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Do ut des: Il prezzo di vivere
Do ut des: Il prezzo di vivere
Do ut des: Il prezzo di vivere
E-book365 pagine5 ore

Do ut des: Il prezzo di vivere

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Info su questo ebook

Chi e che cosa muove i fili della nostra vita e del nostro destino? Chi e che cosa determina le nostre scelte? Può un tragico avvenimento avvenuto in età infantile condizionare una vita intera? In un racconto spietato,  senza veli o ipocrisie, l’autore Luis Manuel Montero, forse per destino, o per responsabilità personale, o per scelte non volute, attraversa la sua esistenza con molteplici vite, in un continuo intreccio di vicende che lasciano con il fiato sospeso. La ricerca delle sue radici in una Spagna ancora sotto il regime franchista, le antiche ferree tradizioni medievali nella terra andalusa, la passione di un grande amore e di una felicità impossibile e la ricerca del suo essere se stesso lo condurranno in terre lontane al seguito della Legione Straniera Francese. Tutto ha un prezzo, “do ut des”, e il prezzo che egli pagherà sarà la terribile realtà della guerra della Francia in Algeria, narrata dall’autore in tutta la sua sconcertante crudezza.  La sua umanità, in continua e perenne lotta con la realtà, con le zone d’ombra e di luce, è il grido dell’umanità intera, con tutte le gioie e i suoi dolori.
LinguaItaliano
Data di uscita18 feb 2019
ISBN9788899906870
Do ut des: Il prezzo di vivere

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    Anteprima del libro

    Do ut des - Luis Manuel Montero

    Eminescu

    Capitolo 1

    Lasciando Roma, imboccai l’Aurelia. Era la fine d’agosto del 1960. Sebbene fossero solo le prime ore del mattino, l’alba era esplosa all’improvviso e già la calura asciugava l’erba gialla e stopposa ai bordi della carreggiata. Le strade, a quell’epoca, e soprattutto in quel mese, erano ancora percorribili, perché le automobili erano un lusso riservato a pochi.

    La macchina proseguiva lentamente, ma d’altronde io avevo tanto tempo davanti a me e niente verso cui ritornare, né debiti né amici né familiari né amori. Ogni chilometro che mi lasciavo alle spalle mi separava sempre di più da un Paese che avevo cominciavo a non sentire più mio e che, dal canto suo, non aveva esitato a sbattermi in mezzo ad una strada, con quattro fogli di benservito ed un freddo addio.

    Ogni albero, ogni cosa che sorpassavo, mi davano la sensazione di un metro guadagnato, come fossi un cane sfuggito al laccio di un accalappiacani. Procedevo istintivamente, dirigendomi verso Grosseto, senza nessuna certezza, sentendo solo l’imperativo urgente di andare. Ormai la rabbia mi aveva abbandonato e aveva ceduto il posto a una cupa determinazione. Lasciavo dietro ricordi, dolori, speranze, come se non mi fossero mai appartenuti. Negli ultimi tempi, Roma mi era sembrata sempre più vuota, mi ero maggiormente isolato, allontanando anche le rare amicizie e il mio ultimo amore con una ragazza aveva lasciato in me molta amarezza. Si era concluso con il suo matrimonio, preparato da diversi anni dai suoi genitori con un altro!

    Tutto sembrava essere cominciato due anni prima, con un tremendo incidente di moto durante la licenza a Roma. A ripensarci era accaduto tutto così in fretta: l’urlo...lo schianto terribile delle lamiere...il freddo...il vuoto...Poi il dolore, lancinante e costante, con mille mani che mi toccavano e tanti, tanti giorni passati in un lettino, immobile dentro una gabbia di gesso, solo con i miei pensieri. Quando i dottori dell’ospedale mi avevano messo al corrente della situazione e delle fratture riportate alla gamba e al viso, con l’asportazione del naso, io, ufficiale medico paracadutista, mi ero sentito praticamente un invalido.

