Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Aneurin e lo specchio
Aneurin e lo specchio
Aneurin e lo specchio
E-book532 pagine8 ore

Aneurin e lo specchio

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Inghilterra, XIX secolo. Aneurin è adesso un giovane scrittore di successo che vive in un mondo molto simile a quello che a lungo ha immaginato di poter costruire intorno a sé. A Witchburg, il piccolo paese affacciato sul mare del Nord, dove i casi della vita lo hanno condotto anni addietro, continua il suo lavoro di maestro e condivide poesie e alti ideali con le persone che ama. Ma ben presto questa realtà perfetta e immota inizierà a rimanergli stretta. Più sicuro di sé, si convince di essere in grado di affrontare nuove sfide, di dare un significato diverso alla parola “oltre” e di partire, finalmente, alla scoperta di mete fino ad allora soltanto sognate. Arriverà così a Londra, con lo scopo di diventare un vero uomo di mondo. E, in questo grande teatro di vita, vedremo muoversi accanto a lui i personaggi che abbiamo già conosciuto e amato durante la sua prima avventura ma anche tanti altri che si mostreranno, pagina dopo pagina, in un continuo gioco di luci e ombre. Inizia così un nuovo e imprevisto viaggio di andata e ritorno fra inquietudini e riflessi di specchi, un cammino in cui Aneurin comprenderà molto di sé e degli altri, conquistando finalmente certezze profonde e definitive.
LinguaItaliano
Data di uscita28 apr 2017
ISBN9788892661752
Aneurin e lo specchio

Leggi altro di Silvia Grifoni

Correlato a Aneurin e lo specchio

Ebook correlati

Narrativa storica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Aneurin e lo specchio

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Aneurin e lo specchio - Silvia Grifoni

    (1862-1937)

    E PER INIZIARE...

    Io sogno.

    Io sogno di essere nel grande giardino della mia piccola casa sotto alberi di melo profumati di miele. Vedo tante persone che credo di non conoscere. Mi salutano da lontano con la mano e sembrano aspettarmi. Vado loro incontro e mi accorgo, mentre mi avvicino, che sono i miei cari, quelli scomparsi da tempo e quelli che ho ancora accanto. Mi sorridono e insieme prendiamo posto ad un lungo tavolo apparecchiato con una tovaglia candida, piatti, calici e vassoi. Ridiamo insieme ed io sono molto felice. Ma all’improvviso mi distraggo perché vedo lontano un alto muro che non ricordo di aver mai notato prima. Mi incuriosisco, lo raggiungo e cerco di capire come fare ad oltrepassarlo dal momento che non vi sono porte da aprire. Ma non riesco a scavalcarlo perché è molto alto e allora mi accontento di sbirciare dalle fessure aperte fra i mattoni, proprio da quelle che si producono dove la malta si deteriora lentamente e si sbriciola col tempo; mi affatico a trovarne una a tal punto grande da permettermi di guardare meglio. Finalmente ci riesco e vedo, al di là del muro, qualcosa di colorato e stupefacente a cui però non riesco a dare forma. Qualcosa di completamente sconosciuto. Ho voglia di dirlo agli altri ma quando mi volto indietro il giardino è deserto ed io, pur avvertendo una nuova solitudine, sono ancora curioso di andare oltre, finalmente oltre! Torno così sui miei passi ma, mentre sto pensando a come fare per riuscire in questa impresa, vengo di nuovo distratto e stavolta da un grande specchio che pende da un ramo. Lo raggiungo, guardo la mia immagine riflessa e provo paura perché non riesco a scorgervi il mio volto ma soltanto uno strano gioco di luci e ombre.

    Indietreggio e nel far questo, all’improvviso, mi sveglio.

    E mi sveglio con una gran voglia di scrivere di tutto ciò.

    Allora raggiungo lo scrittoio, prendo la penna, la intingo nel mio inchiostro nero come la notte ed inizio questo nuovo racconto che, seppur completamente diverso dal primo che vi ho narrato, sarà sempre il diario di bordo di un mio viaggio. Il resoconto di un cammino che ancora una volta non farò da solo ma in compagnia di altre persone. Affetti cari da tempo che avrò modo di conoscere in maniera più profonda e affetti nuovi incontrati per la via che forse non avrò mai occasione di conoscere come vorrei.

    Sarà il diario di un percorso tumultuoso durante il quale io mi scoprirò diverso da ciò che pensavo.

    E a voi, che spero abbiate il desiderio di viaggiare di nuovo con me, chiedo di tenere a mente quanto segue:

    Un orologio con dedica sulla cassa

    Una piccola duna di sabbia smossa

    Scatole di latta profumate di tè nero e tabacco

    Il minuscolo pezzetto mancante di un mosaico

    Spazzacamini e arcobaleni

    Spirito Guerriero

    Frizzini

    Zone d’ombra

    La luce intensa di una candela

    Un caleidoscopio di colori

    Il teatro della vita, e più di tutto...

    Riflessi di specchio.

    Perché tutto questo tornerà frequentemente in queste righe assumendo per me un significato particolare e diverso, pagina dopo pagina.

    Che dirvi ancora? Siete pronti? Si?

    Allora che l’arduo cammino abbia inizio.

    Seguitemi e buon viaggio!

