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Dossier Betelgeuse
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E-book192 pagine2 ore

Dossier Betelgeuse

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Info su questo ebook

La caccia a un misterioso piano economico che ha la potenzialità di modificare la struttura sociopolitica del pianeta, iniziata negli anni '40 dalle SS Naziste, riesplode con tutta la sua ferocia con l'uccisione di un' anziana giornalista e con l' inseguimento spietato della figlia, una giovane economista che, all'oscuro di tutto, si trova a lottare per la vita contro un'élite dai poteri illimitati e disposta a qualunque cosa pur di impossessarsi  di un fantomatico "Dossier Betelgeuse".
LinguaItaliano
Data di uscita12 ott 2018
ISBN9788829526239
Dossier Betelgeuse

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    Anteprima del libro

    Dossier Betelgeuse - Gianfranco Pereno

    Capitolo 1°

    Trentatré anni! Gli anni di Cristo quando l’inchiodarono sulla croce.

    Trentatré anni e la seconda laurea tra le mie mani.

    Mi guardo allo specchio e mi chiedo come diavolo ha fatto a passare per la mia testa una similitudine così assurda.

    Neanche i capelli ho uguali a Cristo, io li porto tagliati corti, rossi, ho un viso pallidissimo, le lentiggini di mio padre e oltretutto sono femmina.

    Il trillo del cellulare mi riporta alla realtà.

    «Merda!» Sibilo, e subito mi mordo le labbra. Possibile che le uniche cose che ho ereditato da mio padre siano le lentiggini e la propensione alle parolacce? La mamma doveva proprio generarmi con un irlandese?

    Poi schiaccio il tasto verde senza nemmeno guardare il numero.

    «Ciao mamma!»

    «Ciao tesoro…»

    «Stai male?»

    «No! Benissimo!»

    «Ma non vieni, vero?»

    «No. Lucia.»

    «E allora perché mi telefoni?»

    «Per farti arrabbiare di più, diventi adorabile.» «Vaff...»

    La mano premuta sul microfono mi salva dall’ennesimo rimprovero, ma la gatta s’allontana ugualmente, lanciandomi uno sguardo disgustato.

    «Dove devi andare?»

    «Da nessuna parte, rimango a Milano, ma sono stata invitata a una diretta televisiva…»

    «Oggi!?»

    «Non ho potuto rifiutarmi!»

    «Ma io oggi mi laureo!»

    «Riguarda la guerra.»

    «IO MI LAUREO OGGI!!»

    «É la tua seconda laurea! E poi ci saranno i tuoi amici!»

    «Sei mancata anche alla prima! E poi io volevo te!»

    «Ti invito a cena fuori questa sera.»

    «Non posso!» Mento spudoratamente, «papà mi ha mandato un biglietto d’aereo, parto in serata!» Silenzio.

    Se c’è una cosa che ferisce mia madre è il legame che continuo a mantenere con l’uomo che l’ha messa incinta e che poi è sparito nel nulla per dieci anni, poco importa che fosse dell’IRA e con una taglia sulla testa.

    «Non è vero!»

    «Certo che è vero, ti mando uno scatto del biglietto?» «Ho un regalo per te, per la tua laurea.»

    «Me lo dai quando torno.» Balbetto sorpresa.

    «Lo sai che dopodomani sono a Londra, vero?»

    Avere come madre una giornalista di fama internazionale è sempre stata una rottura; io, festina dei cinque anni e lei in Corea, io, finale del campionato di basket e lei persa qualche parte del Medio Oriente, io, ginocchia sbucciate e prime mestruazioni e lei che per telefono mi dà il numero del suo dottore.

    «Il tuo giro di conferenze, lo so!»

    «É il mio lavoro!»

    «Il tuo ex lavoro! Hai settantatré anni!»

    «Ti odio!»

    «Crepa!»

    «Tutta tuo padre!»

    «Per fortuna!»

    «Te lo lascio al solito posto.»

    «Cosa?»

    «Il regalo!»

    «Ti voglio bene!»

    «Pure io.»

    Rientro a casa che ancora non è mezzogiorno, le mie devono essere state le feste di laurea più stupide e veloci della storia della Bocconi.

