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Il sussurro di Dio
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E-book348 pagine4 ore

Il sussurro di Dio

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Info su questo ebook

Il sussurro di Dio: Joshua è un giovane uomo che sembra avere tutto ciò che si desidera: un amore grande, una figlia che adora, un lavoro appagante. La sua è una vita felice finché alcune incomprensioni e beffardi giochi del destino iniziano a minare tutte le sue certezze. Da quel momento quella che doveva essere una semplice pausa di riflessione diventa l'inizio di una profonda ricerca interiore. Accompagnato dai suoi inseparabili cani incontrerà persone straordinarie lungo un viaggio che lo porterà a stravolgere la sua esistenza e il significato stesso del suo stare al mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita31 dic 2019
ISBN9788830615908
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    Anteprima del libro

    Il sussurro di Dio - Giacomo De Rosa

    meraviglioso.

    I

    La felicità non è avere quello che si desidera,

    ma desiderare quello che si ha.

    Oscar Wilde

    Uno squillo stridulo e penetrante mi fece sobbalzare dal letto. Stropicciai convulsamente gli occhi nella speranza di cercare di allineare la mente appena risvegliata al resto del corpo e ristabilire la mia cognizione spazio-temporale.

    «Accidenti» mi dissi sommessamente, «possibile che una sveglia nuova possa sconvolgere a tal punto il mio risveglio?»

    A quanto pare, era assolutamente possibile.

    Mi alzai dal letto ancora caldo ed accogliente (come solo alla mattina prima di alzarti ti accorgi che è) e mi incamminai verso il bagno come uno zombie. Puntai diritto verso la tazza del cesso che si trovava alla fine della stanza, e via con la pipì.

    Rimasi lì per un minuto buono, che a dirla così ora sembra niente, ma un minuto davanti al water con il pisello semi abbandonato al volere del suo tutore (anch’egli in uno stato di semi-incoscienza da risveglio violento) non è cosa da poco. Presi a farmi la barba, e qui il mio stato di consapevolezza cominciò a divenire via via più concreto: guardandomi allo specchio mi resi conto che, anche a livello visivo, era sempre più evidente.

    Ero solito radermi con il rasoio tanto sponsorizzato dalla pubblicità rompi maroni in televisione, quello con quattro lame. La prima lama è quella preposta ad informare il pelo dell’arrivo della seconda lama, molto più decisa e tagliente di lei; la seconda lama ha il compito di sollevare per benino il pelo e la terza, zac!, finalmente taglia. E la quarta? Mistero. Immagino sia quella reclutata al rastrellamento dei superstiti.

    Cominciavo la colazione con un paio di compresse di un prodotto drenante naturale che, insieme alla tazza di tè verde che sarebbe arrivata poco dopo, mi avrebbero fatto fare la solita Via Crucis al bagno dell’ufficio. Proseguivo poi con tre o quattro fette biscottate ricoperte di marmellata e un bello yogurt da bere, uno di quelli che che rinforzano le difese immunitarie. Devo dire che funzionava davvero bene: non c’era verso di riuscire a stare qualche giorno a casa dal lavoro per malattia. Mai niente di niente, sempre in perfetta forma, mai un piccolo acciacco tranne qualche sporadico ed insignificante avvenimento di raucedine accompagnato da tosse e raffreddore. Insomma, niente che potesse tentare la mia integerrima coscienza fino al punto di arrivare a chiedere qualche giorno di malattia.

    Ma non mi sono ancora presentato! Sono Joshua, un ragazzo (si fa per dire) di trent’anni, sposato con una splendida creatura di nome Viola e padre di una piccola principessa: Agnese. Abbiamo tre cani, due gatti, quattro coniglietti nani e due tartarughe terrestri, entrambe rigorosamente non denunciate. Abitiamo in una graziosa villetta locata in un ridente paesino ligure e siamo molto, molto felici.

    II

    Chiunque riesce a simpatizzare col dolore di un amico.

    Ma solo chi ha un animo nobile riesce a simpatizzare col successo di un amico.

