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Luna tinta
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E-book209 pagine2 ore

Luna tinta

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Info su questo ebook

La Luna, venerata come dea dagli antichi egizi, si è sempre pensato, a torto o a ragione, che abbia esercitato influssi sugli esseri viventi, sino a condizionarne i comportamenti. A volte la si è invocata, come alibi, per giustificare atti malvagità; così da poter dire che quanto avvenuto era solo frutto di "cattiva luna". Totò e Lilluzzo si troveranno ancora una volta assieme, coinvolti loro malgrado in fatti che avranno, purtroppo, esiti infausti e drammatici. Dovranno prestare fede al seme della follia, talvolta buona alleata della ragione e della purezza d'animo, per prevalere su disegni criminali che vorrebbero piegare gli interessi di molti alla voracità di pochi.
LinguaItaliano
Data di uscita2 mar 2020
ISBN9788831661683
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    Anteprima del libro

    Luna tinta - pietro alessi

    Sha­ke­spea­re)

    Prologo

    Di al­cu­ne del­le vi­cen­de, ve­ra­men­te ac­ca­du­te - di que­sto nes­su­no do­vrà du­bi­ta­re - che mi ap­pre­sto a con­di­vi­de­re, so­no sta­to te­sti­mo­ne di­ret­to; di al­tre ho ri­ce­vu­to pun­tua­le, cir­co­stan­zia­ta e qua­si pi­gno­la de­scri­zio­ne, per­si­no del dia­lo­ga­to, da per­so­ne coin­vol­te a va­rio ti­to­lo; per al­tre an­co­ra ho fat­to ri­cor­so al­la mia im­ma­gi­na­zio­ne, ma sem­pre ri­ma­nen­do nell’am­bi­to del­la ve­ro­si­mi­glian­za; in­fi­ne, in qual­che spo­ra­di­co ca­so, ho la­scia­to la pa­ro­la e la re­spon­sa­bi­li­tà del rac­con­to in pri­ma per­so­na ad al­tri pro­ta­go­ni­sti. 

    Al cen­tro del­la sce­na cam­peg­gia­no i peg­gio­ri istin­ti uma­ni: vio­len­za, so­praf­fa­zio­ne, avi­di­tà. Ac­can­to, o per me­glio di­re so­pra di es­si, re­gna la spe­ran­za, che non de­ve mai ab­ban­do­nar­ci, per un mon­do che po­treb­be es­se­re mi­glio­re.

    La sto­ria pren­de le mos­se da un te­le­fo­na­ta ri­ce­vu­ta, che ri­guar­da un ami­co di re­cen­te da­ta. Da quel mo­men­to l’in­trec­cio si di­par­te per stra­de non sem­pre pia­ne e li­nea­ri. Di ciò as­su­mo sul­le spal­le la re­spon­sa­bi­li­tà, non aven­do le giu­ste qua­li­tà che sa­reb­be­ro ri­chie­ste ad un nar­ra­to­re.

    Pron­to, To­tò, t’ha­iu a di­ri ‘na co­sa.

    Dim­me­la, ma in fret­ta che ho da fa­re.

    Miii! To­tò chi avi da fa­ri! Ha­iu pia­ci­ri chi ti tru­va­sti ‘nu tra­vag­ghiu.

    Non esa­ge­ria­mo. Non ho det­to che de­vo la­vo­ra­re. Ho da fa­re. Se pro­prio lo vuoi sa­pe­re ho tro­va­to sar­de fre­sche; per ca­so poi mi tro­va­vo del fi­noc­chiet­to sel­va­ti­co; co­sì mi pre­pa­ra­vo una spa­ghet­ta­ta da go­de­re in splen­di­da so­li­tu­di­ne. Que­sto pri­ma che tu te­le­fo­nas­si. Mi sba­glie­rò ma, dal to­no di vo­ce, ho la sen­sa­zio­ne che mi stai per ro­vi­na­re il pran­zo.

    Chi­stu non po­trà mai suc­ce­di­ri. Pi’ To­tò ‘u man­cia­ri ve­ni pri­ma dill’ami­ci e di tut­tu ‘u re­stu.

