto. Ashish allora aveva 10 anni, e negli occhi la strage indicibile per le strade. Cinque anni dopo, con la famiglia, ha ricominciato in Uganda. Lui vendeva computer ad amici e amici degli amici. Ha allargato il business, ha cominciato a far la spola con Dubai per prendere pezzi da commerciare.

Ora Ashish ha 29 anni e un gruppo (Mara) da 100 milioni di euro con 7mila dipendenti in 19 Paesi africani, dove si occupa di tutto, dall’immobiliare ai servizi alla finanza, dall’information technology alle energie rinnovabili. All’ultimo Forum di Davos era ospite d’onore. Ma, soprattutto, è considerato forse l’unico imprenditore in grado di aprire le porte di tutto il Continente.

“Gli investitori globali hanno l’acquolina in bocca per l’Africa”, scrive l’Economist. “E i soldi veri stanno nel riuscire a vendere d’ogni alla classe media emergente. Ma le società straniere hanno bisogno di una guida”.

Lui, appunto: Ashish Thakkar, l’indiano d’Africa.

 

Ogni gorilla di montagna “rappresenta” un giro d’affari di un milione di dollari, creato dal turismo (e indotto) che paga per vederli in natura, nelle foreste tra Uganda, Burundi e Congo.

E nel Bwindi Impenetrable National Park ugandese, evidentemente, questo valore “paga”: secondo l’ultimo censimento, la popolazione è aumentata da 302 a 400 esemplari, portando il totale a 880.

Si spera che il “messaggio” passi al di là dell’Uganda, dove le comunità locali vengono coinvolte con vari progetti nella redistribuzione dei ricavi: in Congo, in particolare, i gorilla sono minacciati da caccia di frodo (per la carne) e deforestazione provocata dallo sfruttamento delle risorse minerarie.

In fondo, un milione di introiti a esemplare è molto più di quanto altri business possono promettere.

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Ci mancava solo l’ennesima invasione dei giacinti d’acqua. Il lago Victoria, il secondo più grande del continente africano, aveva già i suoi bei problemi. A cominciare dall’inquinamento che arriva dagli immissari, tra scorie delle fabbriche e scarichi degli insediamenti urbani che si affollano sulle sue rive ugandesi, keniane e tanzaniane.

La sovrappopolazione stava mettendoci il suo carico: 30 milioni di abitanti accatastati su ogni lato, con una delle densità rurali più alte del mondo, che alimenta una pesca che sta ormai svuotando le acque del bacino, con la sparizione del 50% delle specie (ci vivono 400 dei 1.700 tipi di appetitosi pesciolini – i ciclidi – della Terra).

La riapparizione dei giacinti-killer rischia di essere il colpo di grazia. Perché sono anche belli,
ma da quando – alla fine del 1800 – sono arrivati qui dal nativo Sud America, hanno continuato a creare problemi. Le foglie spesse e i fiori blu raddoppiano ogni 5 giorni, fanno strage privando della luce flora e fauna sottostante lungo le rive del lago, e impediscono anche il semplice attracco delle barche dei pescatori, la cui economia ora lamenta – per bocca di Michael Nyaguti, leader del Magnam Environmental Network, una perdita complessiva pari a 370mila euro al giorno. E di 11 milioni di euro solo nell’ultimo mese.

Nel ’95 la diffusione era arrivata a un tale livello da indurre i governi dei tre Paesi bagnati a intervenire con un piano massiccio di estirpazione, che quattro anni dopo aveva portato quasi all’estinzione della pianta. Come sempre, quando ci si rilassa, accade il peggio.

Ora, di fronte a questa invasione senza precedenti, si procede in ordine sparso:
nella contea keniana hanno schierato perfino 4mila ragazzini delle scuole a strappare piante; Carolina Agwanda, capo della Hyacinth Ornaments Production Enterprises, chiede di poterli raccogliere e utilizzare in impianti in cui lavoratrici possano trovar lavoro per realizzare, con le fibre, corde, mobili e borse; ci sono anche tentativi di introdurre coleotteri (sempre dal Sud America) in grado di “sbranarli” (ma pare siano troppo lenti).

Servirà ripristinare una collaborazione coordinata e massiccia, un progetto importante. E potrebbe essere un’altra buona occasione per Kenya, Uganda e Tanzania, per lavorare insieme.