    Il recupero era stato lentissimo e difficoltoso, ma la tenacia e la costanza avevano vinto la disperazione. In questa lotta, una valida complice era stata la palestra, cui mi ero dedicato, ricominciando anche gli allenamenti di karate durante la lunga convalescenza. Il mio viso, grazie all’abilità di un chirurgo plastico, era stato ricostruito, se pur non come prima e la mia gamba aveva ripreso tono e robustezza. La mia aspirazione, sentendomi guarito, era di ritornare nei Paracadutisti Folgore.

    Ricordo perfettamente quella mattina. Sceso dal treno che mi aveva riportato a Livorno, mi presentai al Comando, dal quale fui spedito immediatamente all’ospedale militare per la visita di controllo.

    Mi esaminarono accuratamente, fecero diverse lastre e, senza commenti, mi rinviarono il giorno dopo al Comando. Fu il colonnello a ricevermi. Con voce piatta, impersonale, comunicò il verdetto: la mia gamba, sebbene rinsaldata, non poteva più assistermi nei lanci e inoltre una frattura del bacino, sfuggita alla diagnosi e non curata, faceva il resto. Non potevo più continuare a far parte del corpo dei paracadutisti. Mi allungò una busta: conteneva il mio stato di servizio e un assegno a titolo di liquidazione. Congedo illimitato.

    Uscii dal Comando in uno stato di disperazione. Il mio primo impulso fu di ritornare a Roma. Per due giorni rimasi chiuso in casa, poi mi ricordai di un importante uomo politico italiano, che doveva forse la sua vita a mio padre e che aveva causato il nostro esilio in Italia. La vittoria del regime dittatoriale di Francisco Franco, facendolo decidere ad una fuga precipitosa dalla Spagna, fuga che gli aveva salvato la pelle, era costata a mio padre la condanna a morte in contumacia per averlo protetto. Nella disperazione, pensai che era ora che si sdebitasse aiutandomi a rientrare nella Folgore.

    Ci vollero due giorni di anticamera prima che fossi ricevuto e forse non sarebbero bastati se una mattina non avessi cominciato ad inveire contro un’esterrefatta segretaria. Fui ammesso in un ufficio sobrio, ma che trasudava potere. Il suo inquilino, esageratamente cordiale, mi venne incontro stringendomi la mano:

    Scusami, ma ho tante cose che si accavallano; ho sempre così poco tempo!

    Mi venne da pensare che, se mio padre lo avesse fatto attendere anche solo poche ore, lui sarebbe stato sicuramente sotto terra e non in quello studio pieno di libri. Ma non dissi nulla, gli mostrai il congedo e gli chiesi se avesse potuto fare qualcosa per me.

    Lesse velocemente, poi mi si rivolse con un tono quasi seccato:

    Perché non fai il medico civile? Che t’importa dell’esercito?

    La risposta mi salì velocemente alle labbra:

    E lei perché non fa l’avvocato, invece di fare il politico?

    Vidi il suo viso irrigidirsi per l’irritazione, comunque mantenne la calma e mi liquidò promettendo che si sarebbe interessato al mio caso.

    Una settimana dopo, mi arrivò una sua lettera dattiloscritta in cui si dichiarava spiacente di non poter far nulla... Se ne andava la mia ultima speranza.

    I giorni passavano vuoti. Stavo sul letto per ore intere rimuginando tristi pensieri. Una mattina mi decisi: uscii e comperai una vecchia Fiat 500 che aveva sicuramente visto giorni migliori. Ma d’altronde non avevo molto denaro e dovetti accontentarmi. La feci rimettere in sesto da un amico meccanico, raccomandandogli di dedicarsi in particolare al motore e alla trasmissione, il resto poteva essere lasciato come era. L’unico mio pensiero era di andar via, non importava dove, ma via.

    Il lavoro fu eseguito a puntino e su quel barattolo di macchina caricai velocemente quel poco che possedevo. Lasciai, salutandola, le chiavi alla padrona di casa, dissi addio ai pochi amici e partii.

    °°°°

    Vennero giorni di paesaggi nuovi, la sera m’infilavo in un sacco a pelo e dormivo sotto le stelle. Mi lavavo nei ruscelli che incontravo e mangiavo dove e quello che capitava.