    Aneurin

    CAPITOLO I

    Ricapitolando… io

    Sono arrivato a Witchburg nell’Agosto del 1872 e se dovessi, oggi, riandare con la mente ai fatti di cronaca di quell’anno ne ricorderei senz’altro due: la prima partita fra le nazionali di calcio di Inghilterra e Scozia, giocata il 30 novembre a Glasgow e il ritrovamento della Mary Celeste, il brigantino canadese che il 4 dicembre fu intercettato alla deriva, senza equipaggio e carico, presso lo Stretto di Gibilterra. E non perché di tutto l’anno siano stati soltanto questi gli avvenimenti degni di nota ma più che altro perché furono senz’altro quelli che colpirono a lungo l’immaginazione di un giovane uomo quale ero io a quel tempo: ossia la misteriosa scomparsa del capitano e dell’equipaggio di una nave, da allora definita fantasma, e l’incontro fra due squadre che per la prima volta disputavano fra loro la partita di uno sport che tanto mi incuriosiva ma che, per una mia particolare condizione fisica, non avrei mai potuto praticare.

    Forse non è neppure un caso che io li ricordi così bene perché, come spesso accadeva, ero solito trovare significati nascosti e correlazioni particolari fra la mia vita e tutto quello che le girava intorno e penso che mai, come in quel periodo, io mi sia sentito così alla deriva e che mai come in quel momento tutto quello che mi era impossibile fare, abbia gravato sul mio animo.

    Si può quindi senz’altro dire che quando misi piede per la prima volta a Witchburg, il piccolo paese di pescatori affacciato sul mare del nord dove i casi della vita mi avevano condotto ad abitare e a lavorare come maestro, non ero che un giovane tremendamente insicuro. E molteplici erano stati i motivi che mi avevano reso tale. Da pochi mesi avevo infatti perso il mio amatissimo padre, quel caro e insostituibile Joe che era stato capace di regalarmi un’infanzia bellissima della quale mi portavo dietro ricordi struggenti e malinconici. Ed era questo un dolore che si accomunava all’altro grande che aveva segnato da sempre la mia esistenza e che forse più di tutto aveva contribuito a rendermi tanto sensibile quanto mi ritrovavo ad essere, ossia il non aver mai conosciuto mia madre Isobel, morta giovanissima quando ero molto piccolo. A lungo, mi aveva dato gioia immaginarla come una sorta di Fata Morgana intenta ad osservarmi da chissà quale isola incantata piena di alberi di mele. A tal punto mi era mancato il suo affetto che, seppur inconsapevolmente, l’avevo sempre cercata e avevo collegato il linguaggio dei fiori alla sua figura pensando che, proprio attraverso questi significati nascosti, anche lei, che lo era altrettanto, tentasse di dialogare con me. E, per strano che possa parere, è vero che spesso e volentieri piante e profumi avevano accompagnato fatti salienti della mia vita mandandomi messaggi cifrati che solo io sapevo leggere come un continuo legame con lei. Ma di fatto non era stata che una mancanza enorme capace di segnare in maniera indelebile la mia giovane vita.

    Non contento di tutto ciò, facevo quotidianamente i conti con una situazione fisica che odiavo nel profondo. La tubercolosi ossea che avevo contratto in giovanissima età aveva infatti lavorato non soltanto sul mio fisico ma soprattutto sul mio animo, creando in me abissi di sconfinata insicurezza che mi collocavano idealmente su due scalini sotto a tutti gli altri. Io, che ero stato un giovanetto molto bello mi ero presto ritrovato zoppo e quasi gobbo e della mia iniziale bellezza non mi era rimasto che un viso d’angelo che si declinava adesso, in maniera assai bizzarra, su un fisico quasi prematuramente invecchiato. Infine andavo incontro ad un futuro completamente diverso da quello che avevo immaginato. La prematura e improvvisa dipartita di mio padre mi aveva infatti costretto ad affrontare cambiamenti imprevisti e ad affrettare decisioni a lungo rimandate: lasciare la fattoria dove ero nato e cresciuto, abbandonare proprio il mio amato Joe, appena morto, in un lontano cimitero in cui probabilmente non avrei più rimesso piede e, infine, cercare di farmi accettare in un ambiente lontano e del tutto nuovo, da persone sconosciute delle quali ignoravo persino il nome. E questa per me era stata forse la scommessa più difficile perché gran parte della mia prima giovinezza era trascorsa in un perpetuo ritiro dal mondo e dalla gente. L’avevo condivisa infatti soltanto con i libri, miei unici amici, volutamente lontano dagli occhi degli altri e con l’illusione di poter trovare, un giorno, un mondo migliore, capace di accogliere con una nuova umanità proprio i diversi come me. Tuttavia, il mio modo di essere e questa esistenza tanto ritirata, mi avevano reso sì capace di sognare ad occhi aperti ma anche pavido e poco convinto di poter mai agire in maniera decisa e coraggiosa. Avrei voluto osare ma poi mi chiudevo per timore nel mio guscio.

    Così, in quel pomeriggio lontano, poco più che ventenne, ero sceso da quella traballante diligenza accompagnato soltanto dal mio fido cane Argo, da Andreas, un ragazzino derelitto e abbandonato che avevo raccolto per la via, durante un’imprevista tappa del lungo viaggio, e da una mole di paure e insicurezze tali da risultare non quantificabili.

    E ignoravo, facendo questo, che, proprio mettendo giù quel mio piede zoppo dal predellino polveroso, non avevo che compiuto il primo passo di un cammino che avrebbe cambiato in maniera radicale il mio modo di vedermi, rendendomi alla fine consapevole che pure io, così imperfetto, potevo valere qualcosa per qualcuno. E portandomi, finalmente, a salire quei due tremendi scalini che avevo sempre percepito come una distanza insormontabile fra tutte le mie mancanze e le presunte perfezioni degli altri.

