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Misteri e manicaretti della Valmarecchia
Misteri e manicaretti della Valmarecchia
Misteri e manicaretti della Valmarecchia
E-book359 pagine4 ore

Misteri e manicaretti della Valmarecchia

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Info su questo ebook

Un binomio tra narrativa poliziesca e passione per la cucina. Un libro da leggere e da gustare. La Valle del Marecchia è situata nell’entroterra di Rimini, all’estremità sud dell’Emilia Romagna, al confine con Toscana e Marche. Regala paesaggi bellissimi punteggiati da borghi, castelli, grotte, necropoli villanoviane, musei, fonti, boschi. Siamo sull’Appennino, in un paesaggio incantevole e romantico. A chi mai verrebbe in mente di associarlo a vicende criminali? Eppure eccoci qui, la casa editrice Edizioni del Loggione ha trovato venti autori abbastanza incoscienti da riuscire ad ambientare vicende thriller in luoghi apparentemente tranquilli come questi. Ma forse è proprio questo contrasto tra la dolcezza del paesaggio e la suspense delle storie a rendere questa antologia così originale. Sono storie che ci raccontano del territorio della Valle del Marecchia, dei suoi segreti, delle sue leggende, della sua gente. E del suo cibo, tanto significativo che ad ogni racconto sono abbinate ricette tipiche del territorio. Venti ricette proposte dai ristoratori della Valle del Marecchia preparate con i prodotti tipici del territorio: castagne, polenta, tartufo, raviggiolo, formaggio di fossa. In collaborazione con l’Associazione Mac Guffin e gli autori di Bottega Finzioni fondata da Carlo Lucarelli
LinguaItaliano
Data di uscita21 gen 2018
ISBN9788893470780
Misteri e manicaretti della Valmarecchia

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    Anteprima del libro

    Misteri e manicaretti della Valmarecchia - Lorena Lusetti

    AA.VV.

    Misteri e manicaretti della Valmarecchia

    a cura di Lorena Lusetti e Simone Metalli

    Prima edizione eBook 2018 © Edizioni del Loggione srl

    ISBN 9788893470780

    Copertina: Elena Bertacchini

    Edizioni del Loggione srl

    Via Paolo Ferrari 51/c – Modena

    http://www.loggione.it – [email protected]