    Mi trovavo in Francia già da due giorni, quando una sera mi fermai nei pressi di una vigna, dove alcuni contadini stavano vendemmiando. Guardavo con interesse, sbocconcellando un panino di malavoglia. Lentamente, sorridendo, si avvicinò una ragazza che mi porse un grappolo di uva nera.

    Merçi, ringraziai. Capì che ero italiano e voltandosi verso i vendemmiatori, chiamò:

    Roland!

    Si fece avanti, con aria interrogativa, un ragazzone robusto dal viso simpatico.

    Roland, lo invitò la ragazza, "Viens içi! Ce monsieur est un italien."

    Roland inalberò un caloroso sorriso e allungò una manona verso la mia, in un gesto cordiale.

    Piacere, mi disse, parla pure italiano, sono francese, figlio di italiani; io parlo la lingua italiana, ma mia sorella... e indicò la ragazza ...non ne ha voluto sapere, lei si sente francese.

    Anche la ragazza si presentò con un semplice: Nicole

    Parlai con Roland, che traduceva alla sorella.

    Se volete una mano nella vendemmia, mi farebbe piacere aiutarvi, mi date vitto e alloggio e quando sarà finita me ne andrò! proposi.

    Ne furono felici. Mi presentarono il padre, una copia del figlio nella versione più matura.

    Passai quindici giorni lavorando molto, ma serenamente. Nicole era come l’uva, profumava di dolce, il suo corpo era pieno di promesse e pronto a mantenerle. Due giorni dopo, verso l’imbrunire, io e Nicole stavamo rotolando in un prato in riva al ruscello dove mi ero lavato. Lei era uscita fuori dei cespugli, e io mi avvicinai per parlarle, ma il mio francese era un disastro; allora usai i gesti che sono uguali sotto ogni cielo, le passai le braccia intorno alla vita stringendola a me.

    C’era tanta erba dove ci sdraiammo e il cielo si fece poco a poco color zaffiro, pieno di stelle, altre ne vidi nei suoi occhi.

    Dopo la vendemmia e la preparazione del mosto, una mattina il lavoro terminò. Non avevo ancora detto, e nemmeno me lo avevano chiesto, chi ero. Mi accomiatai da loro dopo la colazione.

    Nicole silenziosamente uscì. Salutai tutti dopo aver messo le mie poche cose nella macchina e mi avviai lungo il sentiero che dava sulla strada principale. Era ad aspettarmi al bivio. Fermai e scesi.

    Aveva gli occhi pieni di lacrime, la strinsi a me. Ci baciammo.

    Adieu Luis, mon amour.

    Si staccò dalle mie braccia e si mise a correre lungo il viottolo.

    Andai con le spalle al sole, verso un altro tramonto, verso la Spagna. Due giorni dopo entrai nella terra di mio padre.

    °°°°

    Capitolo II

    La Spagna di trent’anni fa mancava di tutto. Era ancora sotto il tallone di ferro del regime franchista, isolata commercialmente dal resto dell’Europa. La povertà permeava ogni fibra del Paese. Scarsi erano i mezzi di comunicazione, le strade sconnesse e per lo più non asfaltate.

    Il sentiero che conduceva dalla frontiera fino a Barcellona era stretto e pieno di buche che colpivano a tradimento. Inviai un ringraziamento al mio amico meccanico di Roma per la qualità del lavoro fatto alla mia auto, che mi diede poi modo di arrivare in quella città senza danni.

    Mi fermai a Barcellona solo una notte. Volevo dormire in un letto, ma ciò che trovai nell’ansia del risparmio mi lasciò disgustato. Ripresi la strada verso sud, anche questa non asfaltata.

