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Delitto agli albori della storia
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E-book207 pagine3 ore

Delitto agli albori della storia

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Narrativa - romanzo (172 pagine) - Chi, come, quando, perché, a chi giova? Sono le domande valide ancora oggi sulla scena di un delitto. Ma quale peso possono avere, se l'omicidio su cui si indaga è avvenuto nel III° millennio avanti Cristo?


Durante l’occupazione nazista di Roma, mentre scappa dalla sua casa cercando di sottrarsi alla cattura, un archeologo di fede ebraica viene salvato e nascosto nei sotterranei vaticani da un vecchio amico diventato sacerdote. In solitudine ha la possibilità di continuare il suo lavoro sui reperti trovati nella sua ultima campagna di scavi. Traducendo le tavolette di terracotta, fitte di caratteri cuneiformi, si imbatte in una specie di “diario”, compilato da uno scriba sumero del III° millennio prima della nostra era, improvvisatosi detective. Seguiremo con lui l’avvincente racconto di antichi delitti e di vicende che hanno cambiato la storia di un antichissimo impero.


Rosanna Picotti nasce a Spoleto e vive a Roma da moltissimo tempo. Ha fatto studi artistici. Ha lavorato e lavora come architetto degli interni presso negozi di arredamento. Le sue passioni sono, da sempre, la lettura e l’archeologia. Questo è il suo primo romanzo.

LinguaItaliano
Data di uscita7 feb 2017
ISBN9788825400922
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    Anteprima del libro

    Delitto agli albori della storia - Rosanna Picotti

    romanzo.

    Personaggi principali:

