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Le ragazze silenziose
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Le ragazze silenziose
E-book414 pagine5 ore

Le ragazze silenziose

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Info su questo ebook

Avvincente come Jo Nesbø
Emozionante come Camilla Läckberg

Un grande thriller

Dal giorno in cui aveva riconsegnato il distintivo, Frank Rath pensava che non si sarebbe più occupato di un omicidio: l’idea era quella di diventare un detective privato e dedicarsi a sua nipote rimasta orfana. Ma il dipartimento della remota contea di Canaan ritrova una Chevrolet Monte Carlo dell’89 abbandonata al lato della strada, e la sua proprietaria, una bella ragazza poco più che adolescente, risulta sparita senza aver lasciato dietro di sé neanche una traccia… Rath tornerà così, suo malgrado, a occuparsi di un caso di cronaca nera, affrontando i peggiori abomini dell’animo umano. Non solo le conseguenze del suo violento e doloroso passato verranno a tormentarlo, ma Frank scoprirà che perfino nella più sperduta e quieta cittadina degli Stati Uniti può annidarsi il male. Il tempo stringe e Frank ne ha pochissimo per capire chi si nasconde dietro la scomparsa di altre povere ragazze…

Bestseller del New York Times e USA Today
Un thriller magistrale

Un piccolo paesino sperduto degli Stati Uniti
Un segreto tenuto nascosto per anni
Una ragazza scomparsa nel nulla

«Mi ha preso fin dall’inizio. Dallo sviluppo dei personaggi alla descrizione dei luoghi. Mi sembrava di essere uno dei protagonisti, che osservava la scena da un angolo.»

«Grandi personaggi. Spero che ognuno di loro sia protagonista di una storia a sé.» 

«Suspense dall’inizio alla fine e sorprese in ogni pagina.»
Eric Rickstad
Con il suo romanzo di debutto, Reap, ha ottenuto negli Stati Uniti un immediato successo, tanto che è stato un autore bestseller del «New York Times». Ha firmato altri thriller, ma Le ragazze silenziose è il primo tradotto in Italia. Vive nel Vermont con la moglie e la figlia.
LinguaItaliano
Data di uscita11 dic 2015
ISBN9788854190207
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    Anteprima del libro

    Le ragazze silenziose - Eric Rickstad

    1134

    Titolo originale: The Silent Girls

    Copyright © 2014 by Eric Rickstad

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Massimiliano Borelli

    Prima edizione ebook: febbraio 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9020-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Art Direction: Sebastiano Barcaroli

    Immagine di copertina: © Davide Nadalin

    Eric Rickstad

    Le ragazze silenziose

    A mia moglie Meredith.

    Crimine. Dal latino cerno: io decido.

    Io emetto un giudizio.

    Capitolo 1

    31 ottobre 1985

    Alla luce fioca della veranda, l’orrenda maschera del bambino sembrava reale, come se della gomma fusa fosse colata sopra la testa di quella povera creatura sciogliendone la carne, deformando e rendendo ripugnanti i tratti.

    La donna trattenne il fiato e si ritrasse di scatto, facendo quasi cadere la ciotola delle caramelle. Che razza di madre lascia che suo figlio indossi una tale mostruosità?, si chiese. E dove sono i suoi genitori? A volte i genitori portavano i propri ragazzi nei quartieri alti e restavano lì ad aspettare in macchina, bevendo birra dalla lattina e incitando bambini troppo piccoli per Halloween ad andare «laggiù a prendere i dolcetti», a sgraffignarne «una bella manciata alla mamma». Ma la donna non vedeva né adulti né auto vicino al marciapiede buio.

    Si chinò per osservare meglio la maschera del bambino.

    «E cosa dovresti mai essere?», chiese.

    «Morto».

    La voce del bambino era stridula e fredda, asessuata.

    La donna scrutò la maschera, incapace di stabilire dove finisse la gomma e iniziasse il vero volto. Non sembravano esserci discontinuità intorno alle orbite immobili; le iridi, nere quanto le pupille, acquose e animalesche, nuotavano nel vasto bianco degli occhi.

    «Fai molta paura», disse la donna.

    «Tu fai paura», ribatté il bambino con la sua voce strozzata.

    «Io?», fece lei.

    Il ragazzino annuì. «Tu sei un mostro».

    «Ah, davvero?»

    «Mmh mmh».

    La donna scoppiò a ridere, ma la risata le morì in fondo alla gola, repressa da una lancinante fitta di improvviso, inspiegabile terrore. Guardò alle spalle del bambino verso la strada tranquilla, silenziosa e buia. Dov’erano finiti tutti quei ragazzini di prima, così euforici e ingordi?

    «I mostri non esistono», disse la donna.

    «Mmh mmh».

    «Chi te l’ha detto?»