    Quando infine arrivai a Tarragona, la macchina era ricoperta da uno spesso strato di polvere. Pensavo a mio padre, nato e cresciuto nella Sierra Nevada. Ripensando ai suoi racconti, potevo farmi un’idea approssimativa di dove era ubicata…forse a un solo un giorno di macchina. Mi rimisi in cammino alla volta di Malaga, ma quando vi giunsi rimasi deluso: l’aspetto era quello di una cittadina sporca e trascurata. Comunque mi fermai a mangiare in una bettola: nella semioscurità del locale si muoveva il padrone, un tipo ciarliero e un po’ sfottente, che, riconosciutomi come italiano, era prodigo di confidenziali pacche sulle spalle. Ma quando gli domandai se conosceva la famiglia Montero, sulla Sierra, cambiò immediatamente atteggiamento.

    " Señor, ma lei è un amico dei Montero? Un parente?", mi chiese due volte, scrutandomi con attenzione.

    Non risposi. Divenne ossequioso, quasi irrigidito. Anche la gente seduta ai tavoli sembrò guardarmi con un’attenzione diversa, quasi rispettosa. Sempre senza parlare, dopo averla aperta, gli misi sotto il naso la mappa dell’Andalusia che avevo appena acquistato: comprese immediatamente e con una matita segnò il percorso, tracciando una croce in un punto posto tra i monti.

    Qui c’è Cielo Dorado, lì sono i Montero.

    La strada, di notte, mi avvertì, era pericolosa e ormai si era fatto troppo tardi per mettermi in cammino. Era preferibile che mi mettessi in marcia la mattina successiva di buon’ora. Mi offrì l’ospitalità della sua pensione e mi dette una stanza pulita con un letto confortevole.

    Il mattino dopo mi svegliò, premuroso ed efficiente. Erano le cinque e cominciava appena ad albeggiare. Mi servì un’abbondante colazione e me ne preparò un’altra in un cestino con una ghirba piena di acqua.

    Mucho calor, señor , mi disse, indicandomi la montagna. Non volle una lira, malgrado le mie ripetute, imbarazzate offerte. Disse solo:

    "Saluti el señor Esteban da parte di Pedro".

    Gli detti la mano, e lui mi sembrò molto confuso, come lo avessi gratificato di un onore inatteso. Mi accompagnò fuori e con un gesto mi indicò la direzione da prendere.

    L’inizio della strada era affascinante: percorsi una trentina di chilometri tra alti alberi di carrube, il cui profumo riempiva l’aria. Con il finestrino aperto respiravo l’aria fresca del primo mattino. Via via che proseguivo, la strada si strinse ed il paesaggio da verde e pieno di alberi, diventò brullo e riarso. Qua e là, grandi piante di fichi d’India si levavano come mostri. Dopo due ore il percorso divenne davvero brutto. Tutto in salita, con ripidi tornanti concentrati in pochi chilometri. Grossi massi, caduti fin quasi al centro della strada, l’avevano ridotta a un sentiero, costringendomi ad accostare pericolosamente verso il sottostante burrone. Proseguivo in prima e in seconda, mettendo a dura prova il motore della macchina, mentre pregavo tutti i santi che non mi lasciasse in mezzo a quell’inferno. Mi fermai sotto uno sperone di roccia, all’ombra, per farlo raffreddare. Intanto mi affacciai giù e vidi, con desolazione, che avevo fatto in linea retta pochi chilometri e che, stando alla carta, ne dovevo ancora percorrere una sessantina.

    Verso le dieci mi trovai inghiottito in un paesaggio dantesco, costellato ovunque da rocce scure, in un silenzio assoluto e afflitto da un caldo infernale. Più che una macchina, ci sarebbe voluto un cavallo. Per rallentare l’eccessiva sudorazione, mi inzuppai la camicia con l’acqua che l’oste mi aveva dato, ringraziandolo mentalmente per la previdente premura.

    La carrozzeria della macchina gemeva e scricchiolava, mentre cercavo di concentrarmi sulla guida per evitare di precipitare in un burrone. Mi fermai innumerevoli volte per togliere le molte pietre che ostacolavano il percorso e alla fine forai.

    Sostituii la ruota, con la speranza che non mi capitasse ancora…non avevo altre gomme.