    FRANCESCO RODANO Sumerologo

    PADRE GABRIELE Amico di Francesco IUSUM Capo scriba

    AMARSIN * Re di Ur

    SHUSIN * Fratello del re

    SHULGI * Padre e predecessore del re

    ABISINTI * Regina madre

    LUGAL Giovane aiuto scriba

    ETEYA Regina, sposa di Amarsin

    KUBATUM * Sorella di Lugal

    URGAR Generale, padre di Eteya

    UBAR Fratello di Eteya

    DAGAN Capo delle guardie

    SHUNGAL Aiutante di campo di Shusin

    EMESH e KIBAID Servi di Iusum

    NINURTA Gran sacerdote

    RIMANUM Medico

    MENTHUOTEP * Faraone

    KHITA e ZIMBA Onagri

    * Personaggio storico reale

    I

    Era molto stanco, Francesco Rodano, chino sul suo tavolo da lavoro, null’altro che un lungo piano di legno scheggiato in più punti, sorretto da rustici cavalletti e ingombro da una quantità inverosimile d’oggetti. Da un lato un gran numero di tavolette, prismi e cilindri di argilla ricoperti di segni minutissimi, delle più svariate forme e misure, da frammenti di pochi centimetri, ad altri che ne misuravano decine, erano catalogati, contrassegnati e disposti in un ordine rigoroso, che soltanto per lui aveva un senso. Sull’altro lato del tavolo, una piccola cesta conteneva un esiguo numero di tavolette sulle quali Francesco stava lavorando in quel momento. In terra una vecchia scatola di cartone era piena di altri manufatti che dovevano ancora essere esaminati. La superficie restante del piano di lavoro era occupata, quasi per intero, da grandi quantità di fogli leggeri, in parte ancora intonsi, ma in maggioranza ricoperti da segni che copiavano i documenti fittili originali per poterli maneggiare comodamente. Evitava così di danneggiarli, mentre portava avanti l’opera di interpretazione, la più verosimile possibile. Sul bordo del tavolo, una vecchia scatola di biscotti era colma di mozziconi di matite, diligentemente temperate, alcune ridotte ormai a pochi centimetri. Sul coperchio della scatola di latta, rovesciato come se fosse un vassoio, erano allineate boccette di inchiostro nero e rosso, pennini di diverse misure, un grande pennello morbido, palline di mollica di pane sottratte alla sua già scarsa razione di cibo e usate come gomma per cancellare. Su tutto, una lampadina avvitata su un vetusto portalampade da scrivania, sopravvissuto ai tempi lontani dell’università, spandeva la sua fioca luce, certo non più luminosa di quella emanata da numerosi rimasugli di candele, infilati su colli di bottiglie di ogni misura e colore, che Francesco era costretto a accendere, se pur con parsimonia, per sopperire alla mancanza di corrente che si verificava spesso, a causa degli allarmi aerei o per il razionamento dell’energia elettrica. Tutto il resto dell’enorme stanzone dai bassi soffitti a volta, era immerso nell’ombra, che nascondeva e sembrava proteggere immensi e meravigliosi tesori. Francesco sapeva che non avrebbe mai potuto essere abbastanza grato alla sorte, che lo aveva favorito in una notte terribile di alcuni mesi prima. Scappava dalla sua casa che stava per essere invasa dai fascisti e dalle SS, portando con sé solo i vestiti che indossava e un enorme zaino militare nel quale aveva gettato ciò che possedeva di più importante al mondo: le tavolette fittili da lui rinvenute, nel corso dell’ultima campagna di scavi nel sito di Uruk, bruscamente interrotta per lo scoppio della guerra. Il conseguente rientro in patria non gli aveva consentito di riordinare il lavoro fatto, né aveva avuto il tempo di consegnare al Ministero il resoconto e i risultati tangibili delle sue ricerche sul campo. Altre priorità erano divenute più urgenti, quali evitare di essere arrestato per qualcosa che non essendo particolarmente osservante, non aveva mai preso in considerazione: la sua appartenenza alla razza ebraica. Francesco non aveva mai pensato che la religione professata da suo padre potesse cancellare d’un colpo la sua romanità, che datava da innumerevoli generazioni, la sua nazionalità, la sua cultura! Quella notte, correndo senza meta nelle stradine di Trastevere insieme a tante altre persone altrettanto sconvolte, con l’unico scopo di sfuggire alla polizia fascista, si era imbattuto in un vecchio compagno di scuola ora sacerdote, che lo aveva nascosto nella sacrestia di S. Maria in Trastevere, conducendolo subito dopo, attraverso una porticina celata dietro il colonnato di S. Pietro nei sotterranei vaticani. In quegli antichi luoghi centro della cristianità, l’archeologo Francesco Rodano, agnostico e di famiglia ebraica, aveva trovato asilo e soprattutto la possibilità di continuare il suo lavoro. Dopo un lungo percorso attraverso un dedalo di saloni immensi, corridoi angusti e ripide scale, Francesco seguendo il suo amico Gabriele, era sbucato in un grande ambiente fiocamente illuminato da una nuda lampadina che pendeva da un lungo filo in un angolo del soffitto a volta. L’enorme stanzone sembrava usato come magazzino, dato il gran numero di casse accatastate fin negli angoli più bui e lontani. Soltanto un lato era stato lasciato sgombro per far posto a un tavolo, una sedia e un lettino di ferro con il solo materasso, sul quale i due amici si erano gettati, sfiniti. Senza rendersene conto avevano continuato a correre come se fossero ancora inseguiti, e Francesco, nonostante sapesse di essere ormai al sicuro, non riusciva a controllare il tremito che lo scuoteva. Per consentirgli di calmarsi, padre Gabriele cercando di slacciare le cinghie che assicuravano lo zaino alle spalle dell’amico liberandolo così dal suo peso, si lasciò sfuggire un’esclamazione colma di stupore: – Ma cosa mai nascondi di così importante qui dentro, visto che sembra pieno di piombo?