    Vab­bè, dai non la fa­re lun­ga e dim­mi che è suc­ces­so.

    Nen­ti chi ti pos­sa in­tus­si­ca­ri ‘u fi­ga­tu. Spa­ra­ru a Ti­zia­nu.

    Co­sa?

    Ca­pi­sti bo­nu. Ci spa­ra­ru e sai cu fu?

    Non sa­pe­vo che gli ave­va­no spa­ra­to. Se­con­do te pos­so sa­pe­re chi è sta­to?

    Sta­ma­ti­na sì chiù strun­zu du so­li­tu. Se non ti in­te­res­sa

    Non ho det­to che non mi in­te­res­sa. A me pa­re che sei tu sta­mat­ti­na ad es­se­re più per­ma­lo­so del so­li­to. Pa­ce?

    Va be­ne pa­ci. Fu Lu­cia.

    In­ten­di Lu­cia, la ra­gaz­za che mi di­ce­sti es­se­re sua so­rel­la?

    In­ten­nu pro­priu id­da. Cu­sì mi dis­se ‘u cum­mis­sa­rio Car­rie­ri. ‘A fig­ghiu­led­da ci spa­rau a frid­du men­tre chi sta­va­nu pas­sian­nu a Mes­si­na. Mi dis­se chi pa­ra­va­nu tran­quil­la­men­te quan­nu sen­za can­cia­ri spres­sio­ni ti­rò fuo­ri dal­la bus­set­ta na pi­sto­la e ci ti­rò quat­tru cup­pa a bru­cia­pi­lu.

    Co­me sta Ti­zia­no?

    Chiù mot­tu chi vi­vu. L’ope­ra­ru. I me­di­ci dis­se­ro che non si po’ sa­pi­ri si cam­pa.

    Non cre­do che ab­bia fa­mi­lia­ri. Av­ver­ti­sti il suo ami­co Pao­lo An­to­nio?

    Fu ‘a pri­ma co­sa chi fi­ci. E’ cu mia, ca all’ospi­ta­li, chi cian­ci. Spic­ci­ca ac­chi pa­ro­la tra sì e sì, poi s’am­mu­tu­lia e cian­ci. Si vi­di chi ci vu­lia be­ni a Ti­zia­nu.

    E a Nun­zia l’av­ver­ti­sti?

    Fu a se­cun­na co­sa chi fi­ci. Sta vi­nen­nu all’ ospi­ta­li ma­ga­ri id­da. Ve­ni pu­ri tu?

    Lo sai che non ho mac­chi­na. Ven­go di si­cu­ro. Più tar­di con l’au­to­bus.

    Ti ca­nu­sciu. Tu ve­ni chiù tad­du pic­chì pri­ma t’hai a man­cia­ri i tò spa­ghet­ti cu’ i sar­di. Bon ap­pe­ti­tu. Ni vi­de­mu do­pu.

    E, con que­ste pa­ro­le, chiu­se la con­ver­sa­zio­ne e la te­le­fo­na­ta. Lil­luz­zo era per­ma­lo­so. Ave­va mil­le pre­gi ma cor­ri­spon­de­va in tut­to al­lo ste­reo­ti­po del si­ci­lia­no. Tra le al­tre co­se era fa­ci­le ad of­fen­der­si. For­tu­na che era­va­mo trop­po ami­ci per te­ner­ci a lun­go il mu­so. Mi ave­va col­pi­to nel pro­fon­do che Lu­cia aves­se spa­ra­to a Ti­zia­no. Co­me può una so­rel­la che na­tu­ral­men­te do­vreb­be pro­va­re per te dei buo­ni sen­ti­men­ti giun­ge­re a spa­rar­ti, ap­pa­ren­te­men­te sen­za una mo­ti­va­zio­ne? Ma, poi, ci può es­se­re una buo­na mo­ti­va­zio­ne per spa­ra­re a un al­tro es­se­re uma­no che ha, per di più, le­ga­mi fa­mi­lia­ri co­sì stret­ti? Le me­de­si­me do­man­de, quan­do giun­si in ospe­da­le, era­no sul vi­so di Lil­luz­zo e, per la ve­ri­tà, poi­ché non era ti­po da trat­te­ner­si, do­po aver­mi, co­me d’uso al­la me­ri­dio­na­le, ab­brac­cia­to e ba­cia­to, le espres­se sen­za re­ti­cen­ze.