    Oscar Wilde

    Quella mattina la sveglia suonò molto presto. Dovevo ancora concludere un lavoro al computer e programmare la giornata in funzione degli ordini e delle trattative commerciali che avrei dovuto sostenere. Sono, come si usa dire con un inglesismo piuttosto figo, un buyer, ovvero colui che gestisce le trattative commerciali e gli ordini per conto di un’azienda.

    Il mio lavoro si svolge in un ufficio ben arredato ed elegante: qui compro e tratto le forniture per un gruppo di negozi di bricolage, attività di cui ultimamente sono riuscito a diventare socio.

    Quella mattina andai al lavoro come tutti i giorni. Entrai alle 9:00 e qualche minuto di ritardo, proprio come sempre. Da che ho memoria, il ritardo è parte integrante del mio essere, malgrado i molteplici ammonimenti di mia madre prima, di mia moglie dopo e degli amici durante. Non sono quasi mai riuscito ad arrivare puntuale ad un appuntamento, neanche quando si trattava di incontrare una ragazza per la prima uscita.

    Quella mattina, dicevo, arrivai al lavoro in perfetto ritardo, salutai le mie colleghe e mi diressi in ufficio con la mente già focalizzata su quella che sarebbe stata l’organizzazione della giornata. Il mio era un compito molto faticoso, ma estremamente gratificante.

    In agenda erano segnati tre appuntamenti importanti. Il primo rappresentante arrivò alle 9:30, fastidiosamente puntuale, portandosi dietro il suo capo area e direttore commerciale: il tizio bramava da tempo di riuscire ad entrare nel nostro gruppo, creando una partnership con forniture che gli avrebbero probabilmente fruttato diverse migliaia di euro in provvigioni e premi. La trattativa si svolse tra momenti di tensione, nervosismo e battute di circostanza che avrebbero dovuto sortire un effetto rilassante ma che invece ottenevano l’esatto contrario.

    Non si riusciva ad accordarsi sul prezzo: quello che io chiedevo non mi veniva dato quindi, visto che ero nella posizione di potermelo permettere, con un briciolo di ironia mista ad arroganza e presunzione conclusi: «Cari signori, vi ringrazio di essere venuti qui oggi e di avermi concesso l’onore di poter incontrare niente meno che il direttore commerciale ma, visto che neppure lui riesce ad accontentare le mie richieste, ritengo purtroppo necessario concludere qui la nostra negoziazione. Spero di potervi rincontrare al più presto, magari quando sarete in grado di mettere sul tavolo una proposta quantomeno considerabile.»

    Le guance del rappresentante si fecero paonazze. Notai in lui un totale imbarazzo nei confronti dei suoi capi, probabilmente perché li aveva fatti scomodare dalle loro poltrone con la promessa che quel giorno si sarebbe concluso un buon affare. Così però non era stato. Il rappresentante mi guardò con aria sommessa ed imbarazzata ed io, dall’alto del mio piedistallo, ricambiai il suo sguardo sorridendo e cercai di consolarlo falsamente con una stretta di mano vigorosa e con la solita raccomandazione che facevo in quelle circostanze, per riparare almeno in parte al danno perpetrato nei confronti del misero tapino: «Mi raccomando: non lasciatevi scappare un elemento di questa portata. Immagino ve ne siate già resi conto da soli, ma avete per le mani un ragazzo davvero in gamba.»

    In realtà di quel ragazzo non me ne fregava un cazzo, anzi non vedevo l’ora che si togliesse dalle palle in compagnia degli altri due.

    Ero consapevole di aver fatto diventare ipocrisia e cinismo una prerogativa del mio modo di svolgere il lavoro. Sapevo che la mia non si poteva definire una condotta da chierichetto, ma quello che più mi importava era ottenere risultati e contratti firmati. Mi interessava soprattutto perché dovevo a tutti costi compiacere il mio ego, soddisfare la mia smania di ambizione: ero un arrivista, e non mi importava un bel niente di chi avrei dovuto calpestare per raggiungere la meta.