    «Mia mamma».

    «Ah, sì? E chi è tua mamma?»

    «Tu».

    «Ho capito. E chi ti ha detto che sono tua mamma?»

    «Mia mamma».

    Un malessere viscido s’impossessò del suo stomaco. Era terrore. Irrazionale, crescente. Si sentiva ribollire le vene. Allungò all’indietro la mano per afferrare il pomello della porta, mentre il sangue pompava nelle tempie.

    Un bambino gridò. La donna sussultò e girò lo sguardo mentre due ragazzini con una mantella nera addosso correvano lungo il marciapiede confondendosi subito dopo con il buio.

    Aspettate! Tornate qui!, avrebbe voluto urlare.

    Posò di nuovo lo sguardo sul bambino. Teneva qualcosa in mano: qualcosa di scintillante. Un coltello. La lama era lunga e sottile. Maligna.

    La donna gli porse la ciotola delle caramelle.

    «Prendine quante ne vuoi», disse con voce roca, «e vattene».

    Gli occhi neri del bambino la fissavano.

    Quelli della donna captarono il luccichio argenteo della lama che lui le conficcò nella pancia.

    «Cristo!», urlò. «Piccolo pezzo di…». Ma non riuscì a terminare la frase. Il dolore la pervase, la travolse. La mano scivolò dal pomello e la ciotola delle caramelle rotolò sul pavimento della veranda.

    Oddio.

    Troppo spaventata per guardare, si afferrò la pancia e sentì un calore appiccicoso espandersi tra le dita.

    Il bambino estrasse il coltello da sotto la sua mano e la donna strillò di dolore. Poi lui affondò di nuovo la lama appena sopra la vita dei jeans, strattonando con forza verso l’alto.

    Oddio.

    Stava per essere…

    …squartata.

    Barcollò all’indietro, accasciandosi oltre la soglia.

    Il bambino entrò in casa e chiuse la porta con un leggero scatto. La sua faccia incombeva su quella della donna. Lei allungò una mano e afferrò la pelle gommosa della maschera. Tirò, ma la maschera non venne via. Vi affondò le dita, la artigliò. Quella si allungava. E il coltello intanto saliva. Lacerò la maschera e rimase senza fiato. Il bambino aveva ragione.

    I mostri esistevano.

    Capitolo 2

    22 ottobre 2011

    Il sangue sulle mani di Frank Rath fumava all’aria fredda di ottobre, mentre lanciava un capo di una fune sulla trave maestra della rimessa, legava l’altra estremità al centro del palo di legno infilzato tra le gambe della carcassa sventrata e tirava con forza.

    Sentì un dolore propagarsi dalla schiena, come fosse stato colpito con una spranga. Cadde in ginocchio, mentre il cervo morto se ne stava afflosciato sulla terra gelata nella triste pozza del suo stesso sangue.

    Rath rimase fermo, respirando piano con il naso, contando alla rovescia a partire da dieci. Erector spinae. Aveva imparato il latino a forza di ammazzare il tempo studiando il modello anatomico presente nell’ufficio del dottor Rankin.

    Il suo cellulare vibrò nella tasca della camicia. Rachel, sperava. Era partita da sette settimane per il suo primo semestre al Johnson State College, e nel frattempo la solitudine si era annidata nel cuore di Rath.

    La casa sembrava priva di vita senza il brusio del phon di Rachel la mattina, o l’insistente flusso di messaggi quando lasciava il cellulare parcheggiato per più di un secondo sul tavolo della cucina.

    Rath fece per prendere il telefono, ma il dolore lancinante alla schiena non accennava a diminuire; eseguì una goffa spinta pelvica. Il dottor Rankin lo aveva mandato da uno schizzato fisioterapista, il quale gli aveva prescritto una serie di umilianti allungamenti da contorsionista che facevano sentire Rath sempre sul punto di farsela addosso: allungamenti molto più adatti a ricche casalinghe che potevano eseguirli prima di entrare in sauna ascoltando melodie suonate col didgeridoo, piuttosto che a un uomo la cui idea di stretching corrispondeva al tendere la mano alla credenza in alto per prendere il suo Lagavulin 16 anni e le Pop-Tarts al cioccolato. Rath si toccò i piedi con un grugnito.

    Ciò che lo preoccupava non era tanto il dolore, quanto il fatto che il dolore sembrasse non avere alcuna causa. Semplicemente, una mattina si era svegliato sentendosi come se qualcuno gli avesse fatto un buco nella schiena e gli avesse strappato l’erector spinae dalla spina dorsale.

    Guardò il cervo. Avrebbe dovuto appenderlo. Prima il cervo. Poi una birra. O anche tre.

    Il cellulare di Rath vibrò: Harland Grout.