    To­tò, tu ni ca­pi­sti ac­chic­co­sa? Pic­chì se­cun­nu tia a fig­ghio­la ci spa­rau?

    Non sa­prei che dir­ti. Ti­zia­no non lo co­no­sce­vo co­sì be­ne. Mi chie­do co­sa può aver pro­vo­ca­to un’azio­ne co­sì vio­len­ta?

    To­tò, vad­da chi fu id­da a spa­ra­ri. Co­me la cun­ti tu pa­ri che a cup­pa fu di Ti­za­no che pro­vo­cò? Chi min­chia di­ci?

    Non vo­le­vo né as­sol­ve­re né giu­sti­fi­ca­re. Mi po­ne­vo do­man­de. Qual­co­sa de­ve pu­re es­se­re ac­ca­du­to per spin­ge­re Lu­cia ad im­pu­gna­re un re­vol­ver e spa­ra­re ad un es­se­re uma­no. Non ad un es­se­re uma­no qua­lun­que, ma a suo fra­tel­lo. Ti pa­re?

    Ma­ga­ri fu­ro­no qui­stio­ni di fa­mig­ghia.

    Già, la fa­mi­glia. Un luo­go pri­vi­le­gia­to, do­ve do­vreb­be­ro al­ber­ga­re pa­ce ed amo­re. Amo­re. Già l’amo­re. Qual­cu­no so­stie­ne che per amo­re si am­maz­za. Quan­te vol­te si di­ce: Fu per amo­re!. Una pa­ro­la abu­sa­ta e uti­liz­za­ta trop­po spes­so a spro­po­si­to. Si ru­ba? Si di­ce: fu per amo­re!. Per­si­no le guer­re, qual­cu­no af­fer­ma con con­vin­zio­ne, si di­chia­ra­no per amo­re. Tal­vol­ta per amo­re di un dio, ta­lal­tra per amo­re di un po­po­lo. Mi vie­ne da pen­sa­re: ma se ci amas­si­mo tut­ti un po­co di me­no non sta­rem­mo me­glio?. Co­mun­que ne sap­pia­mo trop­po po­co per ar­ri­schia­re ipo­te­si.