    Nella scuola elementare dove ero andato ad insegnare e nel piccolo paese che le girava intorno avevo fatto la conoscenza di persone che, alla fine, erano riuscite a farmi comprendere cosa fosse davvero l’affetto per gli altri, il rispetto per se stessi e cosa significasse vivere fra la gente. Io, che tanti problemi e tante inquietudini mi ero sempre portato dietro, sapevo adesso, grazie a loro, che l’amore, l’amicizia e la vera fiducia non avevano occhi ma soltanto cuore. E che era con questo che ogni giorno si dovevano intraprendere viaggi nuovi.

    Miss Violet, il Preside, Padre James con le sorelle Penny e Martha, il dottor Phillips e sua moglie Cressy, la signora Tilley, i signori Williamson, Andreas, Tim e l’adorata Anne erano adesso la mia famiglia. Quella con cui condividevo gioie e dolori, speranze e illusioni. Durante i lunghi anni che ci avevano visti compagni, la confidenza e il rispetto reciproco, la stima e l’amicizia condivise avevano creato intorno a me un mondo molto simile a quello su cui per tanto tempo avevo fantasticato. Quell’universo buono e umano fatto di grandi poesie ed alti ideali, di buone intenzioni e fratellanza di cui amavo sentirmi parte insieme a tutti loro. Ed io che spesso nel mio cammino avevo dubitato della possibilità che questo mondo migliore diventasse infine possibile, vedevo adesso le persone e la vita con occhi completamente diversi e con un ottimismo molto simile a quello che a lungo mi era stato compagno nella bellissima infanzia trascorsa accanto a mio padre. Per strano che possa sembrare, acquisire tali certezze aveva portato a cambiamenti notevoli nel mio modo di percepire non soltanto il ruolo che ricoprivo all’interno della società ma tutto quello che da sempre faceva parte della mia vita. Ricordi considerati a lungo malinconici diventavano finalmente soltanto cari, non più da chiudere in vecchie scatole di cartone affondate in qualche cassetto della mia camera ma da vivere come i pensieri più dolci delle mie giornate. Sapevo adesso che anche quello che mi aveva condotto ad essere ciò che ero faceva parte di me.

    La mia vita a Witchburg era fatta di semplici gioie: una biblioteca piena di libri usati raccolti ovunque, classi di bambini rumorosi, una scuola serale per insegnare a tutti a leggere e scrivere, recite natalizie sempre meno riuscite, mercoledì sera a casa del Preside, ritrovi parrocchiali il pomeriggio della domenica e opere di beneficenza da portare a termine. Ma era anche ampi spazi di cielo da osservare su spiagge dalle lunghe maree, tramonti lontani su terre sconosciute, notti silenziose in cui scrivere di tutti i miei pensieri, lente passeggiate nella brughiera sassosa, calmi e quieti pomeriggi di discorsi importanti intorno ad un tavolino posto davanti ad un caminetto acceso.

    Witchburg era un mondo a sé, piccolo ma quasi perfetto, dove la persona più discutibile risultava essere, infine, soltanto la signora Williamson, che spesso denotava una propensione al pettegolezzo e una chiusura mentale molto distanti dai modi di essere di tutti gli altri. Una realtà quindi priva di gravi difetti e caratterizzata soltanto da peccati veniali mediati comunque e sempre da qualche pregio spesso nascosto.

    In questo universo buono tutti, con più o meno mancanze e ognuno alla sua maniera, avevano partecipato di quel mio traguardo infine raggiunto. Padre James mi era stato vicino fin da subito assistendomi durante il mio esitante inizio e assumendo col tempo il ruolo di amico, guida e confidente. E poi vi era Arthur Belany, il Preside, che mi coinvolgeva da sempre in ogni sua iniziativa, dimostrandomi una stima che non pensavo di meritare. Con loro due, oltre all’impegno scolastico vissuto come una missione, suddividevo anche la gestione di una piccola biblioteca, l’organizzazione della scuola serale per adulti, iniziative culturali e opere di beneficenza. Con il dottor Phillips e l’avvocato Williamson invece condividevo il piacere di conversazioni intelligenti e con Penny e Martha l’interesse per la pittura e la musica. Tuttavia vi erano state due persone che, nel portare avanti il loro cammino con il mio, avevano avuto un’importanza e un significato più profondo rispetto agli altri, arrivando ad avere nel mio cuore e nella mia vita un posto d’elezione che niente avrebbe mai potuto mettere in discussione: Miss Violet e Anne.

    La prima, che io amavo definire la mia Fata Morgana terrena, era stata la figura più importante nel mio primo anno di permanenza a Witchburg. Mi aveva fatto da guida con discrezione e vero affetto materno, era stata il pilastro a cui mi ero appoggiato per acquisire finalmente sicurezze precise e quasi definitive. Miss Violet era una donna estremamente capace che rivestiva un ruolo importante a scuola dove, oltre ad insegnare, faceva le veci del fratello Arthur. Quest’ultimo infatti, Preside più di nome che di fatto, era spesso impegnato in progetti e iniziative che lui sperava determinanti per ampliare l’orizzonte culturale di quel piccolo paese di pescatori e che forse lo gratificavano più di tutto il resto. Condividendo giornalmente l’impegno scolastico con Arthur, Padre James e Miss Violet avevo col tempo capito le dinamiche esistenti fra di loro e quanto fosse stato determinante il notevole impegno di quest’ultima nel mandare avanti tutto quanto. Miss Violet sapeva rivestire, seppur con una severità che all’inizio mi aveva oltremodo impaurito, il ruolo di maestra ideale, innamorata dell’insegnamento e del futuro dei suoi alunni almeno quanto me. E come se fossi stato anch’io un piccolo da accompagnare, così aveva fatto, passo dopo passo, giorno dopo giorno, fino a condurmi ad una meta neppure mai messa in preventivo. Perché a lei non dovevo soltanto la presa di coscienza delle mie nuove sicurezze ma anche quel meraviglioso incoraggiamento che mi aveva permesso, alla fine di un lungo percorso, di credere a tal punto in me da arrivare a pubblicare racconti e novelle che per tanto tempo avevo giudicato illeggibili semplicemente perché miei. Oramai da tempo avevo preso l’abitudine di finire tanti dei miei pomeriggi nel salotto piccolo di Miss Violet dove, davanti ad una tazza di tè profumato, riuscivo a parlare di me come non sapevo fare con nessun altro. Lei sembrava impersonare la mia Coscienza, tanto era capace di farmi riflettere su aspetti del mio carattere e della mia esistenza che non sapevo esistere, sopportare o cambiare. Grazie a lei un nuovo coraggio era sorto in me e forse, ancora più importante, una consapevolezza e una profondità diverse nel percepire il mondo che mi girava intorno. Finalmente più generose e meno legate soltanto al mio male di vivere.