    Grout, il solitario capo detective dell’anemica forza di polizia di Canaan, era più acerbo di una ghianda ancora verde. Giocava a freccette nello stesso torneo di Rath, ma soprattutto aveva una schiena giovane e forte, buona per sollevare una carcassa.

    Rath rispose. «Grout, sto cercando di appendere un cervo. Forse ti andrebbe di guadagnarti una cassa da sei e darmi il tuo…».

    «C’è una macchina. Sulla Statale 15», disse Grout.

    «Questo tipo di informazione e una ventina di Canadian ti varranno una lapdance oltre confine al Dirty Girl di Richelieu».

    «Già», fece Grout, e Rath notò una punta di severità nel tono dell’altro che lo fece pentire della sua iniziale scioltezza.

    «Che c’è?», disse Rath, uscendo dalla rimessa per appoggiarsi al parafango della sua International Scout del ’74 che pareva aver recuperato dai tempi in cui Lincoln era un liberale.

    «L’auto sembra abbandonata». Grout s’interruppe in attesa che passasse un’interferenza sul segnale debole. Lassù, vicino al confine, non c’era un solo ripetitore nel raggio di otto chilometri. Dio benedica il Vermont. Oppure no. «L’auto appartiene alla figlia della cugina di mia moglie».

    «Merda», disse Rath, non provando nemmeno a districare i rami di quell’albero genealogico.

    «Ha sedici anni».

    «Merda». Rath si abbandonò contro la Scout. «Credi che sia successo qualcosa?».

    Successo qualcosa. Che cazzo di eufemismo per le immagini – nient’affatto gradevoli – che si erano insinuate nella mente di Rath nell’attimo stesso in cui aveva appreso la notizia di una ragazza scomparsa.

    «È difficile dirlo», disse Grout. «Ho solo ricevuto la chiamata in macchina. Al telefono sua madre mi sembrava in ansia. Sono giorni che non ha notizie della figlia e mi ha chiesto di occuparmene».

    «Perché mi hai chiamato? È minorenne, puoi indagare tu stesso in quanto poliziotto».

    «È una minore emancipata».

    «Merda», ripeté Rath. Il suo repertorio di imprecazioni avrebbe avuto bisogno di una rinfrescata.

    A meno che non ci fossero prove di un omicidio, dovevano trascorrere settantadue ore prima che potesse iniziare un’indagine su un adulto scomparso. E per la legge del Vermont, una ragazza emancipata, anche se sedicenne, era un adulto. Non aveva senso. Una sedicenne era una bambina, e qualsiasi adulto che guardava una ragazza così giovane e vedeva qualcosa di diverso da una bambina o s’ingannava o era un pervertito.

    «Mi sto dirigendo lì, adesso», disse Grout. «Da quel che sappiamo, l’auto è pulita, e magari lei si sta solo sbattendo un ragazzo o si è imbucata da un’amica. O qualcosa del genere. Anche Sonja Test sta andando lì, con i suoi tempi; ha rinunciato all’allenamento del sabato e ora è in mezzo al traffico. Di sicuro anche questo è fuori dal protocollo. Ma il nostro capo Barrons sta alle Bahamas a pescare e resterà fuori per altri tre giorni, e…».

    «Quel bastardo», disse Rath. Barrons era stato il suo superiore per i tre anni in cui aveva lavorato come detective nella polizia di Stato, negli anni Novanta. Era un poliziotto eccezionale, e un pescatore persino migliore. Rath non sapeva per quale delle due cose lo invidiasse e ce l’avesse di più con lui.

    «Quindi», disse Grout, «di fatto mi sto prendendo delle libertà, stando attento a non lasciare il mio scroto troppo esposto, cosicché al suo ritorno Barrons non abbia motivo di tagliarmelo e metterlo in salamoia. Tecnicamente, quella ragazza è una mia parente; se do l’impressione che sto facendo dei favoritismi o che sto impiegando delle risorse senza una buona ragione, mentre lei magari è soltanto da qualche parte a farsi i fatti suoi, io finisco nei casini, proprio ora che forse il budget a mia disposizione sta per essere allargato, e io per essere promosso. Allo stesso tempo…».

    «’Fanculo il protocollo», disse Rath. Era piacevole mordere e sputare quelle dure consonanti. Ma un attimo, quale promozione? Se Grout voleva eccellere nelle forze dell’ordine, avrebbe dovuto seguire il consiglio che gli aveva dato Rath parecchi anni prima, e andare con gli statali. E non avrebbe dovuto chiamare Rath per chiedergli aiuto. Grout doveva assumersi la responsabilità in prima persona, senza badare alle conseguenze: il protocollo non aveva alcun valore quando si faceva la cosa giusta. Rath era consapevole che se avesse voluto aiutare Grout e la sua carriera, avrebbe dovuto insistere perché se la sbrigasse da solo, per vedere se sarebbe stato temprato o incenerito dalle fiamme di Barrons.