    Mi concessi una pausa caffè prima dell’appuntamento successivo. Pur non essendo un vero e proprio amante del caffè, era mia abitudine prendermi delle pause per poter uscire dall’ufficio. Il palazzo in cui lavoravo si trovava proprio sulla passeggiata di fronte al mare e così, per poter respirare aria pulita e caricarmi di quei pochi secondi di sole quando la giornata lo permetteva, facevo due passi fino al bar di fianco. Il caffè di quel bar non è mai stato un granché, ma serviva comunque a darmi la carica necessaria per il resto della giornata.

    Il mio lavoro mi impegnava mentalmente e fisicamente in maniera brutale: la ricerca del tempo libero era un lusso che non potevo neanche bramare e che, di conseguenza, era stata accantonata con rassegnazione.

    «Prima o poi mollo tutto e mi ritiro nella mia casa al mare, nel mio paesino, circondato solo dalla mia famiglia, i miei cani e da pochi sinceri amici.» Questo era quello che mi ripetevo tutte le volte che attraversavo un periodo di grande stress. Questo era quello che mi ripetevo quando mi serviva la forza necessaria per affrontare tutto il resto.

    In realtà, sapevo che non avrei mai avuto il coraggio di mollare tutto. Ero circondato da collaboratori e colleghi estremamente produttivi e dinamici, ma tutti si presentavano davanti a me esponendomi problemi, problemi e ancora problemi. Più volte dissi loro che per ogni volta in cui veniva esposto un problema, avrei voluto sentire una proposta per risolverlo. Evidentemente era chiedere troppo.

    Le mie giornate erano regolate dalla routine: al mattino ci si alzava, io o Viola portavamo Agnese all’asilo e poi entrambi andavamo a lavorare. Viola lavorava come responsabile in un poliambulatorio medico-dentistico, ed era anche lei decisamente molto impegnata. Forse mia moglie era un po’ meno stressata di me, ma questo penso fosse da imputare al suo carattere calmo e riflessivo. Una delle poche volte in cui l’ho vista (e purtroppo sentita) veramente incazzata è stato durante un viaggio.

    Stavamo passeggiando serenamente sul lungo mare quando mi venne voglia di stuzzicarla e, per riuscire nell’intento, cominciai a fare quello che di più fastidioso mi veniva in mente. Sulle prime Viola stette allo scherzo, salvo poi cominciare a dirmi: «Joshua, per piacere finiscila perché mi stai infastidendo!»

    Io, naturalmente, continuai imperterrito.

    «Joshua, ti avverto che mi sto incazzando.»

    Come insegna il manuale del maschio dominante, mi fregai altamente delle sue richieste. Questo fino a quando, passeggiando sul marciapiede lievemente sopraelevato, la spinsi giù lungo una discesa di sabbia. Viola ruzzolò giù per alcuni metri: ovviamente grazie alla sabbia non si fece nulla, ma quando si rialzò mi diede una veloce occhiata e poi, con tutta la naturalezza e l’eleganza che la contraddistinguevano, si pulì dalla sabbia finissima che l’aveva praticamente impanata, risalì il declivio, mi arrivò davanti e mi riguardò negli occhi profondamente. Io dovevo avere un sorrisino da ebete stampato sulla faccia, perché anche lei accennò un ghigno. Poi, sollevando lievemente i bordi della sua bocca carnosa, mi guardò diretta dentro le pupille e mi sferrò un schiaffo colpendomi in piena faccia.

    Lo schiocco riecheggiò nitido e amplificato. La gente che passava vicino (e, porca puttana, in quel momento sembrava che tutti fossero su quel tratto di lungomare per assistere alla mia disfatta) guardava la scena esterrefatti. Riuscii a notare anche alcune signore compiacersi del fiero gesto di Viola. Prima e dopo il ceffone, le uniche parole che uscirono dalla bocca della mia fidanzata furono: «Adesso mi hai veramente rotto i coglioni.»

    Detto questo, si girò e se ne tornò in albergo.

    Viola è una ragazza fantastica: è l’unica che ha sempre saputo come prendermi, ma soprattutto è da sempre l’unica in grado di ascoltarmi, e questa è stata la cosa che più ho apprezzato fin dal primo istante. Dopo il suo sedere, naturalmente. Insomma, Viola è una ragazza di sani principi e con una gran testa sulle spalle. Sessualmente abbiamo avuto un’escalation progressiva di intesa o meglio... Quando ci siamo conosciuti, io ero appena uscito da una storia per me altamente traumatica: avevo scoperto la ragazza che amavo a letto con un altro.