    Con l’andare del tempo anche a scuola gli equilibri erano in parte mutati perché, quasi a voler incoraggiare le nuove sicurezze che avevo acquisito, veniva adesso lasciato al sottoscritto l’onere e la responsabilità di un ruolo diverso. Dopo le lezioni eravamo soliti riunirci in quello che chiamavamo ironicamente il Gran Consiglio, ma quando Padre James era impegnato in Parrocchia e Arthur affaccendato in qualche impegno dei suoi, io e Miss Violet rimanevamo soli a gestire e scegliere. Lei, abituata da sempre ad impartire direttive, fare e disfare con piglio autoritario, sembrava cercarmi soltanto per chiedere consigli ma poi, il più delle volte, lasciava semplicemente decidere a me il da farsi. E, anzi, mi spronava a farlo. Ci trovavamo nella sua stanza, proprio accanto a quella della presidenza e, seduti intorno alla scrivania, parlavamo di bambini scontrosi, timidi o ribelli, classi troppo numerose da gestire e genitori indigenti a cui offrire un’aiuto senza recare offesa. E il delicato profumo della sua colonia al mughetto mescolato a quello dei fiori del suo giardino, che da sempre adornavano lo stesso angolo della scrivania, facevano da sottofondo alla sua voce.

    «Senti Aneurin, avrei pensato di agire in questo modo ma, ovviamente, vorrei la tua opinione in tal proposito.» Ora lei si rivolgeva a me con una confidenza diversa perché come io avevo sofferto la mancanza di una madre, Miss Violet aveva rimpianto a lungo l’assenza di quel figlio mai nato e di cui una volta, tanto tempo addietro, mi aveva parlato senza remore. E questo delicatissimo lasciarsi andare, certo difficile per una donna tanto riservata e discreta quanto solo lei sapeva essere, così come questa sua imprevista capacità di fare un passo indietro lasciando a me la responsabilità e l’onore di decidere, mi facevano comprendere, più di tutto il resto, quanto davvero le fossi diventato caro strada facendo.

    E poi c’era Anne, la mia Anne.

    Accettando di sposarmi mi aveva reso felice e migliore sotto tanti aspetti. Il suo carattere estremamente deciso, frutto di un passato non facile, spesso quasi cinico ma anche capace di dolcezze impensabili aveva saputo regalarmi tutto quello di cui avevo bisogno e completarmi dove io ero invece ancora tanto carente. Ed essenzialmente in quella parte decisionale in cui spesso mi rivelavo incerto. Anne, cresciuta in orfanotrofio e poi abbandonata con un figlio piccolo da un uomo senza scrupoli, era dotata di una lucidità particolare nel vedere il mondo e i suoi difetti. Cosa che mancava completamente a me, troppo spesso innamorato di cause perse e irraggiungibili ideali. Lei aveva un carattere forte cui spesso mi appoggiavo, non avevamo mai avuto segreti l’uno per l’altro, e il nostro strano modo di stare insieme fatto di battibecchi continui e tenerezze improvvise mi dava una scossa prepotente e mi teneva sulla corda, facendomi sentire incredibilmente vivo e impedendomi di commiserarmi troppo, come spesso ero invece portato a fare. Se Miss Violet impersonava la mia Coscienza, Anne era di sicuro la mia Forza.