    Ormai rinfrancato, Francesco si permise un sorriso stentato mentre apriva il suo rustico contenitore di tela cominciando a estrarne con cautela, tavolette, prismi e cilindri, sporchi di terra e ricoperti da minutissimi segni incisi nell’argilla di cui erano composti. Padre Gabriele ne prese in mano alcuni osservandoli attentamente, girandoli sottosopra e notando che i segni erano incisi su ogni lato.

    – Credevo che la tua ultima campagna di scavi, della quale mi parlavi in una delle tue lettere, fosse ubicata in Egitto, ma questi non sono reperti egizi. Da dove provengono?

    Mentre continuava a estrarre dallo zaino, che sembrava non avere fondo, altri manufatti e l’occorrente per lavorare poggiando tutto sul tavolo, Francesco rispose: – Nella mia lettera non devo essermi espresso chiaramente, l’Egitto non c’entra affatto. Quest’ultima volta abbiamo scavato, per il terzo anno consecutivo, nel sito di Uruk, a pochi chilometri dall’odierna Baghdad, quasi sulle sponde dell’Eufrate. Come le vicine antiche città di Ur e Lagash, fin dal IV millennio a.C. era uno dei centri più importanti dei Sumeri, il popolo al quale dobbiamo l’invenzione della scrittura, prima ancora degli Egizi: e quindi l’inizio della Storia. Il gruppo di archeologi di cui facevo parte proveniva da nazioni diverse, ma eravamo affiatati e lavoravamo insieme con piacere. Tra loro c’era anche un amico che aveva studiato nella mia stessa università in Inghilterra, e ci scambiavamo pareri confrontando le nostre interpretazioni. Il sito sul quale concentravamo il nostro lavoro si stava rivelando ricco di reperti di ogni tipo, era una continua fonte di scoperte, e fortunatamente, i nostri paesi d’origine sembravano essersi dimenticati di noi, nonostante il conflitto. Ma il nostro splendido isolamento non poteva durare a lungo, infatti fummo tutti richiamati all’università di Filadelfia, sede dei nostri finanziatori. Per quanto mi riguarda poi, quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, fui costretto a tornare in Italia: ero ormai diventato un nemico.

    Padre Gabriele lo aveva ascoltato con attenzione mentre lo aiutava a svuotare lo zaino, poi lo abbracciò come faceva da ragazzo:

    – Io devo lasciarti perché questa è una notte interminabile e non posso ancora riposarmi. Tu cerca di farlo anche per me, poi potrai ricominciare a lavorare anche se in solitudine. Intanto ti farò portare lenzuola, coperte, una lampada da tavolo e delle candele, poi ti prometto che cercherò di trascorrere con te tutto il poco tempo che potrò sottrarre alle mie incombenze, perché i tuoi Sumeri mi incuriosiscono molto. Di loro non so nulla, ricordo soltanto che nella Bibbia si trova il nome di una delle città che hai citato. Genesi cap. 11:31. Poi Terakh prese Abramo suo figlio e Lot, figlio di Haran, figlio cioè di suo figlio, e Sarai, sua nuora, moglie di Abramo suo figlio, e li fece uscire da Ur dei Caldei per andare nella terra di Canaan.

    Francesco aveva gli occhi lucidi quando salutò Gabriele; poi, rimasto solo, si lasciò andare stremato sul letto con la certezza che non avrebbe potuto in alcun modo obliare l’orrore, il terrore che sarebbero restati per sempre nella sua mente. Non si era mai sentito così stanco, anelava a un sonno senza sogni per annullarvi l’incubo delle ultime ore trascorse. Vagò intorno con lo sguardo cercando di penetrare fin negli anfratti più bui, per appropriarsene, perché quello spazio sarebbe diventato la sua casa, dalla quale non avrebbe più potuto allontanarsi per lungo tempo. In quel luogo silenzioso egli quasi dimenticava, vergognandosene, la guerra con i suoi orrori. S’immergeva nella paziente ricerca di decifrazione di un mondo remoto, quasi che riscoprirne la vita, conoscere il pensiero di uomini lontanissimi nel tempo, potesse essergli di conforto, esorcizzando gli sconvolgimenti attuali.