    Misteri e manicaretti

    della Valmarecchia

    Curatori Lorena Lusetti e Simone Metalli

    Associazione Mac Guffin

    con la collaborazione di

    Vanni J. Balestra, Eva Brugnettini e Jacopo Donati

    INDICE

    Altri ghibellini

    BORRAGINE CON RAVIGGIOLO

    Il castagnaccio non si mangia freddo

    CASTAGNACCIO

    Il ballo angelico

    PASSATELLI IN BRODO

    Buono come il pane

    LA SPIANATA DI MAIOLO

    I frutti della luna

    ZUPPA INGLESE

    Una stella sull’aquilone

    POLENTA CON IL RAGÙ

    L’accomandigia, ovvero la novella del morto scomparso

    FAGOTTINI, CACIO E FAVE

    TORTELLI ALLA LASTRA

    L’anello mancante

    STROZZAPRETI CON IL RAGÙ

    Imprevedibili trame

    LASAGNE DELLA TRADIZIONE

    Un’ultima indagine per il vice commissario Marcello Filippi Holmes

    BUSTRENGO

    CONIGLIO AL GUANCIALE E FINOCCHIETTO

    Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro

    e il tocco filosofale

    RAVIOLI ALL’AMBRA DI TALAMELLO

    Il vento fa il suo giro

    CONIGLIO AL FINOCCHIO SELVATICO

    STROZZAPRETI CON ZUCCHINE E FORMAGGIO DI FOSSA

    Un tartufo di troppo

    TAGLIERINI AL TARTUFO

    FARAONA CON MIELE E SIDRO

    La scelta

    RICETTA CON FORMAGGIO FRESCO SLATTATO

    MARMELLATA DI CIPOLLE ROSSE E UVETTA

    Alla salute di Beta

    STROZZAPRETI CON ACCIUGHE E FRUTTI DI CAPPERO

    Figlia unica

    PIADINA ROMAGNOLA

    Il lago avvelenato

    RAVIOLI DI FARINA DI CASTAGNE CON FORMAGGIO DI FOSSA E PERE CARAMELLATE AL BALSAMICO

    La cena

    SFORMATINO DI SQUACQUERONE SU FONDUTA DI FORMAGGIO DI FOSSA

    L’ombra del cipresso

    GALLETTO IN COCCIO

    Le rondini volano a marzo

    IL CAPPELLETTO STORICO DEI MALATESTA ARRICCHITO DALLA MISCELA LEONE

    BIOGRAFIE AUTORI

    "...sempre mi torna al cuore il mio paese

    cui regnarono Guidi e Malatesta..."

    tratto da Romagna di Pascoli

    Altri ghibellini

    Vanni J. Balestra

    Ambientato a Casteldelci

    Sceso dall’auto, Giulio Cristofori guardò il paesaggio che si srotolava ai suoi piedi. Dal colle cui stava abbarbicato il paese, la valle si allungava a perdita d’occhio tra dorsi sinuosi come onde marine: un mare verde che evocava quello adriatico.

    Da quelle parti l’ispettore non era mai stato: né a Casteldelci – così era chiamato il borgo – né nella valle che traeva il nome da un fiume – Marecchia – sfociante nella sua Rimini.

    Da poco erano di sua competenza, quando una consultazione popolare ne aveva stabilito il trasloco; e da allora non era accaduto alcunché, in quella zona di confine fra tre regioni – le Marche, da cui proveniva, la Romagna cui s’era unita e la Toscana, da cui prendeva numerose influenze –, che esigesse il suo fiuto investigativo.

    Fino a quel mattino, il più torrido dell’estate: quando un cadavere era spuntato ai primi barbagli dietro un vecchio mulino posto ai piedi del borgo. Un corpo, stando alla polizia del luogo, riverso e con il cranio sfondato da colpi ripetuti di pietra, da cui il sangue era zampillato sul greto. Lo sbirro era assai sensibile a certi slanci poetici, e imboccò di lena il sentiero onde accertarne l’accuratezza.

    Colà un appuntato gli offrì l’identikit del defunto: Matteo Fabbri, di anni 49, domiciliato a Rimini, celibe; trascorsi da gestore di locali in riviera e un presente (testé concluso) da albergatore in loco su terreni rilevati anni prima. L’edificio s’imponeva a corta distanza come un pugno sferrato al ventre adamantino del mare verde.

    Benché turbato, il direttore dell’albergo lo accolse con zelo antico.

    Sì: il principale era venuto a controllare gli affari, ripartendo a sera ormai già inoltrata. O così egli credeva, finché un’inserviente, sul far dell’alba, non lo informò che l’automobile era ancora lì posteggiata, con lo sfregio su un fianco che il Fabbri – a domanda rispettosa del direttore – aveva attribuito ai soliti guastafeste.

    Di chi si parlava?

    «Quei balordi invasati di ambientalisti» tradì uno sdegno da impiegato modello.

    Lo vessavano da quando aveva eretto quello che con poco estro linguistico chiamavano un ecomostro.

    «Una volta qua era tutta campagna» indicò un paesaggio perlopiù ancora incolto senza mostra di fare dell’ironia. «I valligiani ne vanno gelosi. Ma il progresso, io dico, è il progresso.»

    Da quegli attacchi il capo era apparso provato – tanto da pensare al ritiro. Sugli autori non sapeva altro che dimorassero a Pennabilli.

    Poi parlò un cameriere:

    «A fine turno fumavo una sigaretta qui fuori. Mi passò accanto e disse che faceva una passeggiata. Ha salito la strada che va al paese, poi deviato verso l’agriturismo. Il dottore può vederlo da qui, spostando appena lo sguardo.»

    Il dottore eseguì. Sorgeva isolato ai margini del borghetto.