    Era agosto. Io lavoravo come bagnino per potermi pagare gli studi e quella sera stavo rientrando a casa dopo una serata con gli amici. Erano circa le due del mattino quando passai davanti ad una macchina che mi pareva di conoscere. Mi fermai per guardare meglio e vidi che si trattava di una Fiat Uno bianca, posteggiata a fianco di una Golf grigia che sapevo essere quella di un tizio che ultimamente girava attorno a Michela, la mia fidanzata.

    Ragionai sul da farsi.

    Più mi sforzavo di pensare a qualcosa di intelligente, più sentivo il cuore salire su per la gola. Il panico cominciò a farsi largo e, alla fine, prese il sopravvento. Era la prima volta che quasi non riuscivo a respirare dall’agitazione. Sapevo che da quelle parti c’era l’appartamento del ragazzo della Golf grigia, noto sciupa femmine a cui, si diceva, nessuna potesse resistere.

    Effettivamente non tradì la sua reputazione.

    Il paese era piccolo, e noi ragazzi ci conoscevamo un po’ tutti, quindi ricordavo bene il suo cognome: passai in rassegna tutti i citofoni dei palazzi vicini, fino a quando scovai il nome tanto cercato.

    Fumagalli Francesco, numero uno. Doveva essere al piano terra.

    Girai intorno all’edificio in corrispondenza dell’appartamento e arrivai, come si usa dire, sul più bello. La tapparella era abbassata per tre quarti e dava su un piccolo giardinetto condominiale, probabilmente poco frequentato. I due si stavano decisamente divertendo: lei gemeva come non aveva mai fatto con me e il fruscio delle lenzuola arrivava fino a fuori, insieme alle urla di piacere di entrambi.

    Quella era una notte calda, serena e a tratti rinfrescata da una lieve brezza da ponente. Sentii dentro di me una sensazione di paura: ero bloccato dentro una morsa di terrore, rabbia ed impotenza. Non feci nulla. Rimasi seduto dov’ero, mi presi le ginocchia tra le braccia e le strinsi forte contro il petto. Aspettai finché il loro rapporto giunse all’apice: sentii lui venire, mentre lei era già venuta almeno una volta. A quel punto mi alzai silenziosamente ed andai ad attendere la traditrice davanti alla sua macchina.

    Il cuore mi batteva all’impazzata. Non ero del tutto sicuro che stesse succedendo proprio a me.

    La mente in quegli istanti, che sembravano durare un’eternità, faceva turbinare vorticosamente pensieri ed emozioni senza controllo. Non sapevo che fare, non sapevo come poter placare quell’ira mista ad abbattimento, quella tristezza che mi stava travolgendo. Era come se un treno merci che trasportava merda mi avesse appena colpito in pieno. Ai brividi si alternavano improvvise vampate di calore, ed io sperimentai per la prima volta il vero panico.

    Ormai erano le tre e mezzo di mattina. Poche ore dopo sarei dovuto andare al lavoro, ma quello era l’ultimo dei miei problemi.

    L’attesa finì quando i due uscirono abbracciati l’uno all’altra. Lui si era probabilmente offerto di accompagnarla fino alla macchina, quando mi videro seduto sul cofano della Fiat Uno. In giro non c’era anima viva ed il silenzio regnava sovrano ma, in quell’istante, quando ognuno dei presenti realizzò la presenza dell’altro, il silenzio diventò ancora più assordante. Tutto si trasformò in un limbo dove gli sguardi vagavano l’uno sull’altro. L’imbarazzo era totale.

    Il battito del mio cuore, scosso da una quantità di adrenalina fuori dalla norma, ruppe il silenzio. Il mio respiro si fece affannoso e le contrazioni muscolari divennero quasi tetaniche. In un primo momento non trovai la forza di dire nulla ma poi, in un solo fiato, dissi: «Sei una grandissima puttana.»