    Quando verso mezzogiorno, dopo cinque ore di calvario, raggiunsi la cima della Sierra, mi sentivo sfinito. Finalmente il sentiero si fece piatto e l’aria era più fresca. Improvvisamente dietro una curva, mi apparve un bosco di alti pini. Di traverso, la strada era sbarrata da un enorme tronco d’albero.

    Scesi, c’era un cartello in cima ad un palo: CIELO DORADO - PROHIBIDO ENTRAR.

    Ero stanco e avvilito, l’acqua stava per finire e cominciavo ad avvertire i morsi della fame, ma non volevo mangiare per paura di aumentare ancora la mia sete.

    Mi avvicinai al tronco, con rabbia provai a sollevarlo, ma quel gigante arboreo era inamovibile. Notai che una corda sottile scendeva da una carrucola appesa all’albero posto alla destra della strada e, senza sapere di cosa si trattasse, ne afferrai il capo e tirai... La corda cedette per un metro per poi tornare indietro. Diedi diversi strattoni, ma senza alcun risultato.

    Mi sedetti all’ombra facendo il punto della situazione: Forse ho sbagliato ingresso. Guardai disperatamente la carta, ma non mi parve di aver commesso errori: c’era solo quella strada che era segnata anche dalla matita dell’oste. Non me la sentivo di tornare indietro, ero troppo stanco. Decisi di mangiare, rimandando la decisione alla mattina successiva. Tirai fuori il cestino e addentai un pollo pieno di spezie, la fame era tanta, ingigantita dalla fatica e dall’aria frizzante della montagna. Sazio, mi sdraiai a terra, sotto un albero frondoso. Non ricordo quanto tempo passò, ero caduto in un breve sonno.

    Quando mi svegliai, quattro musi di cavalli mi osservavano dall’alto e su di essi altrettanti uomini dallo sguardo poco amichevole mi stavano fissando.

    Señor, disse uno indicando il cartello, non si può entrare e non si può sostare qui: è zona privata!

    Confusamente capii che non era il momento di parlare e tanto meno spiegare. Strappai un foglio di carta da un taccuino, scrissi il nome di mio padre e sotto il mio. Lo piegai e lo porsi a chi mi aveva ammonito. Guardandolo fisso negli occhi gli dissi: "Hombre, portalo al tuo padrone, el señor Esteban!" Lo dissi con tono di comando, come mi avevano insegnato alla Scuola Ufficiali, guardando con sufficienza il cavaliere, che rimase interdetto. Mi squadrò e non sembrò troppo convinto, soprattutto per il mio aspetto che, il viaggio, il sudore e la polvere dovevano aver reso alquanto miserevole.

    Guardò il foglietto che aveva in mano e credo si decise solo perché vi compariva il nome del suo padrone: fece segno a un suo compagno, girarono brevemente i cavalli e partirono al galoppo. Due di loro rimasero, scesero da cavallo e si sedettero dall’altro lato della strada: fumavano in silenzio, mentre a tratti mi sbirciavano o lanciavano qualche raro commento su di me e sulla mia macchina.

    Seduto su di un masso poco distante da loro, avevo deciso di ignorarli, concentrato sull’attesa che mi attanagliava lo stomaco. Dopo circa un’ora sentii grida e zoccoli di cavalli lanciati al galoppo: arrivarono circa venti cavalieri, si fermarono vicino al tronco, uno di essi scese e lo sollevò con le mani. Come afferrato da un’invisibile gigantesca mano, il tronco si alzò verso l’alto, e solo allora capii che era collegato ad un bilanciere nascosto dalle piante.

    Un uomo massiccio e ben piantato scese da uno stallone e mi si avvicinò. C’era in lui qualcosa di familiare. Aveva in mano il foglietto scritto da me e mi guardava fisso come se cercasse in me il ricordo di qualcuno.