    La prima: massimo dei voti in Economia e Scienze Sociali, docenti che fanno a gara a farsi fotografare al mio fianco, compagni e amici che stonano frasi oscene, coroncina d’alloro di rito, spritz annacquati e tramezzini scadenti in un bar vicino all’Università pagati come fossero buoni, il solito cascamorto.

    La seconda, cinque anni dopo: International Politics and Government, esclusivamente in inglese. Docenti che fanno a gara a farsi fotografare al mio fianco, compagni e amici che stonano frasi oscene, coroncina d’alloro di rito, pizzette scadenti nel solito bar vicino all’Università pagate sempre per buone, il solito cascamorto.

    C’è da chiedersi perché mai una si deve laureare!

    Ho sprangato la porta con tutte le serrature disponibili, ho staccato la spina al telefono fisso e tolto la batteria al cellulare; quindi, mi lancio sul divano e finalmente piango.

    Mi sveglio che è buio e in mutande metto sul fuoco la caffettiera grande, poi sciacquo il mio tazzone da tisane preferito e ci verso dentro una dose generosa di Jack Daniel, un sorso di conferma e lo correggo con il caffè.

    Inconsciamente accendo il televisore e smanetto sul videoregistratore, alcuni secondi dopo parte l’intervista a Emma, mia madre.

    Ha settantatré anni, ma buca il teleschermo come una rockstar internazionale, ha passato tanto di quel tempo davanti e dietro la telecamera che sembra averla inventata lei.

    Scuoto la testa, osservando da donna il fascino esercitato dai suoi folti capelli grigi, io a quell’età sarò una rossa spelacchiata sulla via dell’alcolismo cronico.

    Un sorso abbondante e alzo il volume, ascoltando distratta la solita tiritera sulla Seconda guerra mondiale, il nazismo, il fascismo, la ricorrenza di qualche eccidio, i testimoni oculari…

    Spengo il volume, devo ancora capire come mai nei libri di scuola tutto quel periodo occupa meno spazio delle guerre puniche, perché nessun professore arriva mai a terminare il programma e perché alla mia generazione appaia come un tema talmente vecchio e superato da rompere le balle.

    Il trucchetto dell’audio invece lo utilizzo spesso, rende la trasmissione più interessante, inconsciamente cerco di comprendere il senso del discorso dalle espressioni dei partecipanti e divento molto più attenta, notando cose che altrimenti mi sfuggirebbero.

    Ora, per esempio, vedo chiaramente sul volto del conduttore, ben nascosta dalla professionalità e dallo stipendio, la stessa rottura di palle che l’argomento suscita in me.

    Mi godo un secondo, lungo sorso, ma poi inquadrano Emma e il sorso mi va di traverso, mentre incredula rimetto il volume.

    La mamma si sta tormentando visibilmente un ricciolo sul collo con il dito indice della mano destra.

    Quel dito glielo aveva spezzato uno stronzo ai tempi di quando papà era scomparso, e non è mai più tornato dritto; la mamma ha sempre messo una cura maniacale nel nasconderlo alle telecamere, al punto che anche i microfoni aveva imparato a impugnarli con la sinistra.

    Solo a casa si tormenta i riccioli in quel modo e solo in momenti di tensione altissima... qualcosa non va.

    Il primo shock ce l’ho quando a schermo pieno compare la fotografia del nonno, seguita da quella dello zio e dalla riproduzione di uno schizzo a sanguigna della mamma bambina.

    Io la storia la conosco a memoria, ma la mamma mi ha sempre proibito tassativamente di parlarne con chiunque.

    La Venezia del’44, la nonna di origini ebree che si era dovuta nascondere in campagna da amici, il nonno che lavorava in Arsenale, Luca, il fratello grande della mamma iscritto all’Accademia di Belle Arti e poi il fattaccio, quando una mattina erano arrivati i soldati tedeschi e avevano ucciso il nonno e lo zio, inspiegabilmente senza una ragione, uno scambio di persone si disse, un tragico errore dove la mamma si era salvata solo perché quella notte dormiva da una vicina.

    Ho sempre compreso il trauma della mamma e non ho mai fatto fatica a tenere la bocca chiusa, ma ora, a vederla spiattellata in TV, sono io ad essere schioccata.

    Riaccendo il telefono e faccio il numero di Emma, che risponde al primo squillo.

    «Lucia! Dove sei?»

    Non so perché ma la domanda mi manda in bestia.

    «All’aeroporto.»