    Non avevamo avuto figli nostri, nonostante si fossero desiderati a lungo. Probabilmente la ragione era da imputare alla mia malattia, anche se il dottor Phillips mi aveva spiegato più volte che poteva non essere necessariamente questa la causa di una tale mancanza. Tuttavia, dal momento che con ogni probabilità lo era e che non risultava possibile che io guarissi, ci eravamo messi da tempo l’animo in pace. Non ne parlavamo mai fra di noi, forse per non far comprendere l’uno all’altro il gran dolore che era stato dover rinunciare a questa gioia. E anche perché vi erano ugualmente due figli che in tanti modi riempivano le nostre giornate: Tim, il bambino che Anne aveva avuto da quella sua prima tragica esperienza e che in cuor mio sarebbe sempre rimasto il piccolo Tim e Andreas, l’orfano che avevo raccolto per strada in quel mio primo lontano viaggio verso Witchburg, con il quale tanto avevo condiviso della mia vita inizialmente solitaria e che, dopo il nostro matrimonio, avevamo deciso di adottare. Ecco, erano loro i miei figli e come tali li amavo. Tuttavia, nonostante il fatto che con il tempo ne fossi diventato genitore a tutti gli effetti e che si rivolgessero a me con un altisonante padre, riservandomi formalmente una dose di rispetto quasi fossi stato un vecchio patriarca biblico, i rapporti fra di noi erano sempre rimasti gli stessi di quando del primo ero non solo il maestro ma anche il datore di lavoro della madre e del secondo il signore bisognoso di un cameriere. In fondo, eravamo tre amici che amavano passare il tempo a spasso per il paese, magari in visita al faro insieme al suo guardiano Samuel o acquistando caramelle rosse e un po’ frizzine nell’emporio del signor Smith. E su questo non è che avessi poi riflettuto a lungo. Mi stava bene così e non arrivavo mai a chiedermi quanto davvero li sentissi figli a quanto invece fratelli minori con cui condividere con complicità e amicizia i divertimenti del nostro piccolo mondo. Ma se l’affetto paterno fosse misurabile in base alle aspettative che ogni genitore ha per i propri figli allora io ne ero davvero padre a tutti gli effetti. Per loro infatti mi immaginavo un futuro ricco di quelle soddisfazioni che non avevo avuto io e nel primo cassetto del mio secretaire in camera da letto vi era una scatola di latta gelosamente custodita. Un tempo aveva contenuto il profumatissimo tè nero di Miss Violet, ma adesso vi serbavo il piccolo tesoro che avrebbe consentito a Tim e Andreas di frequentare un collegio, vicino a Durham. A dire il vero i ragazzi, nonostante si preparassero già da mesi a questo futuro cambiamento, non erano granché felici della prospettiva e sinceramente si stringeva il cuore anche a me all’idea di averli lontani da casa per la durata di tutto l’anno scolastico ma era un investimento necessario per il loro futuro e, alla fine, sembravano averne capito l’importanza. Nonostante non avessi mai amato collegi e istituzioni scolastiche troppo rigide e severe, bisognava prendere atto che i tempi stavano cambiando e che diplomi e lauree cominciavano ad avere un’importanza sempre maggiore. Io avevo potuto formarmi privatamente grazie a Lord Durringthon, che mi aveva concesso con molta generosità di studiare con un precettore presso l’enorme biblioteca della sua villa di campagna e che in più, da vero benefattore, mi aveva poi raccomandato per il posto di maestro a Witchburg.

    Ma queste erano fortune che capitavano raramente nella vita.

    E comunque, nonostante avessi maturato verso Lord Durringthon una riconoscenza non comune, alla lunga avevo sofferto questa mia mancanza di titoli precisi che non mi aveva permesso, ovviamente, di accedere ad altri riconoscimenti. Come per esempio ad una laurea vera e propria.

    Per Tim e Andreas auspicavo un cammino diverso, anche se affrontarlo, per una famiglia con i nostri mezzi, non sarebbe stato uno scherzo. Ma, grazie a Dio, io ed Anne avevamo una vita tutta nostra, semplice e senza grandi pretese. Riuscivamo ad essere felici con poco e casa nostra aveva regole tutte sue: compleanni festeggiati in giorni stabiliti dall’affetto, perché né Anne né Andreas, avevano mai saputo il giorno preciso della loro nascita, stanze piccole disseminate di oggetti del cuore, la pipa di mio padre sul caminetto e un’altra vecchia scatola di latta ancora profumata del suo tabacco, sempre lì, di lato, con dentro gli esigui risparmi di un maestro elementare, scrittore alle prime armi, e di una giovane sartina, assai capace nel rifinire merletti. E ancora: il gatto Mike acciambellato sulla sua poltrona preferita, il mio adorato e fido Argo sepolto in giardino sotto la quercia, libri in prestito appoggiati ovunque, un vecchio Atlante ricco di ricordi e i quaderni sgualciti di Anne sottolineati dalle mie correzioni. Lei aveva, oramai da tempo, iniziato a leggere e scrivere grazie all’aiuto di Miss Violet. L’unica e la sola che si fosse offerta per una tale impresa e che tanto avesse osato. Perché, insomma, in quei quaderni pieni di freghi c’era tutta la mia Anne!

    «Se mi correggi un’altra volta lo volo nel caminetto! Guarda che roba! Tutto scarabocchi!»

    «Anne, se non ti segno gli errori non impari niente.»

    «Eccoci con il sermone da maestro istruito! Ci pensa Miss Violet a correggermi. Non ho bisogno di te!»

    «Anne, sei stata tu a farmi vedere il quaderno. Mi hai detto guarda un po’ cosa ho scritto oggi? E se l’hai scritto male dovrò pure dirtelo, no?»

    «Dovevi guardare solo il contenuto! Non ti faccio leggere più niente. E d’ora in avanti non voglio neppure vedere quello che scrivi tu!»

    «A proposito di leggere, hai finito il libro che ti ho dato?»

    «Si, l’ho letto. Io vorrei proprio sapere perché i personaggi principali devono essere sempre uomini! Solo a voi tutte le fortune!»

    «Ma che dici? È... Defoe, è... Robinson Crusoe!»

    «E io sono Venerdì! Poveraccio anche lui! È il più simpatico del libro!»

    «Ma cosa non ti è tornato? Si può sapere?»

    «Niente! Solo che mi piacerebbe per una volta vedere una donna personaggio unico e principale di un bel libro! Guarda che una signora poteva avere lo stesso spirito di iniziativa del tuo caro Robinson, piegare ugualmente la natura ai suoi voleri, porsi le solite domande sull’esistenza e magari senza lamentarsi neanche tanto! Io andrei proprio volentieri su un’isola deserta! Sai che pace, senza lavorare, cucinare, mettere a tavola, rammendare, lavare, cucire. Ah, che tranquillità! Se il signor Crusoe fosse stato un po’ a servizio prima, sai che pacchia poi sull’isola?»

    «Ma non si può parlare così! Restituiscimi subito il mio Robinson Crusoe. Immediatamente!»

