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Potessi morire in quest'istante
Potessi morire in quest'istante
Potessi morire in quest'istante
E-book154 pagine1 ora

Potessi morire in quest'istante

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Info su questo ebook

Nina è un “maschiaccio”, e questo la fa sembrare più forte rispetto alle sue coetanee “femmine”. In realtà è molto sensibile e assorbe come una spugna le emozioni trasmesse dalle persone che incontra. La più significativa è l’amica Francine, “maschiaccio” come lei, incontrata il primo giorno della prima elementare. Nina ha trovato un’amica con cui condividere interessi e avventure. Un trasferimento della famiglia di Francine le allontanerà ma il caso vorrà che si incontreranno di nuovo in età adulta, anche se le cose prenderanno una piega inaspettata.
LinguaItaliano
Data di uscita16 lug 2019
ISBN9788831625562
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    Anteprima del libro

    Potessi morire in quest'istante - Michela Trussoni

    I luoghi e i personaggi sono reali; le vicende sono quasi tutte frutto di fantasia. Chi ha vissuto con me le poche vicende realmente accadute, le riconoscerà.

    ISBN |9788831625562

    Prima edizione digitale: 2019

    © Tutti i diritti riservati all'Autore.

    Questa opera è pubblicata direttamente dall'autore tramite la piattaforma di selfpublishing Youcanprint e l'autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'autore.

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Marco Biagi 6, 73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    [email protected]

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti  dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

    Alla mia amica Monica

    Capitolo Uno

    Il posto era piccolo.

    Abitavamo in un palazzone all’inizio del paese, e avevamo un bar pasticceria in un altro palazzone, in centro.

    Il papà diceva: Le costruzioni nuove, non possono più farle come vogliono; devono seguire delle regole: non devono essere più alte di quattro piani ed esteticamente adatte al paese di montagna.

    Le costruzioni già esistenti, invece?

    Il palazzo dove abitavamo era un parallelepipedo di nove piani, bianco con i balconi di cemento grigio e le tapparelle verdi.

    Avevamo due appartamenti: uno bellissimo, che adoravo e che veniva affittato; e uno brutto, dove abitavamo noi: io, la mia sorella maggiore, Chiara, la mia sorella di mezzo, Serena, i miei genitori e le due cameriere che lavoravano al bar.

    Con i soldi dell’affitto dell’appartamento bello, i miei ci pagavano una parte dei loro debiti.

    In quell’appartamento c’era un salone enorme, con un grande tavolo, un divano e due poltrone, un pavimento di legno lucido e due grandi finestre.

    Noi avevamo un localino con un tavolo, grande anche il nostro, un armadio giallino e un frigorifero; un angolo con lavandino, fornello e un mobiletto con le tendine dove la mamma metteva le pentole, era la cucina; accanto al lavandino c’era la lavatrice. La finestra era una sola, piccola e in alto, perché l’appartamento era un seminterrato.

    Una volta a scuola avevano dato a mia sorella un compito: Elenco ciò che vedo in cucina.

    Lei parlava a voce alta, mentre scriveva: Lavandino, fornello, lavatrice…

    La mamma, mentre cuciva, l’aveva interrotta: La lavatrice di solito non è in cucina.

    Ma la nostra è in cucina.

    Sì, ma di solito è in bagno. Non scriverla.

    …mobiletto con le pentole… ho finito. Non c’è più niente nella nostra cucina.

    E la mamma: Il frigorifero.

    Ma è in sala!!!

    Ma di solito è in cucina: scrivilo.

    Voleva che a scuola tutti pensassero che anche noi abitavamo in una casa normale.

    Nell’appartamento bello c’erano tre camere: una matrimoniale, una per il figlio e una per la figlia.

    Noi dormivamo in un unico stanzone, dove c’erano: un letto matrimoniale, un letto a castello e una branda pieghevole.

    Questa branda veniva piegata ogni mattina e riaperta ogni sera. Questa operazione non era delle più semplici, e al momento di andare a letto eravamo sempre noi tre sorelle sole. Così, una sera, mia sorella Chiara si era schiacciata un dito. Si vedeva, che le faceva molto male; strizzava forte gli occhi e quando li riapriva erano tutti bagnati, ma ci diceva: Non è niente, adesso passa. Era la maggiore, aveva il compito di badare a noi, non voleva che ci spaventassimo. Era inginocchiata sul pavimento. Serena e io ci eravamo inginocchiate una alla sua destra e una alla sua sinistra e le accarezzavamo una la testa e una la schiena, dicendo: Adesso passa. Il giorno seguente avevamo raccontato l’episodio alla mamma: Quella stupida branda!!! Non si potrebbe lasciarla aperta anche di giorno? Incredibilmente, questa richiesta era stata accettata. Ora, nella stanza c’era ancora meno spazio, ma noi tre eravamo contente così.

    Nell’appartamento bello c’erano due bagni, uno dei quali con la vasca e bellissime piastrelle rosa.

    Noi avevamo un piccolo bagno con un water, un lavabo, un bidet di plastica da riempire con un secchiello e brutte piastrelle marroni opache.

    Quando dovevamo fare il bagno, la mamma portava un mastello nel locale sala-cucina (il locale bagno era troppo piccolo e troppo freddo), lo riempiva con secchi d’acqua e lì ci immergeva.

    Dato che gli inquilini dell’appartamento venivano solo per le vacanze, a volte la mamma ci portava là nella vasca a fare il bagno, ma succedeva forse due volte in un anno. Era una vera goduria e io chiedevo: Ma un giorno verremo noi ad abitare in questo appartamento? e la mamma mi rispondeva: Non lo so. Forse.