    La cordialità dei gestori ripagò della scarpinata. Gli imbandirono una tavola signorile con veduta sulla vallata - ove l’ecomostro imponeva il suo sgarbato grigiume. La borragine con il raviggiolo, di cui non aveva mai sentito parlare, si dimostrò una gustosa novità e accompagnò una ricca distesa di selvaggina.

    «Mangiare è incorporare un territorio» considerò tra sé l’ispettore, citando là per là non sapeva quale tra i suoi cari poeti. Ringraziò l’ostessa Simona e non mancò di registrare la sua avvenenza. Conduceva l’attività col marito, toscano stagno e spigliato di nome Duccio, tra dissesti imputabili alla concorrenza del Fabbri.

    «Quell’affare ci rovina il paesaggio» l’oste ammise candidamente: «E gli affari ne soffrono.»

    Al tempo anche loro avevano puntato sulla Romagna, sperando di vedere abbattuto l’obbrobrio. «Ma a discorre non è fadiga» disse l’ostessa per significare che alle parole non era seguìta l’azione.

    Quanto alla visita del compianto?

    Era stata lei a discorrervi:

    «Ci ha proposto di comprare l’albergo, quasi quasi per un pezzo di pane. Diceva che si era stancato, che voleva mettersi tutto dietro. Ma quant l’ost è tla porta, è segn ch’el vin è trist

    «Comunque non ci s’ha pensato su neanche un po’» precisò il marito.

    «E perché? Bell’affare, un hotel a un pezzo di pane» giudicò il piedipiatti afferrandone uno dal tavolo.

    «Dottore, noi non lo si vuole comprare. Noi, mi perdoni, lo si vuole radere al suolo.»

    Come? L’oste gli allungò un depliant. In greve maiuscolo vi era scritto:

    BASTA ROMAGNA DEL CEMENTO:

    REFERENDUM PER LA VALMARECCHIA ALLE MARCHE!

    Una nuova consultazione, quindi, uguale e contraria alla prima. Che razza di idea!

    «Merito di mia moglie, volpe di una donna» Duccio sembrò leggergli nel pensiero.

    «Ad Ancona il vento è cambiato: oggi c’è il partito verde al governo.»

    Quella causa, chi altri c’era a promuoverla?

    «Ci aiuta uno del posto» disse l’oste. «Luca Ricci. Vicino al partito verde, nonché l’ex proprietario dei terreni su cui sorge l’albergo.»

    A quel nome, parve a Cristofori che l’ostessa avesse avuto un sussulto.

    Pago e appesantito dal pranzo, traversò il paese verso il domicilio del Ricci. Ai muri, tra le vie pietrose del borgo, manifesti uguali a quello mostratogli. Sulla via chiamò la Centrale per avere certi ragguagli.

    L’uomo aprì un sorriso giallastro sulla faccia cotta dal sole. Coabitava con due grossi mastini, celibe come il caro estinto.

    «Lei cedette i terreni suppergiù quindici anni fa» riepilogò l’ispettore. «Il prezzo fu esiguo, si può dire quasi irrisorio. Posso chiederle la ragione?»

    Nel soggiorno vagava l’odore di selvaggina che gli era stata prima servita. Giacché nessuno spignattava ai fornelli, lo imputò a una specie di allucinazione olfattiva.

    «Sui terreni era impossibile costruire. Ragioni di tutela ambientale, mi spiegò un assessore ad Ancona. Quindi li ho venduti a quello straniero, convinto di aver fatto un affare.»

    «Ma Fabbri ottenne i permessi edili. Lei come se lo spiega?»

    Sorrise quasi un po’ costernato:

    «Non sta bene malignare su un cadavere ancora caldo. Tragga lei le conclusioni opportune.»

    L’odore resisteva. Irragionevolmente a Cristofori apparve chiaro che l’ostessa fosse stata lì di recente.

    «So di un’iniziativa in cui sarebbe coinvolto. Un ritorno a casa, per così dire. Cioè un referendum.»