    Uno

    Il suo vi­so era fu­sti­ga­to da una piog­gia ine­so­ra­bi­le e ma­li­gna. Piog­gia spor­ca di cit­tà. Le brac­cia la­scia­te ca­de­re lun­go i fian­chi, co­me vit­ti­ma di una ras­se­gna­zio­ne sen­za ri­me­dio. In­gi­noc­chia­to sul pa­vi­men­to di un ter­raz­zo, al pia­no al­to di un pa­laz­zo po­po­la­re. Era fra­di­cio ma del tut­to in­dif­fe­ren­te a quel­le ca­te­rat­te d’ac­qua che gli ca­de­va­no ad­dos­so. Il tem­po­ra­le non ac­cen­na­va a di­mi­nui­re. Non ave­va al­cu­na in­ten­zio­ne di cer­ca­re un ri­pa­ro. Per­ché era lì? Per­ché non era al cal­do, nel­la sua ca­sa? Ave­va una ca­sa, una mo­glie, una don­na? L’ac­qua ge­li­da sci­vo­la­va a gran­di goc­ce dai ca­pel­li lun­go il fi­lo del­la schie­na e si ri­ver­sa­va, giù per il sol­co del­le na­ti­che, si­no al­le co­sce. Sen­ti­va quei ri­vo­li di ghiac­cio pro­vo­car­gli bri­vi­di di fred­do. Im­prov­vi­si ra­mi di lu­ce si ac­cen­de­va­no in un cie­lo plum­beo a cui se­gui­va­no tuo­ni ter­ri­fi­can­ti. Brut­ta se­ra­ta per tro­var­si in quel­la sco­mo­da po­si­zio­ne. Per­ché era lì? Per­ché non riu­sci­va a con­si­de­ra­re se era tri­ste o paz­zo di fe­li­ci­tà? Ave­va fat­to le sca­le o pre­so l’ascen­so­re? Abi­ta­va in quel pa­laz­zo?  E, se no, per­ché era lì? Non ave­va la for­za o la vo­lon­tà, o en­tram­be le co­se, per scuo­ter­si e cer­ca­re buo­ne ri­spo­ste a le­git­ti­me do­man­de. Era co­me pre­so da una pa­ra­li­si che smor­za­va ogni sua ener­gia, fi­no a spe­gne­re in lui ogni lu­me di ra­gio­ne e per­si­no di sen­ti­men­to. Le sue gi­noc­chia in­do­len­zi­te, im­mer­se in una poz­zan­ghe­ra fan­go­sa, era­no bloc­ca­te. Nul­la sem­bra­va po­tes­se smuo­ver­lo. Sa­reb­be mor­to co­sì? Do­po un tem­po, eter­no co­me il do­lo­re, il ven­to por­tò lon­ta­no le nu­vo­le ne­ro fu­mo e si apri­ro­no squar­ci di se­re­no, pal­li­do co­me l’al­ba che si an­nun­cia­va. La piog­gia smi­se di stra­ziar­lo. Un sof­fio di ener­gia to­ni­fi­can­te lo spin­se a sol­le­var­si e tor­na­re al­la vi­ta, sep­pu­re in­cer­ta e sco­no­sciu­ta. Ab­ban­do­nò quel luo­go e len­ta­men­te di­sce­se le sca­le con la spe­ran­za, sia pu­re re­mo­ta, di ri­co­no­sce­re una por­ta o re­pu­ta­re fa­mi­lia­re un no­me su una tar­ghet­ta. Ad ogni pia­ne­rot­to­lo os­ser­va­va con scru­po­lo. Se aves­se in­con­tra­to un abi­tan­te del­lo sta­bi­le, que­sti non avreb­be cer­to ap­prez­za­to la sua in­di­scre­zio­ne. Si die­de per vin­to quan­do uscì sul­la stra­da e fu in­ve­sti­to da una lu­ce che ora era vi­vi­da e bril­lan­te. Si fer­mò di fron­te ad una ve­tri­na e os­ser­vò l’im­ma­gi­ne ri­fles­sa, al­la ri­cer­ca di in­di­zi che po­tes­se­ro tor­nar­gli uti­li. La fi­gu­ra, re­sa opa­ca dal­la pol­ve­re su di un ve­tro po­co pu­li­to, era quel­la di un uo­mo di cir­ca qua­ran­ta-qua­ran­ta­cin­que an­ni, di al­tez­za me­dia, con un vi­so al­lun­ga­to e re­go­la­re. Per quel po­co che po­te­va ve­de­re e ca­pi­re, i trat­ti era­no gra­de­vo­li. In­dos­sa­va abi­ti che la­scia­va­no in­tra­ve­de­re, tra lo stro­pic­cia­to, il ba­gna­to e lo spor­co, una cer­ta cu­ra e for­se an­che l’ap­par­te­nen­za ad una fa­scia non po­ve­ra di po­po­la­zio­ne. Quel pen­sie­ro in­di­riz­zò la sua ma­no ver­so la ta­sca po­ste­rio­re dei pan­ta­lo­ni al­la ri­cer­ca di un por­ta­fo­gli, o qua­lun­que al­tro in­di­zio, che l’aiu­tas­se a fa­re chia­rez­za. Ri­ma­se de­lu­so. La ta­sca era vuo­ta; cer­cò fre­ne­ti­ca­men­te in quel­le la­te­ra­li. Da una tras­se del­le mo­ne­te, per un to­ta­le di due eu­ro e cin­quan­ta cen­te­si­mi. Era, al mo­men­to, il suo in­te­ro ca­pi­ta­le. L’al­tra era vuo­ta, sal­vo uno di quei bot­to­ni che si ten­go­no di ri­ser­va. Ta­stò an­che la giac­ca. Vi era un ano­ni­mo maz­zo di chia­vi e null’al­tro. Pen­sò che l’uni­ca co­sa da fa­re era su­pe­ra­re quel na­tu­ra­le sen­so di ver­go­gna e con­fes­sa­re, ma­ga­ri ad un po­li­ziot­to, il suo sta­to con­fu­sio­na­le e di to­ta­le am­ne­sia. Al mo­men­to ave­va ur­gen­za di fa­re co­la­zio­ne. En­trò in un bar e or­di­nò un cap­puc­ci­no cal­do e pre­se due brio­che. Ave­va fa­me. Da quan­to non man­gia­va qual­co­sa?