    Già in quell’istante mi resi conto di aver sbagliato: non avrei dovuto cadere così in basso. Pensavo di poter mantenere un atteggiamento distaccato, insensibile, l’atteggiamento di uno che riesce a superare anche i momenti peggiori con eleganza e classe.

    Nel giro di pochi secondi cominciai a dirgliene di cotte e di crude, senza badare troppo all’etichetta. La mia (ex) fidanzata non proferì parola, ed aspettò educatamente che finissi di dire tutto quello che avevo da dire. Poi esordì: «Guarda che stavamo solamente parlando.»

    Per un istante rimasi in silenzio, incredulo.

    «Ma con che faccia puoi dirmi certe cose?» le urlai. «Ero sotto la finestra a sentire tutti i gemiti della vostra scopata!»

    «Come cazzo ti sei permesso di venire ad origliare alla finestra di casa mia?» mi chiese in tono aggressivo la merda d’uomo che mi trovavo davanti.

    «Tu fatti i cazzi tuoi e non ti intromettere, se non vuoi ritrovarti su una sedia a rotelle.»

    Francesco era molto conosciuto tra noi ragazzi in quanto testa calda, temperamento irascibile e poco propenso al ragionamento. Quello però fu forse uno dei pochi momenti in cui riuscì ad attivare il cervello, ed ebbe il buon senso di non raccogliere la provocazione.

    Michela cominciò a singhiozzare, non so se per il dispiacere di avermi tradito e perso o se per la strepitosa brutta figura che aveva fatto. Ad ogni modo, girai le spalle ed uscii per sempre dalla sua vita.

    Nei giorni seguenti, Michela cercò di contattarmi con ogni mezzo, anche attraverso i nostri amici comuni, i quali erano stati chiaramente informati riguardo gli eventi. Naturalmente non riuscì ad ottenere nulla. Nel frattempo io continuavo a soffrire profondamente: più il tempo passava e più la tristezza per il fallimento e la perdita di una persona che pensavo di amare si fecero più penetranti e dolorosi. Ricordo che mi sentivo inadeguato, ed il solo pensiero di avere un nuovo rapporto con l’altro sesso mi terrorizzava.

    III

    La vita è come andare in bicicletta: per mantenere

    l’equilibrio devi muoverti.

    Albert Einstein

    Fu così che presero il via una serie di avventure veloci e poco basate sul sentimento amoroso: solo sesso e bugie.

    Proprio in quel periodo conobbi Viola. In realtà la conoscevo già, perché frequentavamo la stessa palestra e ci incrociavamo da diversi mesi. Solo adesso, però, iniziavo a guardarla con altri occhi.

    Mentre stavo lottando con una serie di esercizi con il bilanciere per i bicipiti, Viola arrivò e si sedette nella panca davanti a me. Teneva in mano due piccoli manubri, quelli per fare le croci che sviluppano i pettorali, ma non si mise subito ad allenarsi. Rimase seduta sulla panca per qualche minuto, persa nei suoi pensieri.

    Io finii la mia serie, poi con la scusa di riprendere fiato cominciai a guardala, inizialmente rubando piccoli istanti in cui lei era con lo sguardo rivolto altrove, poi sempre più sfacciatamente.

    I suo occhi erano meravigliosamente magnetici, di un azzurro intenso tanto da perdercisi dentro. Aveva lunghi capelli biondi, lisci e curatissimi, centimetri di pelle vellutata erano esposti da una generosa canottiera blu che disegnava seni piccoli e perfetti. Schiena e spalle erano perfettamente disegnate dal lavoro in palestra. Il sedere era avvolto da una tuta di cotone leggera grigia portata larga, stile rapper, e la vita bassa lasciava intravedere il perizoma. La sua voce era soave, dolce e piena, priva di qualsiasi accento stridulo e fastidioso; il suo modo di fare era sereno calmo, riflessivo e profondo.

    Rimasi colpito.

    Fino a quel momento i nostri rapporti si erano limitati ad un ciao accennato con la testa e la conseguente risposta. Quel giorno, però, capii che avrei potuto spingermi oltre.

    L’occasione non si fece attendere: avrei agito durante la cena di Natale che Marco e Caterina, i proprietari della palestra, organizzavano ogni anno. Le iscrizioni erano aperte, bisognava semplicemente segnare il proprio nome sul foglio posto sulla bacheca all’entrata.