    Ricci annuì:

    «Mi hanno chiesto aiuto perché conto qualcosa. Sono vicino al partito verde di Ancona, che farebbe giustizia di quello scempio edilizio. Ne guadagnerebbe il turismo, che sempre più premia la cultura e il paesaggio.»

    L’uomo nascondeva qualcosa. Anni addietro voleva edificare i terreni, ed eccolo ecologista dell’ultim’ora. Che volesse vendicarsi dello sgarro subìto?

    Il giorno appassiva in un crepuscolo levantino. Dai finestrini odorava il salmastro del suo mare inquinato, di Rimini a cui faceva ritorno. Ma c’era una sosta obbligata nel paese di Pennabilli, dai guastafeste che angustiavano Matteo Fabbri.

    Raggiunse una casettuola dimessa. Gli aprì un giovane smunto che identificò nel capo degli ambientalisti locali.

    Appreso il fattaccio, costui trasalì in modo convincente. Ma poi volle strafare, negando di aver rigato lui la vettura:

    «Non solo non siamo stati, ma neppure ne avevamo ragione. Ormai non c’era che da aspettare.»

    A Rimini, chiarì, le suppliche erano state raccolte dall’assessore all’urbanistica e al traffico, che aveva giurato d’intervenire.

    «Noie gliene abbiamo date in passato: danni modesti alla proprietà, senza mai scadere nella violenza. Ma ormai neanche quelli, raggiunto che avevamo lo scopo.»

    Diceva il vero? Non c’era che parlare con l’assessore; ma non era possibile fino all’indomani mattina.

    Giunto a Rimini, ignorò i segni della fame e del sonno per fare un’ultima capatina in ufficio. C’era un punto che voleva accertare, i trascorsi imprenditoriali del caro estinto. Ricordava vagamente qualcosa, e tra le carte ne trovò la conferma: anni addietro Fabbri aveva chiuso certe pendenze con dichiarazione di fallimento; i locali in riviera confiscati per bancarotta.

    Dunque come aveva costruito l’albergo? Su quella domanda dové calare il sipario.

    La notte portò un refolo dal nord-est. Nondimeno ebbe il sonno agitato. Strani fantasmi scendevano a visitarlo, reminiscenze mescolate a visioni. Il grecale tirava sulla barchetta che in pieno Adriatico lui divideva con un uomo grifagno, in cui riconobbe il profilo di un gran poeta. Più incerta l’identità dell’uomo che sedeva tra loro, e che il poeta designava come il veltro che li avrebbe tratti al sicuro.

    Accese il computer e fece le sue ricerche. Ricordava bene: era la Commedia di Dante. Su chi fosse il veltro, oggetto di una profezia di salute, gli esegeti si accapigliavano: chi diceva l’Imperatore e chi il Papa…Tra i sospetti – ne fu stupefatto – c’era anche Uguccione della Faggiola, signore di Casteldelci. «Condottiero e podestà ghibellino, seppe negoziare con i guelfi romagnoli e il papato. Inoltre» attestava l’enciclopedia digitale «fu amico dell’Alighieri che ospitò nei propri dominii.»

    Coincidenza; ma forse si poteva spiegare. Quello che portava al mulino, dove il Fabbri era spuntato cadavere, era detto sentiero di Dante in omaggio al soggiorno del poeta in esilio. E in paese vi era il museo di storia intitolato a Uguccione. Quei dati dovevano aver vagato nella mente affaccendata dell’ispettore, mescolandosi a memorie erudite allorché s’era abbandonato a Morfeo. Peraltro doveva ritornare a dormire: poche ore mancavano alla ripresa della sua indagine.

    L’assessore lo ricevé di buon’ora. Grondo di sonno, Cristofori domandò conferma della versione del militante.

    «Ebbene sì» aprì un sorriso istituzionale. «All’inizio siamo stati forse un po’ inerti. Siamo gente di mare, poco avvezza ad amministrare terre d’alta collina. Ma siamo anche sensibili alle denunce dei cittadini. Di quel caso mi ero interessato in prima persona. Avrei già provveduto, se…»

    «Se?»