    Fan­no due eu­ro e ot­tan­ta.

    Ar­ros­sì ma in fon­do pen­sò che era ma­la­to ed un ma­la­to, per di più di men­te, può per­met­ter­si di non ob­be­di­re al­le re­go­le.

    Ho so­lo due eu­ro e cin­quan­ta. Mi di­spia­ce, non ho al­tro.

    La ra­gaz­za guar­dò con rim­pro­ve­ro il suo aspet­to tra­san­da­to e spor­co. Non dis­se una pa­ro­la. Non era co­mun­que uno sguar­do com­pren­si­vo o com­pas­sio­ne­vo­le. Era più si­mi­le al di­sprez­zo. Que­sto per so­li tren­ta cen­te­si­mi! Lui ave­va co­mun­que al­tro per la te­sta che pre­oc­cu­par­si del­la cas­sie­ra del bar. Le vol­tò le spal­le ed uscì sen­za sa­lu­ta­re. Af­fan­cu­lo la buo­na edu­ca­zio­ne! Fe­ce qual­che me­tro al­la ri­cer­ca di una qua­lun­que di­vi­sa, poi la sua co­scien­za si per­se in un tun­nel di buio, spes­so e ap­pic­ci­co­so co­me ca­tra­me. Si ri­sve­gliò do­po un tem­po in­de­fi­ni­to in un let­to, con len­zuo­la che ave­va­no un odo­re acre di di­sin­fet­tan­te. Al­la sua de­stra era un al­tro let­to dal qua­le pro­ve­ni­va un an­si­ma­re sof­fer­to, a trat­ti ca­tar­ro­so. Era un vec­chio, ri­dot­to, for­se an­che dall’età, a di­men­sio­ni mi­ni­me. Un brac­cio usci­va da sot­to la co­per­ta. Era un os­so ri­co­per­to da una pel­le ru­go­sa che in ri­lie­vo era at­tra­ver­sa­ta da ve­ne blua­stre. Si im­ma­gi­na­va un cor­po che sta­va com­bat­ten­do la sua inu­ti­le ed ul­ti­ma bat­ta­glia. Una bat­ta­glia che il vec­chio era vi­ci­no a per­de­re, lan­cian­do ma­le­di­zio­ni che non avreb­be­ro por­ta­to dan­no ad al­cu­no. Non era pia­ce­vo­le la com­pa­gnia di chi era pros­si­mo a mo­ri­re. An­che se pri­vo di me­mo­ria e di pas­sa­to sen­ti­va den­tro di sé la co­scien­za del do­lo­re che si pro­va ad an­dar­se­ne. Quan­do la mor­te ar­ri­va non si può re­spin­ger­la; lo fa­rem­mo, se so­lo po­tes­si­mo. Tal­vol­ta ci si ab­ban­do­na tra le sue brac­cia, so­lo per­ché sap­pia­mo che com­bat­ter­la sa­reb­be tem­po per­so. Non è in­fre­quen­te che, sia pu­re con­sa­pe­vo­li del­la inu­ti­li­tà di qua­lun­que re­si­sten­za, le si op­pon­ga un ri­fiu­to de­ter­mi­na­to e si strin­ga­no con fie­rez­za i pu­gni si­no all’ul­ti­mo re­spi­ro. Chis­sà qua­le era la di­spo­si­zio­ne d’ani­mo di quel po­ve­ro vec­chio. Si sa­reb­be la­scia­to an­da­re, vin­to dal­la cre­scen­te de­bo­lez­za op­pu­re era, con quel­le po­che for­ze di cui di­spo­ne­va, pron­to ad una im­pro­ba­bi­le sfi­da? Ti­zia­no avreb­be fat­to vo­len­tie­ri a me­no di sco­prir­lo e di cer­to avreb­be pre­fe­ri­to ave­re ac­can­to qual­cu­no più ben­di­spo­sto ad una fu­ti­le con­ver­sa­zio­ne.  