    Ero emozionato e forse anche lui lo era, ma da quel viso duro non trapelava nulla. Per evitare troppe spiegazioni gli misi in mano il mio passaporto. Lo guardò attentamente, sembrava voler prendere tempo, come per riaversi da una forte emozione. Improvvisamente fui afferrato dalle sue mani che mi sembrarono fortissime. Mi strinse a sé ed io mi trovai a contraccambiare la sua stretta: a un tratto mi parve di risentire lo stesso profumo dei vestiti, della pelle, di mio padre. Forse semplicemente proiettai i miei desideri, ma mi sembrò di riprovare, dopo tanti anni, lo stesso sentimento di sicurezza e di protezione che avevo conosciuto quand’ero ancora con lui. Avvertivo prepotente il desiderio e il bisogno di essere tra la mia gente, di confondermi al suo interno per ritrovarmi, finalmente lontano e al sicuro da tutte le umiliazioni del passato.

    Luis, mio figlio, figlio del mio amato fratello-cugino! esclamò. Mio sangue perduto ed ora ritrovato, benvenuto nella mia casa che è anche la tua casa! E rivolgendosi ai suoi uomini:

    "Giù il cappello, hombre!",disse con voce ritornata ferma e forte. "Questo è un hidalgo, figlio di un hidalgo, signore di Cielo Dorado, tornato finalmente a casa."

    Quegli uomini dal volto duro scesero dal cavallo, con un unico movimento si levarono il cappello e, chinata la testa, si misero davanti a me in semicerchio. I due che erano rimasti di guardia a me durante l’attesa del gruppo soggiunsero:

    "Perdonaci, señor, non sapevamo!"

    Ad un semplice cenno di mio zio, salii sulla mia macchina: non riuscivo a parlare e avevo la vista appannata dalle lacrime che cercavo di trattenere. Lo vidi risalire a cavallo e avviarsi per la strada prima sbarrata, seguito da una decina di cavalieri, mentre altri vennero dietro di me. Una grande scorta per una macchina sicuramente inadeguata, ma per loro, lo avvertivo distintamente, quello che contava era chi c’era dentro: il figlio di mio padre.

    Mentre guidavo, lasciai che finalmente le lacrime represse mi rigassero il viso: dietro quel vetro polveroso, nessuno poteva vedermi. Ero tornato finalmente fra la mia gente.

    °°°°

    Capitolo III

    Una maestosa casa mi apparve al centro di una valle, circondata da innumerevoli alberi secolari. Passammo un ponticello, sotto vi scorreva veloce un torrente; alcuni ragazzini erano sulla riva, neri come more.

    Giungemmo in un grande spiazzo dove era collocato un tavolo lunghissimo di legno grezzo. La casa appariva davvero imponente, ma le sue linee erano armoniche, con i muri disegnati da archi. All’interno era un cortile, dove un rigoglioso roseto nascondeva una fontana. Di qui si passava nel corpo centrale della costruzione attraverso i portici che erano ricoperti da una profusione di maioliche decorate con bellissimi azulejos. Entrai, guidato da quel gigante di mio zio, in un salone basso e immenso, avvolto da una fresca penombra.

    Travi enormi attraversavano per tutta la lunghezza il soffitto, grandi divani di pelle lucida interrompevano qua e là la monotonia di un pavimento in cotto rosso. Mobili neri e pesanti erano addossati alle pareti, appesi ovunque fucili e molte teste di tori, sotto le targhette: Islero, Seregno, Paco, Poca Peña...

    Sono miura, tori da corrida. Questi erano campioni nati nel nostro allevamento. Disse quel nostro a me, come se io fossi nato e cresciuto lì, senza mai andarmene.

    Adesso fai un bagno e dormi, stasera vedrai tutti, comprese le donne della casa! Senza attendere un mio consenso mio zio, chiamò:

    Concita! Isabel!

    Sbucarono due ragazze dai tratti tipicamente andalusi, la carnagione scura, le labbra tumide e i capelli neri.

    "Siete al servizio del señor, preparate il bagno e la sua stanza e fate che non sia disturbato."

    Mentre ero immerso in una vasca così grande che vi avrei potuto nuotare, sentii bussare. Mi infilai rapidamente sotto l’acqua saponata.

    Avanti!, risposi.