    «Se non mi fosse giunta voce di una strana e discutibile iniziativa, che mi ha indotto, per rispetto dei futuri nuovi o vecchi amministratori, a sospendere ogni iniziativa sul luogo.»

    Benché travolto dalla prosopopea burocratica, allo sbirro tuttavia non sfuggì il significato di quelle frasi. Era al referendum che si alludeva. Dunque un’idea controproducente: agli osti sarebbe stato sufficiente aspettare.

    D’altronde – ragionò lasciando l’ufficio – poteva l’imprenditore ignorare che una forca pendeva sopra il suo business? Poteva ignorare che il ritorno alle Marche era ormai il solo modo di tenere in piedi l’obbrobrio? Certo: bisognava che i governanti futuri fossero bendisposti quanto i passati, il che – essendo il partito verde – non si poteva dare per certo. Ma era sempre più facile che ingraziarsi la giunta riminese dell’assessore, che aveva fama d’incorruttibile.

    Tutto da verificare, senz’altro. Ma il modo c’era:

    «Voglio l’elenco dei finanziamenti ai partiti nella regione Marche» telefonò al magistrato.

    La legge consentiva ai privati di mantenersi anonimi; ma una richiesta della procura era ineludibile.

    All’ora convenuta trovò gli elenchi in ufficio. Li compulsò avidamente per leggervi il nome di Matteo Fabbri, ma la speranza affievoliva via via che scorreva i nomi a ritroso. C’era, non stranamente, quello di Luca Ricci. E se…

    «Ancora io. Posso avere gli elenchi vecchi? Intorno al…» in che anno era stato costruito l’albergo?

    «Lei è tra i finanziatori più generosi degli amministratori di Ancona, sotto i quali spera a quanto pare di ritornare. Ma in passato, prima del cambio territoriale, ha sostenuto il partito avverso. Donazioni ingenti per più anni di seguito.»

    «Capita nella vita di cambiare opinione» osservò Ricci senza mutare espressione.

    Nuovamente, lo sbirro fu raggiunto da quell’aroma. Da dove arrivava? Come che fosse, aveva tutto un filo da dipanare:

    «Forse. Tuttavia, se il cambio è così tempestivo, si può sospettare che risponda a interessi della specie più materiale. E lei, nei dintorni, qualcuno ne aveva.»

    «Ecco: ne avevo. Ma come sa li ho ceduti, non avendo ottenuto la gratitudine che speravo.»

    Quella prima ammissione ridestò l’attenzione del piedipiatti.

    «Dunque sperava di ottenere qualcosa. Una licenza edile, suppongo. Non l’ottenne. Fabbri sì, e senza versare neanche una lira. Non ne possedeva più alcuna, dopo aver mandato in malora i suoi affari in riviera. Eppure, comprati i terreni, riuscì a erigervi quell’albergo.»

    «Non sempre il denaro è alla luce del sole» osservò l’altro con spiccata malizia.

    «Lo avevo preso in esame» annuì l’ispettore. «Ma stamattina, a Rimini, ho incontrato un certo assessore, che ultimamente si era interessato all’albergo. Prima di recedere, a causa di un’iniziativa a lei non ignota, è però riuscito a colloquiare col Fabbri, che gli ha fatto certe compromettenti allusioni.»

    Si trattava ora di aspettare. Come un buon giocatore, lo sbirro doveva sostenere lo sguardo dell’avversario mentre questi cercava nel suo volto i segni del bluff. Ma in questo era e si reputava un esperto.

    «D’accordo. Diciamo che non ho venduto i terreni, non realmente. Che li ho intestati dietro espresso consiglio.»

    «Di chi?»

    «Del partito. Con me erano in debito, ma saldarlo li avrebbe compromessi. Da queste parti nessuno voleva il cemento, non nel mezzo del loro bel mare verde. Se doveva essere, meglio attribuirlo a uno di fuori, un estraneo su cui sfogare le ire e che dal partito non avesse nulla a pretendere. Quello straniero aveva poco da perdere, qualcosina in più da ottenere.»