Dal fi­ne­stro­ne al­la sua de­stra ini­zia­va a fil­tra­re la lu­ce sbia­di­ta del pri­mo al­beg­gia­re. Ri­cor­da­va, del­la se­ra pri­ma, il ter­raz­zo e la piog­gia. Non riu­sci­va pe­rò, per quan­ti sfor­zi fa­ces­se, a spez­za­re il dia­fram­ma, du­ro co­me il dia­man­te, che si frap­po­ne­va a ciò che era sta­ta la sua vi­ta pre­ce­den­te. Pen­sò co­mun­que, a par­te il suo oc­ca­sio­na­le com­pa­gno di stan­za, di es­se­re nel po­sto giu­sto. For­se avreb­be tro­va­to le ri­spo­ste che cer­ca­va. Si sen­ti­va vit­ti­ma di un ma­le ter­ri­bi­le. Qual­co­sa ave­va can­cel­la­to tut­to ciò che era sta­to. Al mo­men­to, chi era que­st’uo­mo? Nul­la! Non ave­va un no­me, una sto­ria, de­gli af­fet­ti, una pro­fes­sio­ne. Nul­la! La sen­sa­zio­ne che pro­va­va era quel­la di es­se­re im­mer­so nel ma­re pro­fon­do che, in lot­ta con­tro un gor­go, cer­ca di ri­sa­li­re per pren­de­re aria ma, fat­ti po­chi me­tri ver­so l’al­to, pre­ci­pi­ta di nuo­vo ver­so il bas­so; sen­te che l’os­si­ge­no è pros­si­mo a ter­mi­na­re, che la boc­ca in­fi­ne si apri­rà e l’ac­qua sa­la­ta in­va­de­rà i pol­mo­ni, len­ta­men­te, fi­no a sof­fo­ca­re. La via per pro­teg­ger­si da quel­la do­lo­ro­sa espe­rien­za era nel­la fu­ga da un pas­sa­to in­co­no­sci­bi­le. Co­sì fe­ce. Si ri­fu­giò nel son­no con l’in­ti­ma spe­ran­za di non ri­sve­gliar­si, se non nel­la pie­na co­scien­za. Una ma­no gran­de, gras­sa e mor­bi­da, for­te ed ami­ca, lo af­fer­rò dal pre­ci­pi­zio nel qua­le si era get­ta­to e lo ri­por­tò ener­gi­ca­men­te al­la ve­glia. Ria­prì gli oc­chi al ter­zo o quar­to cef­fo­ne. Il me­di­co, do­po es­ser­si pre­sen­ta­to, gli dis­se che, per quan­to lo aves­se scrol­la­to non ne vo­le­va sa­pe­re. Do­vet­te, suo mal­gra­do, ri­cor­re­re a mez­zi più per­sua­si­vi.  Ave­va una bar­ba briz­zo­la­ta, fol­ta e la­no­sa; gli oc­chi gran­di, di un az­zur­ro bril­lan­te; un sor­ri­so aper­to en­tro un vi­so ro­ton­do e am­pio. Una fi­gu­ra pa­ter­na e af­fi­da­bi­le. Non ne eb­be né ti­mo­re né sog­ge­zio­ne. 

    Al­lo­ra gio­va­not­to, co­me an­dia­mo?

    Me lo di­ca lei dot­to­re. Io non so chi so­no. Non ri­cor­do nul­la. Non so do­ve abi­to e se abi­to da qual­che par­te. Non so nul­la di me. Non so­no nep­pu­re si­cu­ro che que­sta di­men­sio­ne sia esplo­sa ie­ri se­ra. For­se ho im­ma­gi­na­to che fos­se co­sì? Ma­ga­ri so­no sem­pre sta­to im­mer­so nel nien­te e non ho mai avu­to una sto­ria da ri­cor­da­re. Chi so­no io? Dot­to­re, mi aiu­ti. Sen­to di im­paz­zi­re. Il mio cer­vel­lo è co­me den­tro un frul­la­to­re. So­no ver­ti­gi­ni che dan­no la nau­sea. Mi aiu­ti, dot­to­re.

