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Lolita moreno
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E-book281 pagine4 ore

Lolita moreno

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Il delitto e il castigo. In mezzo una vita alla ricerca di un’ombra dai contorni indefiniti. Un omicidio irrisolto porta già con sé la pena, la colpevolezza. Non solo dell’omicida, ma anche di una testimone, una ragazzina con molti sogni. Lolita Moreno è Lea Carlisi, ma è anche Nell Wartha. La prima è la figlia di un portinaio, curiosa della vita, che ha un dono: una voce unica. La seconda è una “femme fatale” o almeno presunta tale. È bellissima. Nessuno la conosce, nessuno sa da dove provenga, nessuno sa che lavoro faccia. Ogni tanto parte. Ogni tanto torna.
Entrambe vivono nello stesso palazzo. I loro destini si incrociano e si legano indissolubilmente. L’uno è la continuazione di quello dell’altra. Sono condannate a un’eterna punizione. Una alla solitudine, l’altra a essere dimenticata. Solo una si può salvare.
Giulia Volpi Nannipieri confonde le carte in tavola. Si inventa una struttura che costringe a imboccare una strada errata. Illude chi legge di aver trovato la chiave di un percorso. Invece dissemina il romanzo di trappole, di colpi bassi che regalano emozioni inaspettate. Contribuisce, pagina dopo pagina, alla costruzione del colpo di scena finale.
LinguaItaliano
EditoreSEM
Data di uscita12 lug 2013
ISBN9788897093244
Lolita moreno

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    Anteprima del libro

    Lolita moreno - Giulia Volpi Nannipieri

    L’autrice

    Il libro

    Il delitto e il castigo. In mezzo una vita alla ricerca di un’ombra dai contorni indefiniti. Un omicidio irrisolto porta già con sé la pena, la colpevolezza. Non solo dell’omicida, ma anche di una testimone, una ragazzina con molti sogni. Lolita Moreno è Lea Carlisi, ma è anche Nell Wartha. La prima è la figlia di un portinaio, curiosa della vita, che ha un dono: una voce unica. La seconda è una "femme fatale" o almeno presunta tale. È bellissima. Nessuno la conosce, nessuno sa da dove provenga, nessuno sa che lavoro faccia. Ogni tanto parte. Ogni tanto torna.

    Entrambe vivono nello stesso palazzo. I loro destini si incrociano e si legano indissolubilmente. L’uno è la continuazione di quello dell’altra. Sono condannate a un’eterna punizione. Una alla solitudine, l’altra a essere dimenticata. Solo una si può salvare.

    Giulia Volpi Nannipieri confonde le carte in tavola. Si inventa una struttura che costringe a imboccare una strada errata. Illude chi legge di aver trovato la chiave di un percorso. Invece dissemina il romanzo di trappole, di colpi bassi che regalano emozioni inaspettate. Contribuisce, pagina dopo pagina, alla costruzione del colpo di scena finale.

    Qual è la giusta punizione per un delitto? Esiste una qualsivoglia nobiltà in un omicidio? Come influisce sulla vita di un’adolescente l’incontro casuale con l’assassino?

    "Vi sono uomini che non hanno mai ucciso, eppure sono mille volte più cattivi di chi ha assassinato sei persone. Non c'è niente di più facile che condannare un malvagio, niente di più difficile che capirlo scriveva alla fine dell'Ottocento Fëdor Dostoevskij. E se il malvagio non è poi così malvagio? Se davvero ha ucciso per realizzare un fine superiore"?

    Qui siamo all’opposto di Raskolnikov. Qui ci sono consapevolezza e pentimento. In un primo momento non c’è pena. Forse non c’è nemmeno dopo. Ci sono però fuga e inseguimento. Non della giustizia, ma di due anime che si sono incrociate e che non si sono più abbandonate. Il mistero è all’origine di intense pulsioni dell'animo umano. In Lolita Moreno, queste ultime si assopiscono, sembrano inerti, ma esplodono non appena l’ombra alla quale la protagonista ha, inconsapevolmente, dedicato la propria vita prende forma. Allora sul dolore, sul peccato, sulle colpe, prevale la passione, che rappresenta il filo rosso di ogni vicenda umana.

