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Terzo tempo: Quindici storie di sport
Terzo tempo: Quindici storie di sport
Terzo tempo: Quindici storie di sport
E-book120 pagine1 ora

Terzo tempo: Quindici storie di sport

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Info su questo ebook

Dalla rivalità tra Coppi e Bartali al Compromesso storico, passando per la tragedia dell’Heysel di Bruxelles, la mitica Olanda di Cruyff del ‘74, per finire con il tramonto di un campione, l’epifania del suo rivale e la nascita del bambino venuto al mondo giusto in tempo per piazzarsi al centro di tutto questo. In Terzo Tempo il nostro passato, visto attraverso gli occhi di un ragazzo che si fa uomo, ritorna non invitato, senza bussare alla porta. La forza dolcemente, con segni piccoli, sottili, ma devastanti nella loro tenerezza: una bicicletta verde della Legnano classe 1961; una foto ingiallita del padre a vent’anni; la prima maglia da calcio in lanolina, un televisore Panasonic da 28 pollici, un’Alfa Sud 1200 del 1981, gialla, senza stereo e senza aria condizionata, un disco dei Ramones. Terzo Tempo non è altro che la soddisfazione, attraverso l’evocazione dell’epica sportiva, di un’esigenza di recupero, un cofanetto di emozioni di carta, legno, metallo, plastica; un libro che si sviluppa come un 33 giri in vinile, in cui le tracce non possono essere saltate, ma devono essere percorse dall’interno, con la punta del giradischi che affonda nei quindici racconti che lo compongono.
LinguaItaliano
Data di uscita18 set 2013
ISBN9788897567509
Terzo tempo: Quindici storie di sport

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    Terzo tempo - Felice Panico

    Caracò Editore

    Singoli

    5

    Felice Panico

    TERZO TEMPO

    Quindici storie di sport

    TERZO TEMPO

    di Felice Panico

    Caracò Editore

    Collana Singoli

    ISBN 978 8897567 509

    I edizione settembre 2013

    © Tutti i diritti sono riservati

    www.caraco.it

    PAPÀ: «Non è che dobbiamo per forza andare a vedere

    l’Arsenal tutte le volte che vengo a Londra,

    credevo avessimo superato questa fase!»

    PAUL: «Noi non supereremo mai questa fase.»

    da Febbre a 90°, il film

    PREFAZIONE

    LA DISPUTA TRA GLI ANTICHI E I MODERNI

    di Paolo Andreozzi

    Il Ventesimo Secolo è il secolo delle avanguardie, dello sperimentalismo, dell’anti-qualcosa e del post-tutto. Non c’è spazio per il classicismo, nel secolo scorso.

    Falso. Il classicismo del Ventesimo Secolo è lo sport. E questa verità balza agli occhi appena si riflette sugli aspetti essenziali del fenomeno chiamato Movimento Sportivo Internazionale, sulla sua diffusione su tutti i continenti, la sua durata ininterrotta, la sua organizzazione capillare, l’epica dei suoi appuntamenti rituali, i suoi miti inesauribili, la sua influenza sui costumi di massa, l’enorme portata economica delle sue iniziative, il potere dei suoi simboli, traducibili immediatamente in ogni cultura regionale, ad ogni latitudine, per ogni contesto antropologico. La Grande Arte del Rinascimento, la Grande Musica del Settecento, la Grande Letteratura dell’Ottocento, la Grande Architettura dell’Antica Grecia, il Grande Teatro Elisabettiano sono stati tutti Classicismi, ciascuno sotto il proprio rispetto e coi propri natali. Così lo Sport è stato per il Novecento.

    Esso è niente di meno che una riserva di senso (la dico così) benedetta per un secolo che allo sguardo nostro si offre tanto bisognevole di senso, appunto, di significati condivisibili (anche solo problematicamente) come ipotesi di lavoro.

    Felice Panico fa questo. Lo guarda, questo Ventesimo Secolo, da giovane persona che lo ha abitato solo nel suo ultimo quinto, ma che lo ha esplorato in lungo e in largo col suo istinto da Indiana Jones, guardando verso ciò che è bello, verso ciò che ha valore (kalòs kai agathòs, dicevano quei greci!). Lo osserva, ce lo fa gustare (e anche comprendere parecchio) tramite il suo classicismo, che Panico ha riconosciuto come tale. Ma lo fa con la leggerezza, e l’esattezza insieme, che le celebri Lezioni prescrivono e che lui dimostra d’aver fatto proprie, con talento e con gli occhi grati di tanta visione. Ci restituisce la materia con la mano salda di chi l’energia di un secolo così se la sente dentro. Gratitudine e forza; curiosità e istinto; memoria, ordine e fantasia. Gratitudine verso la Natura per aver messo a punto gli umani in quanto tali, nonostante tutto. E prima di tutto, gratitudine verso la sua stessa storia personale e familiare che si intarsia magistralmente, in ogni pagina di questo lavoro, alle storie di donne, uomini ed eroi e alla Storia con la esse grande.

    Conosco Felice, di persona. Da una dozzina d’anni. E ne sono parecchio contento.

    E lo ringrazio moltissimo per avermi onorato accettando questa mia invitation au voyage nella sua bella raccolta.

    Infine c’è musica, e tanta, nel suo modo di pensare, guardare, scrivere, narrare. Buonissima musica. La troverete, in questi quindici racconti, a partire dall’introduzione e fino in fondo. Perché tra l’altro Panico suona la chitarra e canta – bene in entrambi i casi – e arricchisce le sue convincenti performance autor-attoriali con queste altre doti. C’è tanta musica, in questo suo atlante generoso di umanità. Ed è giusto che sia così. Perché sapete, il classicismo del Ventesimo Secolo – naturalmente – è la musica pop (multiforme, per intero).