    II

    Lo studioso non sapeva neppure che ora fosse. La concentrazione necessaria per portare avanti il suo lavoro gli faceva perdere la cognizione del tempo, ma ora, al termine di una lunga giornata, si sentiva stanco. Deposti gli occhiali sul tavolo, si massaggiò meccanicamente i lati del naso, dove le lenti avevano lasciato due profondi solchi. Si alzò, stirandosi per riattivare la circolazione dopo tante ore di immobilità, accese una delle sue preziose candele, e si accinse ad assaporare quella che era diventata una pausa attesa con ansia, che scandiva le sue giornate di lavoro, riuscendo a dar loro una parvenza di normalità e regalandogli un momento di pura gioia. Schermando con la mano la tremolante fiamma della candela per impedirle di spegnersi, avanzava lentamente lungo l’esiguo spazio lasciato libero da casse e contenitori che aumentavano continuamente, e illuminava le scritte dipinte con la vernice su ognuno di essi per indicarne la provenienza. Città, musei, chiese, palazzi, abbazie di ogni parte d’Italia avevano mandato in Vaticano le loro più preziose opere d’arte perché trovassero ricovero negli stessi luoghi che lo ospitavano, nel tentativo di preservarle dalle eccessive e interessate attenzioni tedesche. In fondo alla stanza, nel suo angolo più buio, quelle stesse casse delimitavano e occultavano un piccolo vano che conteneva sculture e quadri protetti soltanto da un telo bianco. Non si stancava mai di contemplare quelle opere straordinarie così da vicino, come se gli appartenessero.

    Dolci sguardi di Madonna, serene vedute della laguna veneta, antichi libri meravigliosamente miniati. Sbucavano poi, tra ombra e luce, grandi busti di imperatori romani, muti, severi testimoni di un mondo lontano, del quale erano i padroni, che veniva definito violento. Certamente violento, rifletteva Francesco a voce alta, ma in un tempo in cui non si concepiva alternativa. Un vincitore e un vinto, ma entrambi armati, con la possibilità di difendersi. Esisteva il rispetto per il vinto valoroso. La grandezza e l’originalità dell’Impero democratico di Roma, non era da ricercarsi nelle conquiste, nei circhi, nelle lotte gladiatorie, ma nel voler dotare ogni parte del suo immenso territorio, con ciò che quei nostri antenati ritenevano fosse necessario per rendere la vita degna di essere vissuta, senza però stravolgerne le peculiarità.

    Ecco quindi sorgere una rete di strade stupefacente per l’epoca, ponti, acquedotti e terme. Costruzioni immense, meravigliose, certamente atte a glorificare la grandezza dei loro costruttori, non ideate però, per il godimento di un singolo o di una casta ristretta; erette invece perché tutti, donne e schiavi compresi, ne potessero usufruire a titolo praticamente gratuito. Le terme erano luoghi dove, prima o poi, si poteva incontrare chiunque. In quegli ambienti fantastici, ritemprandosi nel rito giornaliero del bagno, tra giardini, biblioteche, spazi aperti per lo sport, circondati da statue, marmi, dipinti, anche il più infimo poteva sentirsi uguale a chi gli era tanto superiore per nascita, censo, cultura. Mai, in nessun periodo della storia, era accaduto che qualunque uomo libero potesse avere la sensazione e l’orgoglio, di sentirsi una parte importante di un tutto, di un’Idea, che allora, era Roma.

    Sorridendo di se stesso e delle sue riflessioni che, se avesse avuto un uditorio, sarebbero sembrate forse parziali e dettate dal grande amore che nutriva per la sua città, dopo alcuni passi concludeva invariabilmente la sua passeggiata nella contemplazione di un gruppo statuario, davanti al quale veniva sempre colto da sentimenti contrastanti.

