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Sognando la meta
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E-book136 pagine2 ore

Sognando la meta

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Info su questo ebook

“Sognando la meta” è un vortice di emozioni che avvolge i vari protagonisti della storia. C'è dentro la passione per il rugby, la ricerca di sé, i Sud che si incontrano (l'Etiopia e la Calabria), la voglia di riscatto, la lotta contro la 'ndrangheta, la precarietà emotiva e lavorativa, le amicizie forti come le grandi pietre, il sogno come luogo di incontro e la realtà come spazio nel quale l'amore prende forma e si agita come le onde del mare. In queste pagine Sofia, Ettore, Sergio, Claudio e tutti gli altri crescono nutrendosi l’uno dell'altro e delle infinite possibilità che la vita mette loro davanti quando aprono gli occhi e ogni dove diventa la patria insperata della bellezza, il profumo da seguire per raggiungere la felicità.
LinguaItaliano
Data di uscita14 lug 2014
ISBN9786050312904
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    Anteprima del libro

    Sognando la meta - Angelina Pettinato

    ARMINIO

    Ettore

    Il fuoco acceso dei miei ricordi mi riporta veloce al primo Natale di cui ho memoria, un altro di quelli con la neve sui campi e sui tetti, immerso nella serenità che solo un bambino può provare quando si ritrova nelle braccia forti di suo padre e gli occhi accoglienti di sua madre lo rassicurano che tutto andrà bene. In quell'angolo del passato, così ancora vivo dentro di me, vedo chiaramente la danza sinuosa di carboni ardenti, sento forti i profumi dei cibi sistemati con cura sulla tavola apparecchiata a festa e quasi m’ipnotizzò pensando a quel piccolo albero, vicino alla finestra, addobbato con biscotti e luci in movimento e popolato sotto di tantissimi pacchetti colorati. Il mio obiettivo era uno solo: fiondarmi sui regali più voluminosi. In particolare, quello con carta blu e coccarda argento stuzzicava la mia curiosità: ero assolutamente convinto che il pacco più grande nascondesse il regalo più bello. E fu così, ci trovai il treno più lungo e più fantastico che potessi mai immaginare.

    Fosse stato per me non avrei scartato nessun altro pacco perché avevo quello che volevo, ma la mamma la pensava diversamente: Bisogna essere gentili e cortesi. La gentilezza è la porta d’ingresso dei tuoi sogni. Più lo sarai, più sogni realizzerai e sii grato per tutto quello che riceverai. Così mi disse, con un tono di voce basso e sicuro, che non lasciava alternative anche se il contenuto mi sfuggiva essendo, all'epoca, troppo ingenuo per quelle massime. Li aprii tutti, uno per uno con una coda dell’occhio rivolta costantemente verso il treno, finché non arrivai a quello dello zio Claudio, la cui gamba era per me l’appoggio antipunizione più sicuro al quale aggrapparmi quando combinavo guai. Il suo regalo, confezionato in arancione, era piccolo, rettangolare e molto misterioso per la mia mente acerba. È in questa scena della mia infanzia, che le emozioni di quegli istanti ritornano a galla impetuose: ero di fronte ad un libro fatto di tantissime figure. In un attimo la mia teoria il regalo più grande è quello più bello così inconfutabile fino a pochi minuti prima, si era improvvisamente tramutata in una balla colossale.

    Fui preso dall'entusiasmo di scoprire cosa stessero facendo quel misterioso ragazzino vestito di verde, senza ali ma capace di volare, insieme ad una fatina birichina e ai tre fratellini che se ne erano andati con loro nell'isola che non c’è. In quel momento l’unica cosa importante era sfogliare quel tomo magico e ascoltare lo zio che leggeva la storia, svelando ai miei occhi stupiti il mistero di quegli strani segni, incomprensibili, custodi di un grande tesoro.

