Lo strano caso del Professor Joe Fox
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Anteprima del libro
Lo strano caso del Professor Joe Fox - Cesare Bartoccioni
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Frontespizio
LO STRANO CASO DEL PROFESSOR
JOE FOX
eminente docente di paletnologia applicata
presso l’Università di Liverpool
romanzo
di
Cesare Bartoccioni
Credits
Progetto grafico di copertina a cura dell’autore
Dedica
To the City of Liverpool
and The Beatles band
this novel is respectfully dedicated
Prefazione
Prefazione
Gli eventi e i personaggi qui presentati sono il solo frutto della fantasia. Qualsiasi riferimento a persone realmente esistite o esistenti o fatti realmente accaduti è puramente casuale.
Le descrizioni della città di Liverpool e della sua situazione sociale ed economica, come ad esempio il costo della vita e i suoi fermenti culturali, sono rapportate al momento storico in cui il romanzo è ambientato. L’autore si è basato su ricerche di documentazioni originali, archivi di quotidiani britannici, e inferenze deduttive.
Le citazioni delle canzoni della band musicale The Beatles e i riferimenti ai loro membri sono un omaggio dell’autore ai mitici ‘Fab Four’.
Le canzoni di The Beatles le cui parti sono riportate nel testo sono ovviamente proprietà degli stessi. Alcuni nomi dei personaggi di questo romanzo sono anch’essi ispirati alle loro liriche.
Gli articoli del Liverpool Echo riportati in questo romanzo non sono mai apparsi sul Liverpool Echo.
Che io sappia, non vi è stato mai alcun docente di nome Joe Fox nei ruoli dell’Università di Liverpool. Per buona misura, comunque, l’autore solleva l’Università di Liverpool da qualsiasi responsabilità relativa alle azioni o ai comportamenti che possano essere in qualsiasi misura collegati a tale personaggio immaginario.
Buona lettura.
Cesare
Tributo
There's nothing you can do that can't be done
Nothing you can sing that can't be sung
Nothing you can make that can't be made
No one you can save that can't be saved
There's nothing you can know that isn't known
Nothing you can see that isn't shown
There's nowhere you can be that isn't where you're meant to be
(The Beatles, All You Need Is Love)
Prologo
Maggio 1970
Lasci stare.
Il rettore mi dava le spalle, le mani grassocce incrociate dietro la giacca di panno antracite che gli conteneva a fatica la schiena massiccia, la nuca bordata da radi capelli biondo cenere separati dalla calotta pelata da rughe fitte e profonde. La voce da tenore stentato, emessa in uno sbuffo stizzito, pareva non essere diretta a me, ma alla vetrata dell’austero ufficio di presidenza alla quale volgeva lo sguardo e dalla quale in un unico colpo d’occhio si poteva rimirare la sublime quiete di Abercromby Square e, oltre la linea del giardino, la sommità della cattedrale cattolica, la ‘rampa di lancio del Papa’, com’era stata tosto ribattezzata dalla gente del posto, completata appena tre anni prima.
Prego?
Il rettore inspirò a fondo, rilasciando il fiato in un unico soffio spazientito. Mantenendo saldamente la postura, ruotò il capo a mezzo verso destra, come a volermi indicare che quello sarebbe stato il massimo riguardo che fosse disposto a concedermi quel giorno. La palpebra socchiusa faceva a malapena trasparire il grigio acciaio dell’iride.
Le sto dicendo di lasciar perdere e di dedicarsi invece al lavoro per cui è stato chiamato qui.
Mi mossi a fatica nell’incomoda poltrona vittoriana.
Con tutto il rispetto, rettore, è proprio per questo che sono qui. Il mio compito è quello di rimettere in ordine gli archivi dopo l’occupazione degli…
Mi ascolti bene…
Il rettore aveva abbandonato la posizione mantenuta fino a quel momento a ridosso della vetrata e ora troneggiava in tutta la sua corpulenta stazza di fronte alla mia poltrona, osservandomi con una smorfia di commiserazione. Con la finestra totalmente oscurata dal suo ventre gonfio che protrudeva in avanti, l’unico panorama che mi restava da ammirare era adesso quel monumento vivente all’ingestione incontrollata di galloni e galloni di pessima lager, come del resto mi confermava il pesante alito alcolico che, insieme alla ingombrante figura, sui di me incombeva.
Purtroppo per me, il rettore si chinò, sostenendosi con le mani sui braccioli della mia seduta, avvicinando il suo volto al mio con un ammiccamento da cospiratore.
Io stavo per svenire.
Mi ascolti bene, padre McKenzie… L’occupazione degli studenti è appena terminata. L’abbiamo superata. Stiamo tornando alla normalità. Abbiamo bisogno di un professionista che ci aiuti a riprendere il lavoro da dove l’avevamo lasciato. La ricerca soprattutto, la ricerca! È ciò che ci contraddistingue. Lo sa che noi, qui, in questa Università, abbiamo avuto sei, dico sei, premi Nobel. Lo sa, vero?
Beh, certo, ma…
Sei! E, tra essi, il primo della nostra amata nazione!
Rettore, non vedo cosa c’entri…
C’entra, c’entra…
Il rettore si risollevò, con mio grande sollievo, indietreggiando e iniziando a passeggiare nell’ufficio. Potevo riprendere fiato, letteralmente.