    È la fascinazione esercitata dal male che la condiziona? È l’ambiguità data dallo spettacolo della morte a legarla all’autore dell’omicidio? Esiste davvero l’estetica del delitto, del delitto perfetto, quello all’apparenza dotato di una certa dose di genialità artistica?

    Quello che Giulia Volpi Nannipieri ha voluto rappresentare è il crimine individuale, e il rapporto tutto particolare che si instaura tra assassino, vittima e testimone. Uno di loro si pone il problema di ciò che è giusto e di ciò che non lo è. Ci convive tutta una vita, sino a quando non decide di espiare. Ma qui nasce un altro quesito. Fino a che punto un uomo che uccide un altro uomo è colpevole? Deve redimersi o si è già redento?

    I

    Buongiorno, Lea. Il caffè è pronto.

    Sì… fra poco scendo… ciao, papà.

    Ogni mattina, alle sei, Lea si alzava. Era contenta di vivere per tutto quello che la vita le prometteva e che forse non avrebbe mai mantenuto, ma la promessa le bastava. Le faccende di tutti i giorni la divertivano, come se giocasse alla padrona di casa. Passò una mano leggera sulla coperta del letto, diede un piccolo colpo con la punta delle dita a una piega del guanciale e ritirò dalla finestra le calze e i fazzoletti che aveva lavato il giorno prima. Spolverò i mobili. Poi terminò la propria toeletta. Legò un nastro di seta rossa attorno ai capelli. Si sorrise. Il rosso le stava bene. Indossò il grembiule a quadretti bianchi e blu da lavoro. Prese uno straccio pulito e un grosso pennello, poi uscì richiudendo la porta a chiave. Quando cominciò a scendere le scale, il campanile della chiesa vicina scandì le ore. Lea si fermò un istante per contarle.

    Giunta al quarto piano, alzò gli occhi davanti a una porta e lesse il nome sulla targhetta d’ottone, ‘Lolita Moreno’, così come avrebbe letto le insegne dei negozi. Pensò: ‘A quest’ora dorme. Indosserà la camicia da notte di seta rosa senza maniche. La camera è tutta buia e c’è buon odore. C’è odore anche di sigarette.’ Le parve di sentire il profumo del tabacco, e sospirò. Una delle sue aspirazioni era quella di poter fumare una sigaretta, ma era ancora troppo giovane e le ragazze della sua età non fumano, almeno non davanti a tutti. ‘Del resto ho tredici anni’ concluse fra sé e sé, ‘e potrei anche tentare. Magari una sola boccata. Tanto per provare.’

    Rallentò il passo sul pianerottolo del terzo piano. A un tratto si fermò, e guardò su, sporgendosi oltre la ringhiera. Qualcuno aveva richiuso con circospezione una porta ai piani superiori. Nessun inquilino aveva l’abitudine di uscire così presto, la mattina. Rimase immobile, addossata al muro per non farsi vedere, e attese che l’ascensore venisse chiamato. ‘Forse è il capitano che parte…’ pensò. Ma l’ascensore non si mosse. Allora, d’istinto, ebbe paura. Una paura assurda, ingiustificata. Nel palazzo abitavano dieci famiglie con un minimo di cinque persone ciascuna. Nulla di straordinario, se una di queste persone si era alzata presto e stava per uscire.

    Alla fine inquadrò una figura. Era uno sconosciuto. S’era fermato a metà della scala per accendere la sigaretta che aveva tra le labbra. Lea gli vide le mani. Erano pallide, illuminate dalla fiamma. Tremavano. Dovette accendere un secondo cerino perché la fiammella del primo s’era spenta urtando contro la sigaretta. Quando arrivò sul pianerottolo, s’accorse di Lea. Si fermò un momento per guardarla. La ragazza gli sorrise. Non per salutarlo. Aveva paura di quel giovane dall’apparenza innocua, alto, bruno con due grandi occhi neri che non riuscivano a fissar nulla.

    Buongiorno disse lui, levandosi la sigaretta dalle labbra e soffiando il fumo in alto.

    Da dove viene? chiese Lea, improvvisamente rianimata, seguendolo a due scalini di distanza.

    Senza fermarsi, lo sconosciuto si girò a guardarla.

    T’interessa saperlo?