    Ci aveva visto giusto: come un Uguccione, Luca Ricci aveva saputo temperare con la trattativa la sua euforia di conquista. Ormai il film si svolgeva da solo, bastava leggerne testuale il copione:

    «Poi il prestanome ne ha avuto abbastanza. Dico bene? Ma non poteva metter fine alla recita. Non ora che lei aveva trovato la scappatoia. Così lasciò un segno, diciamo un ammonimento, sulla fiancata della sua auto.»

    Il compiacimento gli si era stampato sul volto; quasi non vedesse l’ora, frustrato di tramare a lungo nell’ombra, che il suo disegno si lasciasse ammirare.

    «Giusto. Ho iniziato ad ammansire i verdi – che, le ricordo, è il colore anche del denaro – un po’ prima di lanciare ai due quell’idea. A promuoverla pensassero loro, io avrei collaborato da una posizione un po’ defilata.»

    Si era alle battute finali, e a pronunciarle fu l’ispettore:

    «Ma Fabbri era irremovibile. Lo sfregio dell’auto non lo riportò alla ragione, fu anzi il colpo di grazia. Andò all’albergo a recitare l’ultimo atto. Poi salì all’agriturismo, perché? Forse a dire la verità. Aveva compreso come lei manovrasse quei due, e aveva scelto di vendicarsi. Ma ignorava che tra lei e l’ostessa i rapporti erano più… approfonditi» fissò Ricci negli occhi e capì di aver centrato un altro bersaglio. «Infatti Simona la contattò – lo prova una chiamata sui tabulati – appena Fabbri aveva preso congedo. Fuori di sé, lei scese a valle per affrontare il suo prestanome. Là deve avere perso il controllo.»

    «No!» Ricci si erse basito, quasi i rulli fossero stati a un tratto scambiati. «Non gli ho torto un capello, né avrei potuto. Sono solo un uomo d’affari.»

    «Ora è anche un omicida indiziato» annunciò l’ispettore. «Venga. Penseremo poi a sistemare i suoi cani.»

    Più tardi, consegnato l’uomo in questura, Cristofori si rimise al volante. Risalì la valle Marecchia, finché il borgo ormai familiare di Casteldelci spuntò con le sue poche luci nella tiepida sera. Ma invece di tornare in paese, sterzò sulla via per l’agriturismo.

    Entrò senza cerimonie e chiese di parlare unicamente a Simona:

    «Lei ha mentito, intestandosi l’iniziativa del referendum. L’idea fu di Ricci – me lo ha detto lui poco fa. Ma non si doveva sapere, o qualcuno avrebbe sospettato di un suo interesse. Più che mai suo marito, cui andava nascosto pure l’altro interesse che Ricci aveva nei suoi riguardi. Non ho alcun motivo di rivelarglielo, perciò le ho chiesto di parlare in privato.»

    L’ostessa tratteneva il respiro. Nel suo sguardo il terrore si confondeva a una specie di gratitudine.

    «Chissà perché la credevo all’oscuro, che ignorasse le trame del suo concubino, e che questi sfruttasse la sua buonafede come quella di suo marito. Ma quella bugia prova che voleva proteggerlo. Tant’è che si affrettò ad avvertirlo, dopo la visita del Fabbri e la confessione che questi le rese. Ingenuità che ha pagato cara. E mentre Ricci sistemava il suo prestanome, lei arrangiava una versione accettabile del colloquio per suo marito. Disse che vi offriva l’albergo, ben sapendo che lui non avrebbe accettato. Sperava nel referendum, credeva che l’obbrobrio avesse i giorni contati.»

    Rifiatò; nel silenzio gli sembrò di udire un rumore.

    «Solo una cosa non riesco a capire. Perché? La salute dell’albergo era la rovina della vostra piccola azienda. A tanto arriva l’abnegazione di una donna in amore?»

    Stavolta il suono fu ineludibile: un trambusto di bestia in gabbia, in cerca disperata di sbocchi.