    Il suo scetticismo di scienziato era scosso dal fascino che la giovanile Pietà michelangiolesca esercitava su di lui giungendo dritta al suo cuore, e nonostante la fede di suo padre e dei suoi antenati, l’emozione lo coglieva davanti all’abbandono del Cristo deposto tra le braccia della giovane madre. Gli occhi chini di lei, esprimevano l’accettazione della violenza subita per un fine più alto, emanando nonostante tutto, una sensazione di serenità. Francesco se ne allontanò a malincuore, cercando di riportare la sua attenzione sulle difficoltà che disseminavano il cammino verso la decifrazione dell’antica scrittura sumerica. In un momento critico come quello attuale, in cui, non avendo la possibilità di dialogare con i suoi colleghi, di conoscerne i progressi e comunicare loro i suoi, poteva contare solo su se stesso per affrontare i problemi e risolverli.

    Prima di rimettersi al lavoro, sollevò la brocca posata accanto al suo letto, versò un po’ d’acqua in un catino poggiato su uno sgabello e si rinfrescò il viso stanco, passandosi l’asciugamano umido sul collo e sulla testa. Consumò poi il pane che era rimasto, spezzandolo nella minestra di patate ormai fredda ma ancora gustosa, servitagli poco dopo il tramonto da una delle suore che si prendevano cura di lui, accompagnata da una bottiglia di acqua fresca e da una mela. Così, un po’ rinfrancato, si sedette di nuovo al suo tavolo, per riprendere con rinnovata alacrità lo sfiancante ma indispensabile lavoro di copia di tutti i segni incisi sulle tavolette, necessario per permettergli un più agevole tentativo di decifrazione. Fino a quel momento le tavolette, i cilindri che aveva esaminato riportavano lunghi elenchi di merci che venivano scambiate con quelle di altri paesi con i quali il regno di Ur intratteneva rapporti commerciali. Altri manufatti recavano dettagliate informazioni su quanto fosse complessa e moderna l’organizzazione dello stato di quell’antichissimo regno. Francesco prese meccanicamente dal cesto alla sua sinistra una tavoletta ancora mai esaminata. Era abbastanza grande, almeno dodici centimetri per tredici, discretamente conservata e scritta su entrambe le facciate. Ma il lato che si accingeva a esaminare presentava una curiosa particolarità, aveva solo poche righe di scrittura, il resto era stato lasciato libero denotando un insolito spreco di spazio da parte dell’ignoto scriba sumero. Dopo aver avvicinato il più possibile la lampada, prese a riportarne i segni su un foglio nuovo, ma si rese conto a un tratto che stava traducendo, senza volerlo, ciò che copiava. Quei segni diventavano parole, e le parole che si componevano sotto i suoi occhi non facevano parte di uno degli innumerevoli elenchi di merci come tanti altri.

    Non erano neanche parte di un poema o di una lamentazione. Sembravano qualcosa di assolutamente unico, mai riscontrato a sua memoria, in uno scritto sumerico. Quelle lettere gli balzavano agli occhi come se stesse leggendo un diario. Erano un interrogativo, una riflessione che lo scrivente faceva a se stesso, fissata su quel foglio fittile per renderla ineluttabile.

    Chi ha ucciso Lugal? Com’è stato ucciso? Perché è stato ucciso? Quando è stato ucciso? E soprattutto a chi giova la morte di un giovanissimo aiuto–scriba che non aveva alcuna importanza?

    Francesco Rodano rimase senza fiato, con il cuore in gola che gli batteva con forza. Si trovava tra le mani qualcosa che nessuno aveva ancora scoperto, almeno fino a quando gli scambi di informazioni con i suoi colleghi non si erano forzatamente interrotti.

    Chi, come, quando, perché. Sono i primi interrogativi che, sulla scena di un delitto, un investigatore ancora oggi si fa, e

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