    Sono la figlia del portinaio, devo sapere da chi vanno e da chi escono quelli che non sono nostri inquilini.

    Non bisogna essere curiose, nella vita, bambina, è sempre pericoloso.

    Quelle parole le sembrarono un’oscura minaccia. Erano ormai nell’andito. Il padre di Lea, curvo sul pavimento da lavare, non vide né il giovanotto che usciva, né la figlia che lo seguiva fin sul portone dell’edificio.

    Ma lei da dove viene? insistette la ragazza.

    Dalla signora Lolita Moreno. È inutile che tu lo vada a raccontare…

    Lea arrossì.

    Va bene disse non lo racconterò.

    Rimase a guardarlo mentre si allontanava senza fretta, fumando. Quando fu all’angolo della strada, si girò e le fece un cenno di saluto. Lea abbozzò un sorriso e rientrò nell’androne. Dai vetri della portineria, il padre la salutò, con un bacio affidato alle punte delle dita.

    È tornata tardi la signora Moreno? gli chiese.

    Non l’ho vista. Alle dieci, quando ho chiuso il portone, non era ancora rientrata. Perché me lo domandi?

    Così… fece lei.

    È arrivato un telegramma per lei, questa mattina. Un telegramma urgente. Gliel’ho passato sotto la porta, suonando il campanello, come al solito. Dopo un momento, il telegramma è stato ritirato. È probabile che stasera la signora Moreno parta per uno dei suoi tanti viaggi di piacere, come accade ogni volta che riceve un telegramma urgente.

    Lo hai letto?

    No, era troppo ben incollato… non era possibile aprirlo senza che se ne accorgesse. Ma, del resto, è facile indovinarne il contenuto. Ormai ne abbiamo letti a decine di quei telegrammi: ‘Ti aspetto a Roma (o a Parigi, o a Vienna, o a Lisbona, o a Londra), non mancare, baci. Maria’. Se non ci sono i ‘baci’, ci sono le ‘tenerezze’, e quel ‘Maria’ deve nascondere il nome d’un uomo che non vuole comprometterla nemmeno per posta.

    Il padre le sorrise: Ti piace, eh, la signora Lolita Moreno?

    Oh, sì, papà… poi cambiando argomento Io vado…

    Alle otto, come tutti i sabati, doveva aver finito di spolverare le scale. Passando davanti alla porta dell’appartamento di Lolita Moreno, si fermò un momento, ad ascoltare. Non le giunse alcun rumore. ‘Forse s’è rimessa a dormire’ pensò ‘forse aveva ancora sonno.’ E proseguì.

    Di pianerottolo in pianerottolo i suoi pensieri mutavano, via via che le targhette con i nomi degli inquilini avvitate alle porte la introducevano mentalmente nell’interno delle case. Di ciascuno conosceva il carattere, le virtù e le manchevolezze, e di ciascuno viveva in parte la vita e le vicende. Fin da quando aveva quattro anni, abitava la portineria nella quale era cresciuta, e nella quale la mamma era morta. Costruiva poemi sul passaggio d’un mazzo di fiori portato a una inquilina. Immaginava, per ciascuno dei residenti, emozionanti romanzi sentimentali. Amava la portineria perché le permetteva di guardare nella vita degli altri attraverso un vetro terso. Non si sentiva diminuita per la sua condizione. Con un libro in mano si sentiva uguale alla più ricca delle sue inquiline. Non invidiava nessuno. Bastava a se stessa e a suo padre, Amedeo Carlisi. La sua camera all’ultimo piano era il suo regno. Quando c’erano le stelle, ne vedeva una, dal quadrato della finestra. Quella era la sua stella amica, alla quale confidava i suoi pensieri e i suoi sogni.

    Hai finito? le chiese il padre.

    Quasi, mi manca l’ultima scala.

    All’improvviso le tornò in mente l’incontro di poco prima. Rivide il giovane che, fermo sullo scalino, non riusciva ad accendere la sigaretta, rivide come l’aveva guardata passandole davanti, e quando, dall’angolo della strada, l’aveva salutata. Ricordava bene l’espressione degli occhi e il suo sorriso, ma se le avessero chiesto di che colore fossero i suoi occhi e quale fosse il taglio della sua bocca, non avrebbe saputo rispondere.