    Gettò un occhio fuori e vide una figura correre a perdifiato sul pendio collinare. Quindi si lanciò dietro. Non era facile, poiché la bestia fuggiva come avesse ali ai piedi. Era questione per lei di sopravvivenza, mentre lo sbirro non faceva che il suo stanco dovere. Solo il caso fece sì che ormai quasi a valle, vicino al letto prosciugato del fiume, Duccio inciampasse offrendosi alle manette. Allora non fece più resistenza, consegnandosi al castigo che meritava.

    La notte, in questura, rese piena confessione.

    «Lo sapevo che doveva avere qualcuno. Ma non capivo chi. Finché l’altro giorno, per caso, l’ho sentita dire al telefono di un albergo che di qui a poco avrebbe gestito. Ho chiesto in giro e ho scoperto le intenzioni dell’assessore. Il referendum, le Marche: tutta una fola per il bene di quello là, per il quale, a cose fatte, lei mi avrebbe lasciato. Al dolore si è aggiunta l’umiliazione. Poi l’altra sera, come se niente fosse, l’ho visto arrivare trafelato e parlarle. Ecco che vengono allo scoperto, ho pensato. Impossibilitato a origliare, sono uscito e l’ho aspettato al mulino, dove prima o poi sarebbe passato.

    «Dopo sono tornato. E mentre piangevo tra le sue braccia, lei mi spiegava cosa avremmo dovuto dire. Io non registravo più un suono, ma avevo Simona con me ed era tutto quel che contava.»

    Cristofori sentì pena per lui. Prima o poi avrebbe appresa la verità, avrebbe saputo chi era l’uomo che doveva ammazzare. Allora avrebbe capito, anche lui, che il prestanome si era prestato fino alla fine, alle più beffarde tragiche conseguenze.

    BORRAGINE CON RAVIGGIOLO

    Ricetta esclusiva de La locanda di Federico - Casteldelci (RN)

    Ingredienti per 4 persone

    Foglie di Borragine

    Fiori di Borragine

    Pastella composta da:

    Farina

    Latte

    Sale

    Uovo

    Pangrattato

    Olio per friggere o strutto

    Raviggiolo

    Procedimento: raccogliere la Borragine selvatica e i suoi fiori, lavarli con acqua tiepida corrente e disporre le foglie di borragine su un panno assorbente. Preparare la pastella: in una ciotola rompere un uovo con un po’ di farina, latte, un pizzico di sale e di bicarbonato. Con una frusta mescolare dolcemente il compo­sto fino ad ottenere un composto omogeneo e cremoso. In un piatto mettere il pangrattato. In una padella fare scaldare olio da friggere o strutto. Prendere le foglie di Borragine e, ad una ad una, immergerle delicatamente nella pastella, passarle velocemente nel pangrattato e friggerle.

    Appena saranno dorate togliere le foglie di Borragine e farle asciugare su un foglio di carta assorbente. Salare e adagiare su ogni foglio un po’ di raveggiolo. Prima di servire in tavola, decorare con i fiori di Borragine.

    Il castagnaccio non si mangia freddo

    Sara Magnoli

    Ambientato a Casteldelci

    Anche Dante stava piangendo quando l’avevano ritrovato. Margherita Marconi invece non avrebbe speso una lacrima per quel bastardo, anche se ci aveva trascorso insieme la serata precedente. Non lo voleva, ma se l’era trovato praticamente sulla porta di casa.

    E adesso pensava che non era giusto che anche il tempo atmosferico si fosse alleato, quasi come la natura stessa soffrisse perché quel porco era morto.

    La Ripa del Lamento era lì, a lasciare intuire nella sua forma il profilo del sommo poeta. Che, quando pioveva, sembrava piangere.

    A Manfredo Grizzani qualcuno aveva piazzato un ferro nella parte sinistra del collo. E non era un ferro qualsiasi. Era uno stiletto, in ferro, che fino a pochi giorni prima se ne stava tranquillamente custodito nella Casa Museo di Casteldelci, assieme a testimonianze archeologiche di quel territorio della Valmarecchia che abbracciavano dalla preistoria all’età del ferro. E che era sparito in buona compagnia, con anfore, monete romane, incensieri, olle e bacili, lucerne e vasi.

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