    «No! Lo tengo io perché in fondo voglio riscriverci un finale pieno di errori da correggere! Ascolta, Robinson torna a Londra e scopre che, invece di essere diventato ricco, ha perso tutte le sue piantagioni, così si impiega in una conceria dove lavorano le pelli dei lupi che lui riesce ad uccidere di notte per le strade di Londra e nel tempo libero entra a servizio di Venerdì che, finalmente ricchissimo, gli concede di lavorare in una serra mastodontica piena di alberi del pane. Oppure si potrebbe riscriverlo tutto e far sì che Venerdì, che nella realtà andava chiamato Mercoledì Pomeriggio, visto che Crusoe ha sbagliato nel tenere il conto dei giorni, sceglie una morte cruenta e preferisce finire ucciso e mangiato dai cannibali piuttosto che essere civilizzato da quel noiosetto di Robinson, tanto bravino lui. Che ne dici? Bello, eh?»

    «Ehi, non ti provare! Rendimelo subito! E visto che ci siamo, ascolta bene! Vedi un po’ di finirla di scarabocchiarmi i libri per cortesia. Sono stanco di trovarmi frasi tipo Che omino triste accanto alle poesie di Wordsworth oppure Ben ti sta, così impari a fare del male ad animali indifesi nella Ballata del vecchio marinaio di Coleridge!»

    «Ma è vero! Povero albatro, era pure un uccello del buon augurio!»

    «Sì, ma tu la devi finire! Rendimi Robinson Crusoe

    «Neanche morta! Ho in mente uno di quei finali!»

    Ecco questa era Anne. La mia Anne. Meravigliosa, arguta, dissacrante, impossibile e parte di ogni mia giornata. Ma anche lei, nonostante tutta questa forza e decisione, aveva preso l’abitudine, nel tempo, di appoggiarsi molto a Miss Violet che, con quella meravigliosa complicità che può nascere solo fra donne, le insegnava non solo la grammatica e l’ortografia, ma l’aiutava persino nel suo ruolo di moglie e di madre. Si può dire, senza affatto esagerare, che noi tre avevamo costruito un piccolo mondo a parte in quell’universo di pace e quando, dopo la scuola, il sottoscritto non avvertiva prepotente la necessità di fare due chiacchiere con la propria Coscienza, raggiungendo Miss Violet nel suo salotto, era quest’ultima a fermarsi volentieri a casa nostra ed io amavo profondamente rientrare con Tim e Andreas in quell’ora del pomeriggio che volgeva all’imbrunire, quando il tè era pronto e l’aroma dei biscotti alla cannella e zenzero di Anne aveva già riempito ogni stanza di quella nostra minuscola dimora. Sentivo dal piccolo ingresso le voci sommesse di Anne e Miss Violet che a volte leggevano insieme ma altre ancora stavano semplicemente a conversare, ridendo e parlando con quella nuova e imprevista affinità che era sorta fra loro. Allora mi fermavo sempre un attimo fuori dalla stanza, proprio ad un passo dalla soglia, e non certo con lo scopo di origliare ma soltanto perché amavo portarmi nel cuore il più a lungo possibile quella bellissima sensazione di tranquillità che avvertivo dentro di me. Quel chiacchierio era semplicemente la musica di casa mia, bella e consolatoria, quella che mi risuonava in testa nei momenti in cui desideravo scacciare pensieri molesti e preoccupazioni gravose. Più tardi, alla sera, Andreas accompagnava Miss Violet a casa per il piacere di parlare da solo un po’ insieme a lei. E due pomeriggi a settimana, dopo lo studio, si fermava nel suo salotto dove prendeva da tempo lezioni di pianoforte. Perché, nonostante la parentela fra di noi non fosse che sancita dalla legge e dal cuore, io e Andreas eravamo molto simili di carattere. Riflessivi e forse bisognosi di quell’affetto materno e confortante che a lungo ci era mancato.

    Quindi si può ben dire che ero un uomo compiuto, insegnavo e scrivevo con un certo successo, avevo la mia casa e la mia famiglia. Ogni tanto discendevo uno scalino ma prontamente tutti mi spingevano affinché lo risalissi. A volte questo capitava quando sentivo il mio fisico affaticato o vicino al baratro di qualche nuova crisi. Giorni strani e diversi che imponevano cambi di programma e lunghe reclusioni dentro casa al caldo e senza strapazzi. E in quei momenti avere tutti loro intorno era un balsamo per l’anima: qualcuno si fermava di prima mattina a salutarmi, qualcun altro aveva la pazienza di stare ad ore a parlare di cose di nessuna importanza per nessuno se non per me, altri ancora mi portavano tè profumati da bere insieme o libri nuovi da leggere seduti in giardino con una coperta sulle gambe.

    Era una vita semplice fatta di piccole cose ma era la mia vita. E tutte le poesie che amavo leggere e recitarmi in testa e i panorami da dipinto in cui trascorrevo le mie giornate si tramutavano spesso in sensazioni bellissime capaci di regalare emozioni e gioie che non avresti mai pensato.