    Posta… aveva finito in tempo per incrociare il portalettere.

    La posta era il rito che officiavano ogni mattina. Seguivano gli avvenimenti degli inquilini attraverso le lettere che ricevevano. Ne indovinavano il contenuto da piccoli particolari.

    C’è una lettera per la signorina del secondo piano disse Lea. Dev’essere di quel giovane venuto a pranzo la settimana scorsa.

    Forse… ammise il padre. E ce n’è una del marito della signora del terzo. Si sono separati, ma si vogliono sempre bene. Finiranno col riunirsi un giorno o l’altro, altrimenti quest’assidua corrispondenza non avrebbe ragione di continuare.

    Forse… disse Lea, mentre distribuiva le lettere e i giornali nelle diverse caselle.

    Passò la domestica della Moreno, e s’affacciò alla portineria.

    Buongiorno. È rientrata tardi la signora? chiese loro.

    Non l’abbiamo vista rientrare rispose il padre di Lea.

    Novità?

    Nessuna… bofonchiò Lea frettolosamente.

    Avrebbe dovuto parlare del giovane sconosciuto incontrato per le scale, ma non ci riuscì. Le ritornavano in mente le parole di lui: ‘Non bisogna essere curiose, nella vita, bambina, è sempre pericoloso.’ E poi ancora: ‘Dalla signora Lolita Moreno. È inutile però che tu lo vada a raccontare.’ Era ancora spaventata, o almeno così credeva.

    Il padre la vide diventare pallida e le si avvicinò.

    Che cos’hai?

    Nulla…

    Hai una faccia che non mi piace.

    Forse ho freddo.

    Inutile allora stare sulla porta. Vieni dentro e chiudi.

    Un momento…

    La domestica di Lolita Moreno era arrivata al quarto piano. Lea sentì distintamente girare la chiave nella serratura. Era certa, ora, che qualche cosa di grave doveva essere accaduto. Lo sentiva. La sua agitazione aumentava a ogni respiro e avrebbe voluto gridare. Invece rientrò nella portineria e chiuse la porta a vetri. Immediatamente un lungo trillo di campanello la fece sussultare. La lampadina corrispondente all’appartamento della signora Moreno s’era accesa.

    Chi è? chiese il padre, uscendo dalla cucinetta.

    Suonano dall’appartamento della Moreno.

    L’uomo uscì nell’andito e prese l’ascensore. Dall’alto, arrivavano grida incomprensibili. Anche l’inquilino che abitava l’appartamento di fronte a quello della Moreno era uscito sul pianerottolo.

    Si può sapere chi grida in questa maniera? Hanno forse ammazzato qualcuno?

    Sono qui per vedere rispese il papà di Lea, richiudendo il cancelletto dell’ascensore Venga anche lei, ingegnere.

    La porta era chiusa. Suonarono. Le grida della domestica raddoppiarono, seguite da un momento di silenzio. Anche il campanello nella portineria tacque. Poi la porta si aprì e la donna di servizio apparve. Aveva gli occhi dilatati dallo spavento. Sembrava impazzita. Le mancava completamente la voce. Apriva e chiudeva la bocca senza poter articolare una parola. Con le mani annaspava nel vuoto, come se cercasse di aggrapparsi a un qualche cosa che non esisteva.

    Che cos’è successo? chiese il portinaio. Si sente male la signora?

    La donna fece cenno di no, col capo, e allargò le braccia per far capire che era accaduto qualcosa di assai più grave. Allora Amedeo Carlisi la spinse bruscamente ed entrò nella casa, seguito dall’ingegnere. Attraversarono l’anticamera e il salottino, ancora al buio. Nelle stanze c’era un odore acre di chiuso e di fumo.

    Oltre il salottino c’era la camera da letto.

    Signore Iddio… mormorò il portinaio.

    Lolita Moreno giaceva sul suo bel letto, bianca e immobile. Aveva gli occhi chiusi e una dolce espressione sul volto ancora truccato. Il pallore del suo viso contrastava col trucco delle guance e il rossetto delle labbra.

    È morta disse l’ingegnere. Morta da parecchie ore.

    Le aveva toccato una mano e l’aveva sentita fredda.

    Lasci tutto com’è. Bisogna telefonare subito alla Polizia.