    Entrò Isabel. Reggeva tra le mani un vassoio sul quale erano posate una grossa caraffa di aranciata gelata e una bottiglia di vino tanto scuro da sembrare sangue. Ridendo al mio imbarazzo, posò il tutto sopra il largo orlo della vasca ed uscì.

    Avevo molta sete: bevvi due bicchieri di aranciata e me ne concessi uno di quel vino: era dolce e profumato. Non ero mai stato un gran bevitore, ma non immaginavo che fosse così traditore.

    Quando mi alzai, le gambe non mi sostenevano più, mi asciugai in fretta e mi infilai in un letto grande come una piazza. Sprofondai in un sonno lungo e ristoratore fino a quando Isabel mi svegliò.

    Señor, disse, scuotendomi una spalla, è molto tardi.

    Riemersi lentamente dal sonno e mi ci vollero alcuni istanti prima di ricordare dove fossi. Ero in un bagno di sudore, le lenzuola ne erano intrise. E’ quel vino, pensai.

    Isabel aveva un asciugamano sul braccio, allungai la mano per prenderlo, invece volle fare lei; era umido e fresco, profumava di lavanda, lei mi asciugò il volto e me lo passò sul petto. Era molto vicina, guardavo le sue braccia tornite, la sua pelle scura. Aveva due occhi neri e fondi, una bocca tumida semiaperta sopra una chiostra di denti grandi e bianchi.

    Mi porse un telo da bagno e io, vedendo che non si muoveva, rimasi a guardarla imbarazzato, non potevo uscire dal letto, ero completamente nudo. Finalmente, ridendo, si girò e io ne approfittai per alzarmi e andarmi a mettere sotto il getto della doccia.

    Rientrato in camera, mi accorsi che Isabel aveva tirato fuori tutti i miei vestiti e li stava osservando con aria afflitta: erano veramente in uno stato pietoso, d’altronde di pulito non avevo più quasi niente da indossare.

    "Stanno aspettando lei nel salone, cosa vuole indossare, señor?"

    Ero mortificato, non avevo previsto questa eventualità nei miei programmi. Dopo le divise, ormai inutile ricordo di una vita passata, non mi ero preoccupato di farmi un guardaroba. Come tenute civili, avevo jeans e camicie sportive, oltre a un vestito invernale scuro, che nel viaggio dall’Italia a Cielo Dorado si era ridotto, nella sacca in cui l’avevo riposto, ad uno straccio. Ora che la mia famiglia ritrovata faceva festa, mi vergognavo di presentarmi tutto stazzonato al primo incontro con i miei parenti.

    A gesti e parole feci capire ad Isabel che non potevo scendere in quelle condizioni. Lei gettò un ultimo sguardo a quei poveri indumenti, poi, senza dire una parola, uscì in fretta.

    Quando rientrò, avevo indossato un paio di jeans, i più puliti, e mi ero seduto sul letto, in preda ad angosciosi pensieri. Dal poco che avevo potuto intuire e dai ricordi di lontani discorsi di mio padre, infatti, i Montero appartenevano all’antica aristocrazia andalusa ed erano ancora nel pieno del potere e del prestigio, determinato da possedimenti e rendite, che supponevo elevate, per quello che avevo intravisto avvicinandomi alla casa e per l’ampiezza e l’arredamento della casa stessa. Allora non sapevo ancora di sbagliarmi, così tanto e per difetto!

    Lei mi prese per mano, guidandomi attraverso lunghi e lucidi corridoi pieni di quadri ed armature.

    Entrammo in una camera grande; un letto simile a quello in cui avevo dormito troneggiava al centro della parete. Isabel aprì un monumentale armadio di legno scuro e una fila di abiti apparve ai miei meravigliati occhi.

    Di chi sono?, chiesi.

    "Del señor Manuel, il figlio di don Esteban".