    Claudio è sempre stato il mio zio preferito, forse perché ha vissuto con noi i primi anni della mia vita, trasmettendomi un grande entusiasmo per qualsiasi cosa. Sì, entusiasta è l’aggettivo che più lo descrive, che più mi fa pensare a lui. In quel famoso Natale, facendo due calcoli veloci, avrà avuto una trentina di anni. Era alto, un gran bel fisico asciutto, occhi grandi, capelli già un po’ brizzolati e con tre passioni: il ciclismo, la lettura e la recitazione. Non c’è da stupirsi quindi che i suoi primi regali fossero stati un triciclo, un libro, quello su Peter Pan, e il biglietto per uno spettacolo di marionette che si tenne nel lontano ’85, nell'unico, sovraffollato teatro della nostra cittadina. Pensandoci oggi posso dire che lui sia stato il mio mentore. A lui devo la mia passione per i libri, per gli spazi aperti e soleggiati e da lui credo di aver preso il dinamismo e la mia assoluta incapacità di stare fermo.

    Ricordo che tutti i mercoledì pomeriggio andavamo nell'unica libreria del paese, un luogo pensato nei minimi particolari nel quale ogni angolo esprimeva la passione per quella realtà fatta d’inchiostro, pensieri e poesia. Tornando indietro, guardando ancora oggi con curiosità a quel periodo lontano, sento vivo il rumore delle campanelle all'apertura della porta del negozio; vedo ancora i grandi scaffali pieni zeppi di libri colorati, un paio di tavolini di legno e tre sedie, posizionati al centro della stanza e il bancone, stile saloon vicino all'ingresso. Su di esso campeggiava un’antica collezione di penne stilografiche. E poi, non ultimo per importanza, rimane impresso nella mia memoria il signor Saverio: un uomo di grande cultura, il libraio dei film con pantaloni ben stirati, camicia bianca e su di essa un gilet color amaranto. Sul naso i classici occhialetti con la montatura nera, sguardo attento e intelligente e pettinatura impeccabile: riga a destra a nascondere con il riporto una pelatura in evidente stato di avanzamento.

    Tutti i sabati, invece, andavano in bicicletta nel campo vicino casa ed è lì, e non in libreria, che ad appena cinque anni, mi ha insegnato a leggere.

    Così come lo zio mi aveva riempito la vita, allo stesso modo, con la medesima intensità si apprestava a farmi del male. Dopo otto anni vissuti insieme, un giorno di primavera, mi comunicò che si sarebbe trasferito in un’altra città. Quell'evento ha segnato il mio primo giro di boa. Delle sue tre passioni, una era andata in porto: era stato ingaggiato in una compagnia teatrale. Avrebbe dovuto trasferirsi a Roma, troppo lontana per un bambino di una piccola cittadina, troppo lontana per un bambino che sta imparando a comprendere gli spazi e che ancora vede il mondo come troppo grande, troppo immenso. Fu un colpo per tutti, lo fu per me e lo fu soprattutto per mia madre Caterina.

    La mamma, la più grande di tre fratelli, rimasti ben presto orfani di madre, aveva dovuto fin da giovanissima smanicarsi e prendersi cura della famiglia. Il padre – mio nonno Ettore – tenero e dall'aria triste, lavorava in fabbrica e, per sbarcare il lunario, faceva anche il muratore. Non fece mancare loro mai nulla dell’essenziale e, di tanto in tanto, come solo sa fare chi sa gestire con intelligenza i pochi soldi che ha, arrivava con dei cioccolatini e un buon libro. Si sedevano tutti e quattro intorno al caminetto e lui leggeva la storia di turno. Claudio, seduto in braccio a Caterina ascoltava estasiato: se la mia passione per la lettura era nata in quel Natale, quella di zio Claudio era nata in quei momenti di sacra intimità familiare. Mia madre, una donna posata, determinata e discreta, aveva incontrato mio padre Antonio in un parco. Uscita dalla messa, era andata con una sua amica a fare una passeggiata e lo aveva visto eseguire delle strane acrobazie insieme ad un bambino. Eleganti, sicuri, tra salti ed equilibri precari si muovevano senza sbagliare niente di fronte a un pubblico numeroso e affascinato da quella danza poetica. Lei se ne era innamorata subito, a prima vista, ed era tornata nel parco dove lo aveva incontrato la prima volta, ogni domenica per tutta l’estate. Io avrei mollato dopo due. Poi, con l’autunno tutto tacque. L’acrobata sparì ma, come spesso accade, chi s’innamora riesce a custodire nel proprio cuore il sogno, un disperato ultimo appiglio, di poter rivedere la persona amata.E così fu. Qualche mese dopo, per strada, distratta e piena di buste della spesa, gli andò letteralmente addosso; lui la guardò sorridendo, lei avrebbe voluto scomparire per l’imbarazzo.