    Ma come può essere morta?

    Il cuore, forse suggerì Amedeo, guardandosi attorno.

    La camera era in perfetto ordine. Le finestre chiuse, le tende abbassate, i cassetti dei mobili apparentemente intatti, i vestiti che Lolita Moreno s’era tolti la sera prima deposti con ordine su una poltrona.

    Telefonarono in Questura, poi dovettero occuparsi della domestica che, in cucina, piangeva con la testa nascosta nelle braccia appoggiate sulla tavola.

    A che ora è andata a casa ieri sera? le chiese l’ingegnere che aveva un po’ la mania degli interrogatori.

    Alle sette. La signora era invitata a pranzo.

    Da chi?

    Non lo so.

    Riceveva qualcuno?

    Nessuno, mai.

    Amedeo si rivolse all’ingegnere: Che cosa pensa? Che non sia morta di morte naturale?

    Non penso nulla, ma tutto è possibile.

    Aspettarono in cucina, in silenzio. Di tanto in tanto Amedeo s’affacciava sulla soglia della camera, e ritornava inorridito. Poi scese ad avvertire Lea che lasciasse salire gli incaricati della Questura.

    Ma perché non avete chiamato un medico, prima? protestò la ragazza.

    Il medico verrà con quelli della Questura. Stai tranquilla. E risalì.

    E sta bene rimuginò fra sé Lea. Appena arriveranno i poliziotti dirò loro del tizio che ho visto scendere e che m’ha confessato di essere stato dalla signora Moreno.

    E se invece fosse stata uccisa? E se l’assassino fosse proprio quel giovanotto?

    Lolita Moreno… ‘A chi andranno’ pensò ‘le pellicce che acquistò a Londra l’inverno scorso? E i bei vestiti che portava da ogni viaggio?’ Le piaceva un piccolo collo di volpe azzurra che la defunta metteva con gli abiti a giacca. Lei lo avrebbe attaccato al suo vecchio cappotto, che sarebbe ritornato nuovo. Si sentì a un tratto vuota di pensieri. Chiuse gli occhi e si abbandonò alla vertigine. Quando li riaprì, decise di parlare con quelli della Questura. Più tardi raggiunse un compromesso con se stessa. Avrebbe parlato se si fosse trattato d’un assassinio. Taciuto se Lolita Moreno era morta di morte naturale. Era una via di mezzo che conciliava il suo dovere con la promessa fatta allo sconosciuto.

    Quattro signori scesero da un’automobile, e immediatamente dopo, da una seconda automobile, ne scese un altro che portava una grossa borsa di cuoio. Lea non trovò la forza di alzarsi in piedi.

    Commissario disse uno di loro avvicinandosi alla porta a vetri.

    Quarto piano… balbettò Lea.

    L’ascensore? chiese l’altro che non voleva salire a piedi tante scale.

    Lea s’aggrappò alla sedia e per muoversi dovette proprio issarsi a forza di muscoli. Era stordita. Staccò la chiave dell’ascensore dal chiodo dietro la porta e uscì barcollando. Nessuno s’accorse del suo turbamento. Soltanto il dottore la guardò con attenzione. Le prese il mento fra due dita, e le chiese se avesse paura.

    No rispose la ragazza paura no. Però…

    Ho capito ribatté il medico, chiudendo le porticine della gabbia. L’ascensore partì verso l’alto.

    Quando rientrò nella portineria, Lea vi trovò la domestica del secondo piano, Rosetta. Aveva già pettegolato con le colleghe degli altri piani, tutte eccitatissime per l’avvenimento.

    E dire che pareva uno stabile tanto quieto. Se è stata assassinata, me ne vado. Non voglio rimanere in una casa dove gli assassini vanno e vengono senza che nessuno se ne accorga accusò velenosa.

    Dice questo per me e per papà?

    Dico che il fatto è accaduto, e che voi, responsabili della nostra sicurezza, non sapete nulla di nulla.

    La ragazza reagì alzando la voce: Se gli inquilini si portano gli assassini a domicilio i portinai non sono responsabili dei loro sporchi affari.

    Non c’è bisogno di gridare.

    Non c’è bisogno di fare discorsi da stupide.