    Quell’anno il mio nome spiccò su tutti: peccai in egocentrismo e megalomania, lo scrissi grosso ed in rosso, mentre gli altri erano scritti tutti in blu o nero. Volevo essere certo che Viola vedesse la mia iscrizione, così avrei potuto giudicare il suo iscriversi o meno.

    La cena fu organizzata in un ristorante in un paesino dell’entroterra, a circa quaranta minuti dalla palestra, per la sera del ventidue dicembre.

    Il venti dicembre andai in palestra, controllai la bacheca, ma del nome di Viola nemmeno l’ombra. Il ventuno tornai in palestra con una scusa qualsiasi, solo per vedere se finalmente si fosse iscritta. Con grande sorpresa mi accorsi che, non solo si era iscritta, ma aveva anche usato la mia stessa tecnica per mettersi in evidenza: il suo nome era scritto in rosso e a caratteri cubitali: VIOLA.

    Me ne uscii euforico e soddisfatto.

    La sera della cena ci si ritrovò tutti davanti alla palestra, organizzammo le macchine per partire e, naturalmente, feci in modo di capitare con lei. Un amico comune fece da autista. Nell’auto eravamo in quattro: Andrea, un gran chiacchierone con una goffaggine e senso dell’umorismo tipico di chi dovrebbe fare cabaret, si mise a raccontare per tutto il viaggio le vicissitudini accadute nel suo lavoro. Le storie non mancavano, dal momento che faceva il becchino nella più grande agenzia di pompe funebri della zona.

    Al posto del navigatore sedeva Piero, un atleta tutto di un pezzo tanto nel fisico quanto nel carattere: grandi muscoli e nessuna parola. Inutile dire che si rivelò un perfetto ascoltatore per Andrea che, sentendosi seguito nei suoi racconti con apparente attenzione, si lasciò prendere e non restò zitto un attimo per tutto il viaggio. Dietro sedevamo io e Viola.

    Superati i primi secondi di imbarazzo, cominciammo a rompere il ghiaccio.

    «Finalmente seduti vicini senza pesi in mano» dissi sfoderando una buona dose di banalità.

    «Già» rispose lei. «Sono molto contenta di poterti finalmente parlare con un po’ di tranquillità. In palestra sei sempre tutto intento a fare il figo e mi degni di uno sguardo solo per un piccolo ciao» concluse con un sorrisino ironico e malizioso.

    Tra me e me pensai che l’emancipazione femminile aveva fatto passi da gigante. Io, al contrario, sfoderai la mia espressione da ebete più riuscita. Dovevo a tutti i costi dire qualche cosa, ma cosa? Quel poco che mi veniva in mente non era affatto intelligente. Fortunatamente Andrea entrò nel vivo di un suo racconto a dire poco esilarante, quindi l’attenzione di tutto l’equipaggio si rivolse direttamente su di lui.

    Una volta arrivati al ristorante, iniziò lo spettacolo vero e proprio. Si partì con la scelta dei vini, ed optammo per un rosso prodotto dalla casa. Andrea se lo fece versare per primo e sorseggiò.

    «Colore rosso rubino intenso, lievemente virato al granato, probabilmente a causa del buon invecchiamento» annusò. «Profumo intenso, fine, fresco e leggermente fruttato. Frutti rossi, sì. Poi marasca e legno» sorseggiò nuovamente. «Al gusto risulta secco, caldo, leggermente tannico, ammorbiditosi con l’invecchiamento.»

    Com’è comprensibile, rimanemmo tutti sbalorditi da cotanta conoscenza enologa e, di conseguenza, seguì un attimo di silenzio.

    «Fa sempre molto effetto» disse Andrea ammirando tutta la tavolata, soddisfatto del risultato ottenuto. «Ho imparato questa parte a memoria e la uso per fare colpo sulle donne al primo appuntamento.»

    Scoppiò un boato di risa, e tutti brindammo alzando i nostri bicchieri. Così, alla faccia della dieta e della forma tanto sudata in palestra, ci lasciammo andare tutti ai festeggiamenti. Tutti o quasi: Piero rimase fedele al suo credo di atleta, anche se bastò qualche bicchiere di vino a sciogliergli la lingua e a trasformarlo in un simpaticissimo logorroico.

