Corto viaggio sentimentale
Di Italo Svevo
3/5
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Info su questo ebook
Introduzione di Mario Lunetta
Un breve viaggio di lavoro è l’occasione che l’anziano signor Aghios attendeva da tempo.
Finalmente staccatosi dalla moglie, può concedersi di assaporare piccole, innocue promesse di libertà. Ma è una libertà che si sostanzia di sensazioni e di pensieri, più che di azioni concrete: il protagonista senile di questo piccolo capolavoro, rimasto incompiuto, è insieme affascinato e distante da ciò che vorrebbe afferrare. Tornano qui, in una forma esemplare ma rinnovata, i temi che furono cari a Svevo: il bisogno di vivere e l’incapacità di aderire al reale senza dolorose scissioni; l’idea dell’eros come trasgressione al sano comportamento borghese; l’influenza delle teorie psicoanalitiche.
Italo Svevo
(pseudonimo di Ettore Schmitz) nacque a Trieste nel 1861. Fu il primo scrittore italiano a interessarsi alle teorie psicoanalitiche di Freud, che proprio allora cominciavano a diffondersi in Europa. Fu grande amico di Joyce, che lo fece conoscere a livello internazionale, e di Montale, che in Italia ne intuì per primo le eccezionali doti di narratore. Morì nel 1928. Di Svevo, la Newton Compton ha pubblicato La coscienza di Zeno, Senilità, Una vita, Corto viaggio sentimentale, I racconti e, nella collana “I Mammut” il volume unico Tutti i romanzi e i racconti.
Italo Svevo
Italian writer, born in Trieste, then in the Austro-Hungarian Empire, in 1861, and most well known for the novel _La coscienza di Zeno_.
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Recensioni su Corto viaggio sentimentale
10 valutazioni1 recensione
- Valutazione: 3 su 5 stelle3/5In feite een onafgewerkt reisverhaal, geschreven op het einde van Svevo's leven, 1928, en slechts gedeeltelijk door de auteur voor uitgave klaargemaakt. Spijtig, want indien afgewerkt was het werkelijk een pareltje geweest. Hoofdtoon: pessimisme over de menselijke relaties en de mogelijkheid tot echte communicatie, vriendschap en liefde.
Anteprima del libro
Corto viaggio sentimentale - Italo Svevo
496
Prima edizione ebook: aprile 2014
© 1991, 2014 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-6960-9
www.newtoncompton.com
Edizione elettronica realizzata da Gag srl
Italo Svevo
Corto viaggio
sentimentale
A cura di Mario Lunetta
Edizione integrale
Newton Compton editori
Introduzione a Italo Svevo
È indispensabile, accostandosi a Italo Svevo, non dimenticare la sua condizione di italiano suddito imperialregio: una condizione che lo apparenta ad autori come Schnitzler, Hofmannsthal, Kafka, Musil, sia nella coscienza della dissoluzione del gran corpo incoeso dello Stato austroungarico che nella necessità di rispondere a questa dissoluzione, sul piano letterario, con l’adozione di un sistema aperto di moti peristaltici e di forme deputate alla corrosione critica degli statuti della narrativa realistica ottocentesca (1. fisionomia accertata del personaggio rispetto alla consistenza del teatro dell’azione; 2. monoassialità del rapporto scrittura-referente).
La molteplicità in qualche modo «pre-cubista» del punto di vista, la rarefazione delle atmosfere che assumono la stessa centralità protagonistica dei personaggi, l’annullamento delle distanze di rispetto tra autore e materia, infine le varie soluzioni tecniche legate al monologo interiore, al flusso di coscienza e alle associazioni di idee ritmate sul diagramma oscillante di psicologie che stanno scontando un’irrimediabile «perdita del centro»: sono questi i caratteri che scandiscono i tempi di quella lunga veglia funebre truccata da fiera delle vanità che è la finis Austriae. L’italiano Italo Svevo ne è parte non solo in quanto Ettore Schmitz, ma in quanto intellettuale anche linguisticamente scisso, e individuo che aspira a un’unità spirituale sempre meno oggettivabile. Il diaframma tra animus e res si è assottigliato fin quasi a scomparire. Il quadro del mondo è il quadro della coscienza che ha smarrito le coordinate della totalità: è ormai un quadro schizofrenico, e non nutre illusioni palingenetiche o pretese di catarsi. L’ottimismo positivistico ha ceduto il passo alla percezione nevrotica della catastrofe.
L’imago della Belle Époque asburgico-borghese è simile a quella di Dorian Gray: è un’immagine doppia. Dentro la sua specularità si annida il segreto sociale e culturale della propria perdizione. Chi ha la forza di guardarla, non può farlo ormai che da viaggiatore prossimo al naufragio o da naufrago sulla zattera: dalla labile piattaforma della nostalgia o dal deserto del nihilismo. Non ci sono dubbi sull’assai più ricca produttività della seconda soluzione: bastino per tutti i nomi di Musil e di Kafka, i cui «uomini senza qualità» esprimono soltanto il doppio paròdico dell’azione, in tutta la spettralità dell’Essere Borghese.