    L’altra stava per ribattere, ma in quel momento vide il suo padrone che scendeva le scale per recarsi in ufficio. Allora s’alzò e filò via di corsa, stringendo sotto il braccio la borsa della spesa.

    Non si sa ancora nulla? chiese il nuovo venuto.

    No, signor Micheli, nulla rispose Lea.

    Nell’appartamento al quarto piano, gli investigatori facevano i loro rilievi. Stavano esaminando due passaporti, uno dei quali doveva necessariamente essere falso. Non avevano trovato nulla di sospetto. Nessuna carta, nessun indizio. Soltanto quei due passaporti, nascosti fra due cassetti. Avevano perquisito la casa per appurare chi fosse questa Lolita Moreno della quale il portinaio non sapeva dare alcuna notizia. Anche il contratto d’affitto era intestato a Lolita Moreno. Sembrava tutto regolare sino a quando non erano balzati fuori i due passaporti, uno dei quali straniero, intestato a certa Nell Wartha, di anni ventisette, nata in un piccolo paese di confine tra la Polonia e la Russia. La fotografia del documento straniero risaliva a quattro anni prima e ritraeva una Lolita Moreno più giovane e pettinata secondo la moda di allora. Non era facile riconoscerla a prima vista. Lolita Moreno, invece, secondo l’altro passaporto a lei intestato, era nata a Sassari, di padre spagnolo e di madre italiana.

    La signora, che poi è signorina, parlava con accento straniero? chiese il commissario al portinaio.

    No. Parlava come lei e come me. Io l’avrei detta toscana.

    Riceveva spesso?

    Nessuno. Mai.

    Viaggiava?

    Ogni volta che riceveva un telegramma, l’indomani partiva. Quasi sempre per l’estero. Almeno viaggiava con maggior frequenza all’estero che in Italia.

    Come lo sa?

    Amedeo esitò a rispondere, poi confessò, arrossendo: Quando i telegrammi avevano la chiusura ancora fresca li aprivo e li leggevo. Era un’inquilina che destava curiosità, perché conduceva una vita diversa da tutti. Non riceveva posta, non riceveva visite. Pagava puntualmente. Non lavorava… Voi capite che, inevitabilmente, ci si chiedeva come vivesse e di che vivesse. Era vestita con abiti alla moda e qualche volta indossava gioielli di valore.

    Il contenuto dei telegrammi? domandò un altro poliziotto.

    Quasi sempre identico: ‘Ti aspetto a… (e c’era li nome della città dov’era aspettata: Roma, Berlino, Parigi, Londra eccetera), baci. Maria’. Tutti i telegrammi, da qualsiasi parte venissero, erano firmati ‘Maria’. E ogni volta che la signora Moreno ne riceveva uno, partiva l’indomani.

    Si ricorda quando ha ricevuto l’ultimo telegramma?

    Questa mattina presto. L’ho portato su io stesso e come d’abitudine l’ho passato sotto la porta e ho suonato. Dopo un po’ la signora è venuta a ritirarlo.

    Questa mattina, la signora era già morta disse il medico. La morte risale alla mezzanotte circa. È il secondo strano cadavere che vedo questa mattina. In un albergo del centro è morto un ufficiale. È morto avvelenato. Ha lasciato un biglietto in cui chiede perdono ai suoi familiari, ma non ho mai visto un militare uccidersi con il veleno…

    Amedeo alzò le spalle e la sua testa parve scomparire. Che ne poteva sapere, lui, di militari morti avvelenati o del fatto che la signora era morta prima che lui le portasse il telegramma? Se non lei, qualcun altro lo aveva certamente ritirato. Di questo era sicuro. E ora pensava fosse stato distrutto, dato che nessuno lo aveva ritrovato.

    Ha visto uscire qualcuno, stamani, appena ha aperto il portone? gli domandò ancora uno dei poliziotti.

    Nessuno… e non mi sono mosso dalla portineria.

    Sua moglie dov’è?

    "Sono vedovo e ho una figlia… Sono certo che dopo la mezzanotte, quando sono rientrati gli inquilini dal teatro, nessuno è più entrato e nessuno uscito. Ho l’orecchio abituato e il sonno leggero quando sento toccare il portone. Potrei dirvi, continuando a dormire, chi entra e chi esce, tanto conosco la

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