    Toccandoli, sentii la qualità della stoffa: era morbida e ne notai i tagli elegantissimi. Presi due o tre completi, ne provai uno: mi stava a pennello, Manuel doveva avere la mia taglia. Vidi delle scarpe con un curioso tacco alto rivolto all’interno: il numero corrispondeva al mio. Le presi insieme agli altri indumenti e ritornai nella mia camera. Indossai un abito: era un costume andaluso color grigio perla e calzai le scarpe che mi sollevavano in alto di altri cinque centimetri.

    Isabel mi osservò ammirata: Muy elegante!

    Uscì e ritornò quasi subito con un cappello rotondo a larghe falde el cordobes: il classico cappello andaluso. Quante volte lo avevo visto nelle foto di mio padre!

    Ora potevo incontrare la famiglia che mi aspettava nel salone centrale.

    Erano in tanti nel salone centrale.

    °°°°

    Fui presentato alla seconda moglie di mio zio, doña Rosaria: fui meravigliato della sua giovinezza, oltre che della sua bellezza. Aveva capelli color tiziano e grandi occhi azzurri.

    Dei quattro figli della prima moglie, Manuel era il maggiore. Effettivamente aveva la mia corporatura ed era molto scuro di capelli. Il secondo, Antonio, pareva avere circa ventiquattro anni e assomigliava al padre: era più alto e aveva spalle larghe e vita stretta. Il terzo, José Maria, invece, era più piccolo e aveva gli occhiali.

    Il poeta della famiglia, disse mio zio, indicandomelo, non guardare i suoi occhiali, è il più grande caballero della zona, aggiunse con una punta di orgoglio.

    C’erano anche una cugina, Anna Maria, dai tratti duri, ma molto bella e infine il cugino più piccolo, Miguelito, biondo con due occhi neri e lucenti, figlio della seconda moglie.

    Ci sedemmo a tavola, mio zio a un capo e mia zia all’altro, io alla destra del capo di casa, seguito da Anna Maria, e gli altri cugini, per ordine di età, vicino al padre e di fronte a me. Aspettammo in piedi che mia zia si sedesse.

    La cena fu lunga e molte furono le domande che mi venivano poste, ma nessuna che riguardasse la tragedia della mia famiglia e questo mi fece sentire un poco più a mio agio.

    Dopo, ci trasferimmo sui divani e le poltrone. Donna Rosaria ne approfittò per ritirarsi con il piccolo Miguelito.

    Antonio prese una chitarra e cominciò lentamente a trarne note dolcissime. Sul flamenco struggente che ne nacque, Anna Maria si alzò ed iniziò a danzare: teneva il busto fermo, mentre le anche ondeggiavano seguendo le note e i piedi battevano al ritmo delle castañuelas, che faceva schioccare con le dita. Era una danza sensuale, avvolgente, che turbava e immalinconiva.

    La chitarra di Antonio suonò a lungo e molti ballerini, anche della servitù, l’accompagnarono. Concita e Isabel eseguirono in coppia una danza lenta e ritmata, interrotta da pause durante le quali le castañuelas batterono quasi impazzite, per poi riprendere al lento pianto del cantino della chitarra. Erano onde del mare che andavano e venivano, una risacca continua, eterna, estenuante. Quando la chitarra tacque con un ultimo singhiozzo, rimasero immobili, mentre tutto intorno sembrava essersi sospeso in un respiro lunghissimo.

    Osservavo mio zio: era seduto in una poltrona, con un lungo sigaro e un bicchiere di vino accanto. Sembrava un gatto: era immobile, ma i suoi occhi tradivano l’interesse con cui si guardava intorno. A tratti posava lo sguardo su di me con occhiate lunghe, puntute come chiodi o tenere come carezze. Sembrò risvegliarsi da quel suo torpore quando rientrò doña Rosaria.

    Aveva indossato un costume " sevillano", stretto fino alle ginocchia e aperto verso il basso, le scarpe erano quelle da flamenco, nere, con il tacco alto e robusto e una cinghietta che stringeva una caviglia nervosa e dura.

    Avanzò verso il centro della sala e attorno a lei immediatamente si fece il vuoto. Nell’aria cominciarono a muoversi i suoni cupi che il marito sembrava estorcere da una chitarra, stuzzicandone le corde

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