    La loro storia ebbe inizio lì, in quel luogo, con pacchi di pasta, saponette e frutta sparse per il marciapiede. Quando morì nonno Ettore, per paura che le portassero via i fratelli, ancora minorenni, mia madre decise di comune accordo con papà di sposarsi, e lo fecero nella chiesa del paese, con pochi invitati. Lei aveva un vestito bianco semplicissimo, liscio, con una fascia di raso sotto al seno a evidenziare un fisico proporzionato e piacevole da guardare; lui indossava un vestito blu. Erano andati ad abitare in una casa piccola ma più spaziosa di quella paterna: un cucinino con soggiorno, due camere e un bagno, abbastanza grande per accogliere una famiglia di quattro persone. Antonio, l’acrobata, insegnava lettere e storia in un liceo; lei faceva la segretaria in uno studio legale. Intanto, zio Giovanni, diventato maggiorenne poco dopo il matrimonio dei miei genitori, si era diplomato e, volendo andare all'università, aveva trovato un lavoro come portiere notturno in un albergo per poi trasferirsi a Torino. Zio Claudio, invece, ancora adolescente, si era iscritto a un istituto professionale per l’agricoltura e sognava di andare a vivere in un casale e di produrre vino. Nel frattempo frequentava un corso di recitazione, ispirato dalle serate passate con suo padre davanti al caminetto.

    Ero praticamente cresciuto con lui, per otto anni era stato con me, e ora andava via: come poteva farmi questo? E poi, proprio mentre mamma era incinta di un altro figlio, il terzo, dopo me e Mattia. Feci di tutto per dissuaderlo, ma non ci riuscii. Ettore – disse – sii ragionevole, ogni uomo deve poter seguire la propria strada; seguirla comporta prendere delle decisioni a volte difficili, dolorose ma necessarie. E poi potremo scriverci e di certo tornerò a casa per le feste. Non trovai conforto nelle sue parole: lo salutai con le lacrime agli occhi.

    Le settimane che seguirono furono tristi, ero un bambino fragile. Mi chiusi nella mia camera a spaginare il primo libro che mi aveva regalato, guardavo verso la finestra e, in segreto, pregavo che di notte quel bambino dalla tuta verde venisse a prendermi per andare sull'isola che non c’è. Mi svegliai più volte senza che la finestra si spalancasse e il dolore profondo che provavo non fu mai pienamente compreso. È piccolo, non capisce!: questo ripetevano in casa e così successe che in solitudine dovetti imparare a usare quel sentimento per proteggermi da future delusioni. Poi, un sabato verso le 8.00, buttai giù dal letto Mattia che dormiva con me e gli proposi una corsa in bici. Volammo come frecce. Il panorama cambiava velocemente come su un treno in corsa, mentre il vento tiepido che accarezzava la mia pelle, il respiro sempre più affannato e tante risate da assaporare, mi fecero provare nuove emozioni.

    Superammo le case del paese percorrendo strade sterrate e giungemmo sul prato dove ero andato spesso con lo zio meravigliandomi ancora del fatto che quel luogo fosse una terrazza sul mondo per i miei occhi ingenui. Era lì che sognavo il futuro e contemplavo, senza saperlo, vette imperturbate, maestose, rassicuranti e un cielo dai colori divini. Che pittore e che scultore d’ingegno questo strano Dio. Il dolore era svanito senza lasciare nessuna traccia. Mi chiesi se la notte prima Peter Pan non fosse davvero entrato nella mia camera e non mi avesse portato con sé per qualche ora. Ancora oggi non mi spiego come sia scomparsa quella sofferenza, come mi sia potuto svegliare un giorno senza alcun sentimento di tristezza. Oppure più semplicemente avevo fatto il mio primo giro di boa e continuavo il mio cammino da bambino. Forse il mistero si esaurisce nella semplicità dell’esistere, a solis ortu usque ad occasum, dall’alba al tramonto. Di certo, la partenza dello zio aveva aperto un nuovo varco: si chiamava Mattia ed era mio fratello.

    Claudio ci concesse di diventare fratelli: perché non è vero che lo si è per i legami di sangue, lo si è per quelli di affetto. Diventammo inseparabili, una coppia da

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