    Io e Viola non eravamo seduti vicini, anzi lei era dal lato opposto al mio, e quindi potevamo soltanto guardarci. Le dedicai più di un brindisi, e lei contraccambiò con apparente piacere.

    A cena finita salimmo in macchina e riprendemmo le stesse postazioni del viaggio d’andata.

    Andrea volle a tutti i costi farci sentire la registrazione di un karaoke artigianale, fatto in macchina con un suo collega mentre erano in viaggio per Messina in compagnia di una salma di 87 anni. Il viaggio di ritorno, fu molto più rilassato rispetto a quello d’andata. Io e Viola cominciammo quasi immediatamente a parlare delle nostre vite, del lavoro lei, dello studio io. Più volte fui tentato di entrare nel discorso del tradimento, ma non volevo rischiare di innervosirmi parlando di Michela per poi cadere nell’autocommiserazione e nel vittimismo.

    Viola mi disse che lavorava come segretaria presso un noto studio notarile della zona e che era molto contenta di ciò che faceva. Effettivamente, quando parlava mi trasmetteva tutta l’energia e la tranquillità di cui avevo bisogno. Sembrava che nulla e nessuno potesse scalfirla, così schietta, determinata e dolce allo stesso tempo: un mix che mi faceva impazzire.

    Andrea ci lasciò proprio davanti alla palestra. Ci salutammo e tutti notammo che Piero aveva gli occhi lucidi tipici di chi ha bevuto un bicchiere di troppo e di chi non era abituato ad uscire la sera; ci salutò e fu il primo a dirigersi verso la sua auto. Viola salutò caldamente con due baci schioccanti Andrea, ed io lo ringraziai per i suoi racconti. Ci allontanammo insieme.

    Pensavo che Viola avesse la sua macchina ma invece, con mia grande gioia, scoprii che era appiedata. Mi proposi immediatamente di accompagnarla a casa. Una volta saliti sulla mia auto ci trovammo subito in completa sintonia, vuoi per il vino bevuto, vuoi per il tempo già trascorso a scherzare e ridere alle battute di Andrea, vuoi per la musica che suonava l’autoradio.

    Quei primi minuti passati insieme, io e lei da soli, mi fecero capire chi avevo davanti: una ragazza seria, profonda, con tanto amore da dare e soprattutto bella da togliere il fiato.

    «Spero di poterti incontrare ancora. Intendo fuori dalla palestra.»

    Mi sentivo molto attratto da Viola, ma non era scattata la scintilla. In fondo, ero ancora paurosamente sconvolto dall’esperienza con Michela.

    «Piacerebbe anche a me» rispose lei incorniciando la frase con un sorriso laconico. «Anche se» continuò cogliendomi alla sprovvista, «pur conoscendoti in modo molto superficiale, mi accorgo che fai fatica a lasciarti andare. Non sono proprio sicura di piacerti e questo mi dispiace, visto che sono mesi che in palestra ti osservo mentre ti alleni. Guardo i tuoi occhi attraverso lo specchio mentre mi guardi e provo invidia per le ragazze che riescono a parlarti con disinvoltura, quelle che scherzano e ridono con te. Joshua, tu mi piaci veramente tanto ma non voglio forzarti e non voglio certo intromettermi in una storia già esistente. Io sono qua e, fino a quando riuscirò, ti aspetterò con ansia. Spero di poterti stringere presto e di poterti avere tutto per me.»

    «Io, ecco. Certo, ehm. Io sono... Sì, ammetto che... Diciamo...»

    Cosa cazzo stavo dicendo? Naturalmente non ne avevo la minima idea. La mia faccia da coglione sostituì l’espressione ebete data dal vino, mentre Viola continuava a sorridere e a guardarmi dritto negli occhi. Era come se stesse studiando con dovizia di particolari la mia reazione.

    «Viola» riuscii a dire. «Mi hai lasciato senza parole. Giuro che non mi aspettavo tanta franchezza. Comunque

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