C’è chi sceglie – come Schnitzler – il sarcasmo irridente; e chi – come Svevo – la distanza elastica dell’ironia. Ma anche questa scelta (quanto si voglia obbligata) è il risultato di un tormentoso processo di autoappropriazione: cioè, la conquista dell’unica forma di coscienza epocale, quella della scissione.
Fin dalle prime prove letterarie, Schmitz-Svevo dà segno di aver intrapreso un cammino di avanzata obliqua, per così dire, tutt’altro che in linea con la marcia dell’armata naturalistica. Quanto l’ideologia del naturalismo è omologa all’assetto dell’universo borghese che si gioca (e si danna) sulla finzione della propria scientificità/ineluttabilità, tanto l’atteggiamento di Svevo risulta «dilettantesco». È questa la sua scelta trasgressiva e vincente, a partire dalla sua preistoria di narratore. Nota acutamente Romano Luperini nel suo Novecento (Loescher, 1981): «Chi avrà salvaguardato dentro di sé il desiderio, chi non avrà tradito del tutto il principio di piacere, chi avrà mantenuto una disponibilità sino a rifiutare qualunque determinazione, qualunque forma cristallizzata, potrà avere un futuro. In costui appunto si identifica Svevo: questo è il senso del suo dilettantismo, del suo prendere di sbieco la vita».
Per capire dall’interno le ragioni di questo tracciato obliquo e il processo di sviluppo dell’arte sveviana fino ai suoi risultati più alti, è utile considerare certe prove minori e laterali, la cui relativa acerbità le assegna certamente alla preistoria della narrativa del triestino, ma che pure contengono in nuce tratti e componenti che si organizzeranno con una ricchezza e una profondità incomparabilmente più grandi nelle opere successive, e disegneranno la fisionomia inconfondibile dello scrittore.
Un momento quasi esemplare di questo tracciato che fatica a definirsi, impacciato com’è da una serie di elementi spurii e ritardanti rispetto a quello che si confermerà poi come il filone centrale della ricerca di Svevo, è costituito dal lungo racconto giovanile pubblicato nel 1890 nell’Indipendente, che segna l’esordio narrativo dello scrittore. Il romanzo Una vita uscirà due anni dopo, ma già questo testo del ventinovenne narratore rivela certe sue inclinazioni e movenze discretamente caratterizzate.
Il titolo del racconto è L’assassinio di Via Belpoggio, e vi si narra la storia di un facchino che uccide con una coltellata al cuore e poi deruba di una forte somma un occasionale compagno di sbornie. All’inizio la fa franca, ma in seguito la stretta del rimorso, l’incertezza e l’incapacità di assumere cinicamente il ruolo dell’innocente gli fanno commettere una tale quantità di errori da insospettire chi gli vive accanto, finché non viene arrestato e confessa il delitto.
La cornice che inquadra il racconto è chiaramente naturalistica. Delle suggestioni che il «roman expérimental» di matrice zoliana e autori come Flaubert, Daudet, Gourmont esercitano in questo periodo sul giovane scrittore fa fede, tra l’altro, una nota di diario del fratello Elio in data 12 maggio 1881: «Ettore fa… nulla: legge, studia sempre, ed è sempre più fermo nell’idea di studiare e scrivere. Vive sognando commedie e lavori ora drammatici, ora romantici, che sulla carta non vengono mai a compimento. Ha ora cambiato alquanto partito in arte. È verista. Zola lo ha riconfermato nell’idea che lo scopo della commedia e l’interesse devono essere i caratteri e non l’azione. Tutto deve essere vero».
Se il progetto è zoliano, l’aria che circola dentro all’Assassinio di Via Belpoggio è tutt’affatto diversa, già inclinata sul versante dell’analisi e dell’introspezione psicologica, tendente sia pure timidamente a suggerire un clima fluido, impalpabile, sottilmente soggettivo e perciò «aperto» rispetto alla concezione «chiusa» dell’oggettivismo naturalistico. Né estranee all’atmosfera del racconto risultano certe suggestioni del Dostoevskij di Delitto e castigo (Raskolnikov non compie anche lui una serie di «errori» dopo il delitto, pur se calcolati con rischiosa freddezza?) e addirittura, a prova ulteriore di una consonanza culturale e di un atteggiamento mentale in qualche misura propri a tutta la cultura mitteleuropea, certi brividi kafkiani avanti lettera (si veda, ad es., l’arresto dell’assassino da parte dei poliziotti, fissato in una luce di astrazione cruda e angosciosa).
L’analisi sveviana è appena agli albori, eppure funziona con una sua indubbia efficacia da elemento di disturbo e di frattura, da contraddizione attiva nel corpo della struttura naturalistica del testo. Se tale contraddizione raggiungerà maggiore evidenza e maggiore scarto nel successivo romanzo Una vita, già qui comunque la visione personale dello scrittore si avverte senza equivoci in certi momenti di riflessione e di scavo interiore. Ecco perché per alcuni versi L’assassinio di Via Belpoggio non solo preannuncia certe linee di sviluppo della successiva ricerca di Svevo, ma tende a trasbordare fuori dal solco naturalistico, dall’oggettivismo della «tranche de vie», realizzandosi con l’immersione della vicenda in un clima già pregno di imponderabili ragioni individuali, per via di segmenti apparentemente spezzati, di un reticolato complicato e sottile di nessi psicologici, di nevrosi accennate, di censure e amputazioni, caratteristici della letteratura (e dell’uomo «straniero» nel mondo) del secolo scorso.