    Anzi, proprio camminando per questi paesaggi, avevo distillato in me il concetto di luogo dell’anima ossia di un angolo ideale della mia mente dove i pensieri riuscivano a trovare una pace insperata e improvvisa. E i miei luoghi avevano sempre a che fare con albe sulla spiaggia, tramonti sopra le brughiere, colori e profumi di fiori stagionali, rumore di onde e canti di gabbiani, sabbia fra le dita, fuoco nel camino, profumo di casa. E di questo amavo scrivere, sperando che un mondo tanto bello dove il lieto fine sembrava comunque previsto per tutti, non rimanesse infine un sogno per pochi ma diventasse, anche grazie a me, una realtà alla portata di chiunque lo avesse desiderato. Nel mio piccolo speravo davvero di poter essere utile e di adoperarmi attivamente per cambiare almeno in parte le cose di quel mondo fuori, di cui vedevo le ingiustizie e le miserie, i dolori e la poca umanità. Beh, forse come proposito non era proprio dei più semplici, ma a volte ero riuscito a sentirmi determinante nell’apportare qualche piccolo cambiamento, perché i luoghi dove operavo di solito erano particolarmente congeniali alla mia indole: la scuola serale dove insegnando i rudimenti dello scrivere e del leggere a tutti, cercavo di offrire qualche possibilità anche a chi sembrava privato di un qualsiasi futuro per destino, la biblioteca dove spesso condividevo le mie passioni più profonde con persone su cui non avrei mai scommesso, ed infine le aule della piccola scuola elementare, dove cercavo di portare avanti il mio ruolo di maestro con un’umanità diversa rispetto a quella degli istituti dei nostri tempi, dove di solito si educava con regole rigide e severe all’eccesso, quelle stesse che, durante la mia prima infanzia avevo anch’io subìto e odiato. In realtà cercavo solo di trasmettere ai miei piccoli alunni i valori che mi erano cari e in cui credevo fermamente: il rispetto e la fratellanza, la curiosità verso il mondo e tutte le sue diverse realtà, l’interesse per la conoscenza, e, più di tutto, l’amore per la lettura che ritenevo essenziale per la crescita di ogni individuo. Tentavo di accompagnare per mano chi attraversa la difficile fase della crescita rispettando comunque il bellissimo universo dei bambini, da sempre il più innocente e il migliore fra tutti quelli che mi vedevo girare intorno.

    La biblioteca, che avevamo aperto grazie ad un progetto del Preside ma quasi più per scommessa che per vera convinzione, era un altro luogo ideale dell’anima, che aveva il potere di evocare nella mia mente il periodo in cui, molto giovane, malato e insicuro, avevo trovato conforto e felicità soltanto nei libri che a lungo avevo ritenuto i miei unici amici. Alla biblioteca, un ambiente accogliente con lunghi tavoli di legno di quercia, scaffalature stracolme di volumi e un bel campanello scacciaguai appeso sull’architrave della porta, trascorrevo molti dei miei pomeriggi sistemando e catalogando volumi di vecchie collezioni e, spesso, a dare suggerimenti a chi ne faceva richiesta. E la soddisfazione più grande era riuscire a consigliare quello che io amavo definire il libro perfetto perché capace di far scattare in testa la magica scintilla e la passione più grande. Ossia quel meraviglioso entusiasmo che un tempo aveva salvato anche me da una condizione di infelicità perpetua, rendendomi curioso oltre ogni dire e esortandomi con forza a sfogliare sempre pagine nuove e a spegnere la candela alla sera prima di dormire solo dopo aver letto qualche nuovo capitolo del libro del momento. E quando riuscivo a far nascere questo sentimento in qualcuno, e soprattutto in quelle persone che varcavano la soglia della biblioteca più per curiosità che per altro e che magari nella loro vita non avevano mai letto più di tanto, il mio orgoglio saliva alle stelle.

    Ma una volta, e in maniera alquanto diversa, riuscii davvero a sentirmi più utile del solito. E in un contesto nel quale non avrei mai pensato di poterlo essere a tal punto.

    Era un giorno di settembre, le mele quasi del tutto mature spiccavano sull’albero del mio giardino, il cielo plumbeo regalava contrasti non previsti su quelle lunghe spiagge e la scuola era iniziata da pochi giorni, tanto che nelle classi vi era ancora l’odore dell’estate appena finita e nella stanza di Miss Violet quello dell’ultimo spigo raccolto.

    «Abbiamo bisogno di te Aneurin» mi disse lei in una di quelle mattine aspettandomi sulla porta proprio in vetta alla scalinata d’ingresso «vi è un certo problema da risolvere e penso che sia materia tua. Vieni!» e mi indicò il lungo corridoio che conduceva al cortile sul retro.

    La scuola non era grande: serviva la nostra piccola cittadina e anche l’immediato entroterra, per cui le classi erano poche ma abbastanza numerose e ospitavano bambini dai sei ai dodici anni. A Witchburg era l’unica scuola, tanto che mancavano del tutto, come spesso capitava nella piccola provincia, istituti accreditati per la formazione superiore. Chi desiderava continuare gli studi doveva raggiungere qualche città vicina e specialmente Durham, sede fra l’altro di una delle più antiche Università dell’intero paese. Spesso, al pomeriggio, dopo la scuola noi insegnanti preparavamo privatamente e con lezioni aggiuntive quei ragazzi che tentavano un tale percorso e spesso, quando tornavano dopo tanto a salutarci oramai grandi e magari giovani matricole, il nostro cuore toccava vette indescrivibili.

    Quel giorno mi affacciai dalla porta e vidi un bambino seduto sulla panchina di lato al giardinetto spoglio dove il custode stava già spazzando le prime foglie morte. Accanto a lui una stampella molto simile al mio bastone. Sentii una stretta al cuore: sapevo esattamente quello che stava provando. A lungo avevo sofferto simili sensazioni e, a dire il vero, non ero mai riuscito del tutto a cancellarne gli amari ricordi tanto che spesso riaffioravano nel mio io più profondo, nei momenti più impensati e senza motivi precisi.