    L’espres­sio­ne del me­di­co tra­di­va una pro­fon­da com­mo­zio­ne, sem­bra­va in­ve­sti­to da un’on­da di sin­ce­ra com­pren­sio­ne.

    Per ora de­ve so­lo ri­po­sa­re e sta­re tran­quil­lo. Ve­drà che tro­ve­re­mo una so­lu­zio­ne. Fa­re­mo tut­to ciò che è nel­le no­stre for­ze per dar­le le ri­spo­ste che cer­ca. Sia dal pun­to di vi­sta me­di­co, sia psi­co­lo­gi­co, che in­ve­sti­ga­ti­vo. Fuo­ri c’è un po­li­ziot­to che, se lei non si op­po­ne, le fa­rà del­le fo­to da pub­bli­ca­re. Qual­cu­no po­treb­be ri­co­no­scer­la e for­ni­re in­for­ma­zio­ni uti­li per aiu­tar­la ad usci­re dal­la sua am­ne­sia, che po­treb­be es­se­re sta­ta de­ter­mi­na­ta da un trau­ma e può dar­si del tut­to tran­si­to­ria. Ma­ga­ri si ad­dor­men­ta e al ri­sve­glio tut­to tor­na chia­ro e de­fi­ni­to.

    Due

    Il dot­tor Pao­lo An­to­nio Mat­teo, do­ve Mat­teo è un co­gno­me por­ta­to tra mil­le com­pren­si­bi­li frain­ten­di­men­ti, era un uo­mo di in­do­le buo­na. Uno di quei me­di­ci che scel­go­no di cu­ra­re e di li­be­ra­re al­tri es­se­ri uma­ni dal­la sof­fe­ren­za e dal­la ma­lat­tia. Non ave­va sem­pre por­ta­to quel­la im­po­nen­te bar­ba, che lo fa­ce­va in­di­vi­dua­re an­che a gran­de di­stan­za. Lui di­ce­va agli ami­ci, che ne chie­de­va­no ra­gio­ne, che gli pia­ce­va mo­stra­re quell’aspet­to da fi­lo­so­fo an­ti­co che gli do­na­va. Chi lo ave­va in mag­gio­re in­ti­mi­tà so­ste­ne­va che non si trat­ta­va, co­me po­te­va sem­bra­re, di ti­mi­dez­za. Era, di­ce­va­no, un mo­do per na­scon­der­si e pro­teg­ger­si. Ave­va vi­sto co­se che avreb­be pre­fe­ri­to non ve­de­re; mal­va­gi­tà che pen­sa­va non si po­tes­se­ro nep­pu­re con­ce­pi­re in un ani­mo che aves­se la pre­te­sa di de­fi­nir­si uma­no. Ave­va par­te­ci­pa­to co­me vo­lon­ta­rio, in as­so­cia­zio­ni uma­ni­ta­rie, a di­ver­si con­flit­ti in ter­re tra lo­ro mol­to lon­ta­ne. An­da­va a sue spe­se in na­zio­ni la­ce­ra­te dal­la guer­ra, dal­la fa­me o dal­la se­te. Si po­treb­be pen­sa­re che que­ste espe­rien­ze lo aves­se­ro in­cru­di­to. Nul­la di me­no vi­ci­no al­la ve­ri­tà. Al con­tra­rio, ave­va smar­ri­to per la stra­da quel ci­ni­smo, spes­so ti­pi­co dei più gio­va­ni. Era emer­so in lui il fan­ciul­lo, fa­ci­le al­la com­mo­zio­ne e al­le la­cri­me, pie­no di buo­ni sen­ti­men­ti e pron­to, per dir­la in me­ta­fo­ra, ad aiu­ta­re ad at­tra­ver­sa­re la stra­da per­so­ne an­che me­no an­zia­ne di lui. Ave­va un mo­do

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