In una pagina del 1927 Svevo scrive: «L’immaginazione è una vera avventura. Guardati dall’annotarla troppo presto perché la rendi quadrata e poco adattabile al tuo quadro. Deve restare fluida come la vita stessa che è e diviene». A questa consapevolezza si è ispirato l’intero percorso della ricerca sveviana. La percezione acutissima di ciò che vibra dentro questa fluidità è la sua forza e il carattere primario della sua cifra. Osserva esattamente Franco Petroni in una sua monografia recente che il «dilettantismo» di Svevo è il tentativo sempre rinnovantesi «di mantenere un incerto punto di equilibrio tra principio di realtà e principio del piacere, tra doveri imposti e desiderio. La letteratura è, per Svevo, uno strumento insostituibile per mantenere il punto di equilibrio. Da alcuni suoi scritti, che non hanno alcuna pretesa teorica, è ricavabile una poetica che sotto l’aspetto dimesso cela una profonda originalità, anzi un modo rivoluzionario di intendere la funzione della letteratura. Questa è considerata infatti non come mezzo per dare espressione a dei miti collettivi, sublimando e celando, attraverso la forma, le contraddizioni che esistono in seno a una collettività e che si riflettono sulla psiche dell’individuo, ma piuttosto come strumento terapeutico individuale, che funziona mediante una continua e capillare presa di coscienza. La letteratura è, in questo senso, uno strumento insostituibile di igiene
».
Una vita è il primo passaggio obbligato per entrare nell’area «avventurosa» di questa presa di coscienza. I suoi risultati sul piano espressivo possono essere diseguali, ma il romanzo resta, nella storia di Svevo, un momento fondamentale: la zona di minor resistenza in cui si esprime la sua crisi. Alfonso Nitti è il primo degli «inetti» sveviani: una sorta di archetipo debole, di sinopia macerata. La sua è più che altro una forma cava in potenza che reclama il corpo che la incarni in atto. In Senilità (1898) l’incarnazione è avvenuta: Svevo conosce se stesso. In un certo senso, il suo destino di scrittore è segnato: e correrà in rotta di collisione nei confronti di ciò che si chiama successo, fino al 1925. Scrive con la consueta acutezza Giacomo Debenedetti nel Romanzo del Novecento: «Nel 1925 e negli anni successivi la critica e il pubblico (meno il pubblico, però, che la critica) si accorgono che Svevo è un romanziere di importanza eccezionale. La domanda più ovvia è: perché prima di allora non se ne erano resi conto? La risposta più ovvia, dal nostro punto di vista, è che Svevo, coi suoi romanzi, presenta l’immagine dell’uomo che la nuova narrativa cerca e persegue; che anche i suoi romanzi, come tutti i romanzi moderni, sono romanzi interrogativi. Interrogano per cercare, forse invano, di sapere il significato della vita, il senso del destino di un uomo dissociato, dilacerato. Forse parrà banale, ma è necessario, soggiungere che formulare più o meno distintamente una domanda non vuol dire promettere o far sapere una risposta. L’idea che porre un problema sia già risolverlo è tipica degli uomini e delle età ottimistiche (una simile idea, per esempio, era molto cara a Benedetto Croce. Ma il Croce, per l’appunto, era un ottimista, sia pure nel modo più complesso e meno ingenuo). Il romanzo interrogativo, anche in Svevo, è quello che affaccia, e lascia aperto nella sua drammatica problematicità, il problema di trovare il senso di ciò che si vede».
Non è certo un caso che chi fa questa analisi tanto puntuale e suggestiva sia l’autore di Amedeo (1926), un racconto al cui centro vive un protagonista che «finiva coll’affidarsi alla coscienza di una generica superiorità, difendendosi da ogni urto esteriore con una specie di solitudine ascetica; sostenuta peraltro dalla tragica civetteria di volersi far notare dai circostanti come ribellione per una virtù disconosciuta ovvero minaccioso silenzio carico d’avvenire». Ha precisamente notato Enrico Ghidetti che «una analoga sintomatologia […] aveva afflitto, anni prima, Emilio Brentani». Brentani, appunto, il piccolo borghese protagonista di Senilità con velleità di scrittore; l’uomo d’ordine che flirta cautamente con idee filosocialiste tanto generiche quanto episodiche; colui, infine, che «sceglie» per manco di vitalità di appassire come appassisce un vegetale anziché difendere i diritti del proprio desiderio. Tra la chiarezza geometrica della sconfitta di Emilio e l’ambiguità della sconfitta del protagonista di Una vita (che pure conteneva in sé un tasso non trascurabile di conflittualità e di opposizione al dominante