    «Non dovevano farlo! Io li denuncio!»

    «Non dovevano fare cosa?»

    «Le foto! La storia!»

    «Dai mamma! É roba vecchia!» «Ma all’ora l’hai vista?»

    Mi mordo la lingua ma ormai è troppo tardi.

    «Io non sapevo nulla! Quel coglione di Berlano ha voluto fare un maledetto scoop!»

    «Mamma calmati! É una storia vecchia, sono passati decenni ormai, capisco il tuo dolore ma…»

    «Sei tu che non capisci! Non sai…» «Basta!» L’interrompo seccata.

    Improvvisamente mi è passato per la testa che non è venuta alla mia laurea per andare in televisione a parlare di una storia vecchia di settant’anni e un groppo mi è salito in gola.

    «Ci vediamo quando torno!»

    Sibilo gelida, mentre spengo con rabbia la comunicazione e afferro senza pietà la bottiglia di Jack Daniel per il collo.

    In un’altra parte del mondo, un uomo vecchissimo fissa il fermo immagine di uno schizzo a sanguigna sul gigantesco televisore che ha di fronte, poi i suoi occhi chiarissimi si spostano verso un quadro appeso alla parete di quercia del suo studio.

    Oltre al vetro pulitissimo, uno schizzo identico lo fissa sorridente, la prospettiva è leggermente differente, ma il volto di bambina è lo stesso.

    Con fatica prende dal porta oggetti della sua carrozzina il cellulare, compone lentamente un numero e poi accosta quasi con cautela l’apparecchio all’orecchio, proprio sopra la cicatrice che gli percorre per lungo l’intera guancia.

    Apro gli occhi, e con la consapevolezza che, se continuo così non vivrò a lungo, fisso il sole già alto nel cielo.

    Ieri ho passato l’intera serata e buona parte della notte a guardare vecchi film e a bere; ho pianto, ho riso, mi sono annoiata ma non ho vomitato, forse anche il fegato l’ho ereditato da papà.

    Guardo l’ora e assecondando il vecchio detto facciamoci del male mi sintonizzo su un telegiornale, ad audio rigorosamente disattivato.

    Ignoro le immagini dell’ennesima alluvione e scorro le scritte che passano veloci in basso sullo schermo, ma il mio stomaco è più veloce del mio cervello e vomito sul tappeto.

    Solo quando riacquisto la vista lascio nuovamente scorrere le scritte un’infinità di volte.

    Il premier… la Borsa… Milano. Atroce omicidio nella notte. La nota giornalista Emma Lavetti massacrata nel suo appartamento… La Merkel…

    Capitolo 2°

    Con il cimitero dell’isola di San Michele alle mie spalle, lascio scorrere lo sguardo su una Venezia inondata dal sole.

    La prua del taxi acqueo prende male un’onda e uno spruzzo salmastro mi colpisce in pieno viso.

    Lascio colare le gocce sulle lenti degli occhiali da sole come se non fossero miei, come se io non fossi lì e le guance bagnate non fossero le mie. L’imprecazione, in puro irlandese, invece è di mio padre.

    Il tassista ci guarda sorpreso, ma il suo stupore non riguarda la doccia che ci ha fatto appena fare, ma il fatto che siamo stati abbordati da una lancia dei carabinieri che gli ha intimato, senza mezzi termini, di ormeggiare direttamente all’approdo riservato all’ACTV.

    Una paletta alzata, volti stupiti sull’imbarcadero, un capitano dei servizi pubblici di navigazione che blocca il proprio battello di linea a pochi metri dalla fermata, io e mio padre che scendiamo dal taxi solo per salire immediatamente sulla lancia dei carabinieri, un saluto militare e una scia da offshore che sembra far ondeggiare l’intero mondo attorno.

    Io che mi aggrappo a ogni cosa solida che trovo, poi un militare che mi fa finalmente accomodare sul divanetto scomodo della piccola cabina del motoscafo.

    Sono ormai tre settimane che vengo sballottata da una parte all’altra da poliziotti in divisa impeccabile, da poliziotti in borghese mal vestiti, da uomini ben vestiti ma ugualmente con la pistola alla cintura, per cui se ora sono arrivati anche i carabinieri la cosa non mi tocca più di tanto e quindi guardo mio padre che è una maschera di pietra, mi adeguo e fisso

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