    Una cosa che mi piaceva un sacco di quel condominio era uno spiazzo comune che chiamavamo il terrazzone.

    C’era un muro alto e io mi divertivo con la palla.

    Quando mi sentivo più femmina, giocavo ai Sette Fratelli, o ai Tre Asinelli: erano due giochi simili, che consistevano nel far rimbalzare la palla contro il muro, per poi riprenderla, compiendo una serie di abilità: farla passare sotto al braccio, lanciarla e riprenderla stando con la schiena verso il muro, battere le mani davanti e dietro tra il lancio e la presa… e così di seguito.

    Quando invece mi sentivo più maschio, buttavo e ributtavo la palla contro il muro a calci, palleggiando col ginocchio e col piede, nei limiti delle mie capacità.

    Ma i momenti più belli, e più rari, erano quelli in cui il mio papà riusciva a trovare il tempo, o la voglia?, di giocare un po’ con me. Allora, invece di buttare la palla contro al muro, la passavo a lui, che la passava di nuovo a me, e io non avrei voluto smettere mai.

    Sullo stesso terrazzone avevo imparato ad andare in bicicletta.

    Potevamo avere una sola bici, che era perfetta per le mie sorelle, che avevano solo un anno di differenza tra loro, mentre era grande per me. La bici era arancione e si chiamava Mirella. Io la trovavo bellissima e non mi ero lasciata scoraggiare dal fatto che seduta sul sellino non arrivavo a toccare i pedali: andavo solo in piedi. Potevo circolare solo sul terrazzone, perché in strada con una bici così grande era troppo pericoloso. Così mi aveva detto la mamma.

    Quando poi ero cresciuta abbastanza per poter circolare in paese, godevo immensamente, e non saprei dire quanti giri del paese ho fatto in quegli anni: adoravo quella bici, adoravo quel paese.

    Il palazzo in centro dove i miei avevano la pasticceria era anch’esso enorme e brutto: era alto sei piani, era di tre colori e aveva due entrate.

    La cosa bella di questo condominio era il portico antistante; sotto al portico, oltre alla pasticceria dei miei, c’erano altri negozi: uno di abbigliamento, che era di mio zio; un ristorante, che era di mio cugino; un negozio di lane, e una lavanderia.

    Il negozio di lane era gestito dalla signora più grassa del paese. Di lei si diceva che un tempo fosse stata magra, poi, in seguito a una caduta da cavallo, era ingrassata; chissà se era vero?

    La trovavo bruttissima: si truccava molto e io provavo avversione per le donne molto truccate e anche per le persone molto grasse. Portava tanto oro al collo e ai polsi, ma invece che abbellirla, questi oggetti non facevano altro che attirare lo sguardo sulle pieghe di ciccia che aveva proprio in quei punti del corpo. Possedeva una Mini Minor Innocenti, e questo era un po’ buffo. Nell’automobile così piccola, sembrava ancora più grossa, e quando la vedevo salire avevo sempre la sensazione che non sarebbe riuscita ad entrarci. Faceva fatica, in effetti, però alla fine eccola lì, seduta sul micro sedile col seno che arrivava quasi a toccare il volante.

    La lavanderia, invece, era gestita da una donna che aveva adottato un bambino; lui aveva la mia età. Eravamo abbastanza amici, anche perché io ero un maschiaccio e quindi si giocava a macchinine e a calcio. Lui aveva una cosa che io gli invidiavo da morire: i capelli dritti, un po’ lunghi, che quando lui correva si alzavano e si abbassavano, quando lui girava la testa ondeggiavano e quando lui chinava la testa da un lato gli cadeva sugli occhi una ciocca, che lui rimetteva a posto soffiandola via.

    Io avevo i capelli ricci, fermi sulla testa come imbalsamati; potevo sbattere la testa quanto volevo, che non si muovevano di un millimetro. Li odiavo, e comunque la mamma me li faceva tagliare sempre cortissimi. Andava dalla parrucchiera alla mattina e diceva: Oggi ti mando la piccolina. Mi raccomando: belli corti. Qualunque cosa dicessi poi io alla parrucchiera, uscivo coi capelli così come li voleva la mamma: belli corti.

    Un altro bambino della mia età che viveva nel palazzo era il figlio dei custodi. A volte ritenevo che si desse un sacco di arie, a volte invece lo trovavo simpatico. Quando lo trovavo simpatico, giocavo insieme. Balbettava un pochino e aveva i capelli ancora più ricci dei miei, quindi a lui non invidiavo niente.

    Spesso lui veniva a bussare alla porta, e mi chiedeva se potevo andare a casa sua a giocare con lui. Aveva molti più giochi di me, quindi mi piaceva molto andare da lui.

    Un giorno, era passata da poco la Pasqua, sul tavolo della sala in casa sua c’era un gran pezzo di cioccolato, resto di un uovo.

    Posso prenderne un pezzettino?

    No, mia mamma non vuole...ma tu che hai una pasticceria, chissà quanto ne mangerai!

    No, non è vero, i miei genitori non me ne danno quasi mai.

    Veramente?!?

    Veramente.

    E io che ti invidiavo un sacco, perché pensavo che ti facessi delle abbuffate di dolci…

    Non invidiarmi più.

    Ecco, così non ci invidiavamo a vicenda.

    Ti fai vedere senza mutande?

    Cosa?!?

    Hai capito.

    Ma sei scemo?

    Ti do cinquanta lire.

    ………………No.

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