    «Non vuole entrare. Dovrebbe andare nella prima classe, quella di Padre James ma si vergogna e dice che i bambini lo prendono in giro. È così piccolo! Penso che tu sia la persona più adatta a gestire questa cosa, sei così sensibile e, senz’altro, sai quello che è il caso di dire.»

    «Come si chiama?»

    «Matthew. Vuoi che venga con te?»

    «No grazie, Miss Violet. Penso di farcela da solo.»

    Lei si allontanò senza tuttavia perderci di vista ed io mi avvicinai a Matthew che alzò gli occhi su di me con aria sorpresa. Era davvero piccolo e aveva una faccia buffa che sembrava il disegno di un bambino che si è divertito con i gessetti colorati sulla lavagna.

    «Ciao, io sono il maestro Aneurin. Posso sedermi un po’ qui, accanto a te?»

    Lui mi guardò ancora con una strana espressione ma poi sorrise e annuì. Fu così, in maniera molto semplice, che iniziò la nostra amicizia. Trascorsi ogni giorno dei due mesi seguenti con il piccolo Matthew, parlavamo e giocavamo insieme. Lui mi guardava zoppicare mentre io cercavo di fargli capire che non era che un altro modo di camminare. Dopo due settimane accettò di entrare in classe e a Natale di recitare sul palco della parrocchia. Ed io con lui. Proprio io... che non avevo mai voluto calcare le scene, che avevo sempre partecipato come voce fuori campo seduto in zone marginali del teatro e che tanto avevo fatto per evitare maschere e costumi che potessero rendere la mia figura ancora più grottesca, quell’anno accettai di uscire sul palco per accompagnare lui. Con due penne in testa e gli occhi bistrati, un mantello corto pieno di frange e uno spadino finto fermato alla cintura. Io e lui, accanto: io con il bastone e lui con la stampella. Avevamo impiegato tanto tempo per preparare la nostra uscita, fatto molte prove, ripetuto spesso la nostra parte e improvvisato più volte l’inchino finale. Passavo le giornate insieme al piccolo Matthew e spesso le ore scorrevano così veloci che mi ritrovavo in ritardo su tutto il resto. Arrivavo trafilato a tavola, a scuola, in parrocchia e alla biblioteca, ma nessuno aveva mai niente da dire sapendo già dove spendevo buona parte dei miei giorni. E che io un tempo mi fossi dato così tanta pena per evitare di apparire sul palco era indicativo di come a lungo avessi sofferto della mia condizione fisica. Perché le nostre non erano certo recite capaci di intimidire dal momento che, del tutto involontariamente, scivolavano spesso dal tragico al comico. Nonostante venissero organizzate con nobili scopi, ossia per raggranellare qualche solderello da devolvere a cause pietose, erano funestate con una continuità preoccupante da crolli di palchi, rovesciamenti di poltrone, vuoti di memoria inconcepibili e stonature agghiaccianti nei cori natalizi. Non penso quindi che l’apparire di un attore zoppo avrebbe potuto pregiudicare ancora di più il discutibile esito. Tuttavia a lungo non ne avevo voluto sapere rimanendo appunto ai margini. Quella sera invece non mi preoccupai per me ma soltanto per Matthew ed entrai in scena spedito e fornito di una sicumera che non mi era mai stata propria tanto che tutti applaudirono il mio ingresso con un entusiasmo non comune.

    In quel momento così particolare riuscii finalmente a comprendere come non si finisce mai di diventare qualcosa di diverso da ciò che siamo e che i nostri limiti esistono soltanto perché abbiamo deciso di ritenerli tali. E a Natale, dopo la fine della recita, gli altri mi avevano fatto un regalo per ricordare sempre la conquista di questa nuova sicurezza e tutto il tempo che avevo ben speso per raggiungerla: un orologio con tanto di lunga catena e una dedica sulla cassa Ad Aneurin, il nostro attore preferito!

    «Sai» mi disse Miss Violet «ci vuole tempo per raggiungere mete diverse. Che questo dono scandisca il traguardo delle tue future! Ricordati, Aneurin, avrai sempre nuove soglie da oltrepassare.»

    Per me fu un regalo importante e, nonostante non fosse un orologio molto preciso e perdesse diversi minuti, lo portavo sempre con me. Ogni mattina lo agganciavo al taschino del mio panciotto e lì lo tenevo senza neppure consultarlo. Vi erano le campane della cappella di Padre James, il profumo dei biscotti di Anne, le ombre che si allungavano alla sera, la campanella della scuola... tante cose che servivano a scandire il tempo delle mie giornate ma l’orologio rimaneva lì, proprio sotto lo stomaco, sulla sinistra del cuore, in quel magico luogo dove proprio Anne diceva di sentire le farfalle.

    Alla fine dell’anno seguente Matthew partì con la sua famiglia per l’America ma ci scrivemmo per un lungo periodo e, una volta, mi inviò l’immagine di un vero capo indiano con tanto di calumet fu-mante e due penne sul cappello. Una bella stampa che finì appesa nella camera dei ragazzi, nonostante Tim ne avesse una paura matta. Per me, a quel tempo, fu un distacco doloroso e spesso mi ritrovavo a pensare al piccolo Mathew, chiedendomi cosa ne fosse stato di lui, immaginandomi la sua nuova vita e augurandomi che fosse felice.

    Ma in quel momento fu bello pensare che avevo partecipato anch’io a far sì che quei suoi passi zoppicanti, di cui tanto si vergognava ma che altro non erano che un diverso modo di camminare, non siano stati che i primi di una lunghissima serie che lo ha condotto in un paese nuovo da scoprire e conquistare.

    Questo era Witchburg, quel mondo buono su cui avevo fantasticato per buona parte della mia giovinezza e che, da un certo punto in poi, mi

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1