C’entra, caro McKenzie. Il buon nome della nostra pubblica istituzione ci obbliga a rimettere le cose in ordine, e a farlo in fretta. È per questo che lei è qui.
Sul ‘lei’ il rettore si era voltato di scatto, puntandomi contro l’indice della mano destra. Dopo una breve pausa, continuò.
Lei è qui per riorganizzare gli archivi correnti, punto e basta. Non è qui per tirar fuori i vecchi lavori conclusi o incompiuti o dimenticati, che ci farebbero solo perdere tempo.
Mi perdoni, rettore, ma il mio lavoro di ricercatore…
Bibliotecario, padre McKenzie, bibliotecario.
L’indice ora era puntato verso l’alto, come a impartire una lezione su quello che doveva essere il mio ruolo.
Beh, ok, bibliotecario. In effetti, così è scritto sul contratto…
Esatto. È proprio così che c’è scritto.
Le labbra del rettore si stirarono a sarcastico ghigno.
Ad ogni modo… se nel mio lavoro mi imbatto in documenti interessanti, è mio dovere farlo presente e, anzi, approfondire la ricerca.
No, mio caro bibliotecario, no. Lasci la ricerca a chi è qui per quello. Lei faccia solo quello per cui viene pagato, è chiaro?
Rimanemmo in silenzio per un lungo istante. Il tono del rettore non ammetteva repliche. Ma non mi ero rassegnato. Ciò che avevo trovato era materia scottante. Tentai un altro approccio.
Che significa NLS?
Il rettore ebbe un leggero inarcamento delle sopracciglia, quasi impercettibile. Ma riuscì a controllarsi.
Mai sentito.
Molti degli incartamenti che ho rinvenuto riportano quella sigla in intestazione. Ma non sono riuscito a collegarla con alcun altro documento dell’Università. Mi chiedevo…
Lasciai la frase a metà, di proposito, in attesa di una reazione.
Lei si chiede troppe cose, padre McKenzie. Cose senza importanza. Le ripeto, e glielo dico per l’ultima volta: pensi al suo lavoro, se non vuole perderlo.
Il rettore s’impettì in un modo quasi marziale. E chiuda la porta quando esce.
Era un congedo, e neanche tanto British…
Mi alzai, feci un breve inchino e iniziai ad avviarmi verso l’uscita.
La voce del rettore bloccò la mia mano a mezz’aria, a due pollici esatti dalla maniglia.
Un’ultima cosa, padre.
Girai il capo a mezzo, verso sinistra.
Quegli incartamenti. Li rimetta dov’erano. Per quanto privi di importanza, tutti i documenti degli archivi sono di proprietà dell’Università. Non è consentito disporne in alcun modo senza autorizzazione. È la prassi. Mi capisce, vero?
La mia mano coprì i due pollici di distanza dalla maniglia. Aprii la porta.
Certamente.
Iniziai a superare l’uscio. Poi, come in un ripensamento, mi fermai. Volevo tornare alla carica.
Joe. È strano, no?
Come dice?
L’inarcamento delle sopracciglia adesso era assolutamente evidente.
Il nome dell’autore di quelle ricerche.
Beh?
Il rettore aveva già riacquistato una certa impassibilità.
Beh… i nomi a cui sono abituato dacché mi trovo qui sono sempre molto altisonanti… Richard, Charles, Ronald… James al massimo… Imbattermi in un modesto ‘Joe’ nel ruolo dei docenti universitari mi ha… provocato, diciamo…, un certo spaesamento.
Che discorsi mi sta facendo, padre? Proprio lei mi parla di spaesamento?
Il rettore iniziò a ridacchiare con ritmici sussulti del ventre. Lei che si chiama Ben?
Sam.
Sam, Ben… capirà, chissà quanti ce ne saranno nel suo Kansas.
Ehm… veramente sono del Kentucky.
Bah… Kansas, Kentucky… sempre provincia è.
Beh, rettore, in effetti io vengo da Louisville, la cui popolazione, senza offesa, supera di molto quella di questa bella città…
Padre McKenzie, mi lasci dire…
Il rettore socchiuse le palpebre, inarcando stavolta in modo enfatico e voluto le sopracciglia, senza offesa… anche se lei venisse da New York, per noi sarebbe sempre provincia.
Feci per ribattere, ma fui interrotto da un perentorio cenno a palmo aperto della mano destra del mio scostante interlocutore.
Vedo che lei ha poche idee, ma confuse. Dia retta. Se ne torni al suo, e sottolineo ‘il suo’, lavoro.
Inspirai ed espirai lentamente, oltrepassando la soglia.
Padre McKenzie…
Il rettore non aveva, evidentemente, ancora terminato. Mi voltai, guardandolo negli occhi.
Il rettore mi sorrise, in un modo affettato che avrebbe voluto essere affabile, ma che risultò falso come una banconota da tre sterline.
Ha sentito quell’ultima canzone di quel quartetto di qui?
Quartetto? Ah… certo...
Let it be?
Solo uno come il rettore poteva chiamarli ‘quartetto’.
Esatto.
Il sorriso si allargò. Un bel consiglio, no?
Feci un cenno di congedo con il capo. Chiusi la porta e mi avviai per il corridoio.
‘Let it be’, certo, come no? Un buon consiglio, non c’era di che dire.