    A tutte e tutti, buona lettura.

    P.S.:

    Il classicismo del Novecento – ma lo dico solo a voi – è il Grande Cinema di Hollywood del cinquantennio 1920/1970.

    (A Panico, pertanto, toccherà produrre almeno altre due raccolte di racconti. Buon lavoro, Felix: citius altius fortius!)

    INTRO

    FANFARA PER L’UOMO QUALUNQUE

    Sarà stata una sera, una sera all’inizio di giugno. Avevo tredici anni, gli esami di terza media erano finiti, ero stato promosso, potevo fare tardi; ed era tardi, tardi come solo un ragazzino di tredici anni poteva fare tardi, godendosela fino in fondo, con tre mesi d’estate stupenda in cui potere fare tardi.

    Fare tardi, d’accordo. Ma come fare tardi? E soprattutto come fare tardi dopo le otto di sera? A tredici anni e soprattutto a Pomigliano d’Arco, cinquantamila abitanti a dodici chilometri da Napoli nel cemento e fra le fabbriche non c’era molto da fare, soprattutto nei giorni infrasettimanali. Qualche pub, ma la prima birra completa me la sarei bevuta solo un anno dopo, il cinema e la pizzeria, ma quello era lo svago del sabato sera e alle ventitre tutti a casa. È il sanguinoso destino di chi vive nelle città satellite. Alle quattordici chiudono le scuole, alle diciotto gli uffici, alle venti i negozi e, dieci minuti dopo i negozi, chiude la città.

    Dal lunedì al venerdì niente, o quasi niente, un lungo quasi niente fino alle nostre canoniche tre settimane di vacanza al mare («Di meno non si può», ripeteva con entusiasta ossessività mia madre), poi si tornava all’ultimo spicchio di quasi niente fino alla scuola, alla palestra, alla chitarra, obblighi che diventano salvezza se vivi la tua adolescenza nel quasi niente.

    Esiste un’altra salvezza. Si chiamano anni pari. Negli anni dispari un tredicenne abituato a vivere nel quasi niente rischia il suicidio almeno una volta al giorno. Negli anni pari allontana questo pensiero almeno per un mesetto poco più, poco meno. Il 1994, ringraziando Dio, era un anno pari. Nel ’94 avevo tredici anni e facevo tardi, davanti alla TV, aspettando i Mondiali USA. Ma non era ancora tempo di fare tardi aspettando i film porno (e in ogni caso non avevamo ancora l’abbonamento a Sky, che all’epoca si chiamava Tele+, per poterli vedere). Io facevo tardi guardando eroi, sognando eroi. La mia fame e sete di calcio era all’apice, un apice fideistico, epico, innocente. Avevo cominciato a fare tardi con loro.

    La mia prima partita vista in seconda serata? Benfica vs Barcellona, semifinale di Champions League 1992, trasmessa in differita il Mercoledì Santo dalle ventidue e trenta. Le vacanze pasquali sarebbero iniziate il giorno dopo, io non avevo scuola e potetti stare in piedi fino a mezzanotte inoltrata. E poi tutte le finali di coppa vinte, il Napoli a Stoccarda, la Juve contro il Borussia Dortmund, il piccolo, commovente Parma che si prendeva la Coppa delle Coppe in un Wembley che oggi non esiste più, le lacrime per la splendida e matta Sampdoria piegata al centodiciottesimo minuto dal Barcellona nella finale di Champions sempre nel vecchio Wembley, il Milan che la vendica due anni dopo ed il 24 maggio del ’94 ad Atene distrugge i blaugrana per quattro a zero.

    Vivevo il presente, ero incredibilmente dentro al presente, ma non avevo passato (come si fa a chiedere ad un ragazzino di tredici anni di avere un passato?). Poi una notte, all’inizio di giugno del ’94, un filmato, una musica, una rivelazione. Si chiamava Mundial Film, l’allora pionieristica e niente affatto asservita Italia 1 trasmetteva questo documentario fenomenale sui Mondiali di calcio dal ’58 al ’90.

    Accesi la TV e vidi dieci uomini in maglia arancione (uno con la maglia giallo canarino, Jongbloed, il portiere col numero otto). Giovani, bellissimi, coi capelli lunghi, undici sauri (come li avrebbe definiti Enrico Maida) dalla sciabordante criniera. Era l’Arancia Meccanica, l’Olanda del 1974, probabilmente la squadra che ha giocato il miglior calcio nella storia. Li avevo davanti nella loro cavalcata davvero epica, quella che li avrebbe portati alla finale di Monaco contro la Germania. Ci andarono con la loro maglia attillata e sgargiante, con le loro compagne per lo più bionde e bellissime, con il loro gioco artistico, musicale. Vidi quella finale condensata in cinque minuti di documentario col commento sonoro di una canzone che mi sembrò bellissima, perfetta per l’occasione e di cui non sapevo il compositore né il titolo. Ci avrei messo quindici anni per scoprire che la canzone era Fanfare For The Common Man degli Emerson, Lake & Palmer e che il regista del documentario non avrebbe potuto trovare una musica più adatta. Era rapida, agile, piena, progressiva appunto, come le gambe, la velocità, il sublime modo di giocare di quegli undici ragazzi con i capelli lunghi, epigoni dei Deep Purple, dei Genesis, dei Led Zeppelin, dei Pink Floyd, passati direttamente da una Fender Stratocaster o da un sintetizzatore Moog ad una maglia arancione col leone sul petto.

    Giovani, progressivi, ribelli e sfrontati, ma non era la ribellione del punk; questa ribellione aveva consapevolezza e mezzi per esprimersi, rivoluzionaria eppure codificata nei portentosi risultati prodotti, come poteva essere

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