    Ma c’era di mezzo una ragazza scomparsa. E ciò veniva prima di qualsiasi avanzamento di carriera.

    «Potrei servirmi del tuo aiuto», disse Grout. «Anche se la cosa diventerà ufficiale, resterà una faccenda della polizia militare con una priorità molto bassa, a meno che non diventi qualcosa di diverso».

    Qualcosa di diverso.

    Il sole scintillava sulla coltre di neve caduta nella notte, sciogliendola rapidamente e facendo colare dei rivoli d’acqua dal tetto della rimessa su una lamiera arrugginita che se ne stava appoggiata a una parete dai tempi del Pleistocene.

    Rath accese una sigaretta e aspirò. Dal fumo aveva guadagnato solo delle dita tremanti e un naso insensibile. Gli venne voglia di farsi un bagno.

    Lo schermo del suo cellulare s’illuminò per una chiamata in arrivo: Stan Laroche. Rath la ignorò.

    «Dov’è la macchina?», chiese.

    Grout glielo spiegò e Rath infilò la sigaretta nella neve, dove si spense con un sibilo soffocato. Chiuse il telefono e lanciò un’occhiata al cervo morto sul pavimento della rimessa.

    «Non oggi, amico».

    Chiuse con forza la porta per tenere fuori i coyote che di notte si aggiravano lì intorno; aveva lo sfiancante presentimento che ne avrebbe avuto fino a sera inoltrata.

    Giunto nella sua cucina, con un tizzone ardente di dolore piantato dove una volta c’era l’erector spinae, Rath si sfregò le mani col sapone di Marsiglia, mentre l’acqua diventava rosa per il sangue del cervo. Andò a cercare un ghiacciolo nel freezer, per poi ricordarsi di averlo lasciato nel letto dove ora giaceva tutto bagnato; prese quindi una confezione di piselli congelati. Afferrò un bottiglietta di Vicodin dall’armadietto e ingoiò due pillole con una mezza Molson Golden lasciata nel lavello la notte precedente, infine ascoltò il messaggio vocale di Laroche: «Rath. Laroche. Chiamami».

    Laroche. Signor Dipartimento Carcerario; di sicuro chiamava per sottrarsi a qualche bega così che sua moglie potesse pavoneggiarsi in qualche serata di scrapbooking o di karaoke con le amiche. Probabilmente. Rath sospettava che di mezzo ci fosse un uomo. Cancellò il messaggio e lasciò in sospeso Laroche.

    Salito sulla Scout, Rath s’infilò il pacco di piselli dietro la schiena, sospirando di piacere per quel minimo, effimero sollievo. Smanettò con la valvola dell’aria della jeep e mise in moto la vecchia signora. Con 564.356 chilometri al suo attivo, aveva le guarnizioni che perdevano e le molle che recalcitravano, ma continuava a trascinarsi avanti con cocciutaggine. Proprio come Rath.

    Capitolo 3

    Rath guidò in direzione nord sulla strada sterrata, superando l’enorme, incombente superficie di granito del Canaan Monadnock, che cedeva il passo a una bassa pianura agricola con la stessa repentinità con cui le scogliere della baia di Fundy sprofondavano nelle acque dell’Atlantico; un’anomalia geologica in uno Stato di montagne antiche ed erose che sfumavano in gentili colline per poi appiattirsi gradualmente intorno al lago Champlain a ovest e al fiume Connecticut a est.

    Da ragazzo, Rath era affascinato da questa particolarità, e passava notti intere nascosto sotto le coperte, mentre sua sorella dormiva nel letto accanto, rapito da libri sulla tettonica delle placche, i vulcani e il magma terrestre. Nel 1862, l’aratro di un contadino aveva dissotterrato dei fanoni di balena nei campi circostanti; undicimila anni prima che l’uomo più famoso di sempre risorgesse, i ghiacciai si erano sciolti e l’Atlantico era avanzato creando un oceano paratropicale che per tremila anni aveva bagnato il territorio tra il Saint Lawrence a nord e Ottawa a ovest. Di qui i fanoni. In quegli anni giovanili, Rath era stato ossessionato dalla violenza della natura e da come essa modellasse il mondo fisico. Una volta cresciuto, la sua attenzione si era spostata dalla violenza della natura alla natura della violenza, e ai modi in cui fermarla.

    Svoltò a nord verso il Canada sulla Statale 15, accendendosi una sigaretta e pensando a quella ragazza scomparsa.

    Di fronte a lui il fogliame sulle montagne divampava della bellezza del tardo autunno, un’assoluta meraviglia che la gente veniva a vedere da tutto il mondo a bordo dei pullman Peter Pan.

    I turisti regionali, quelli che schizzavano sull’Interstatale 89 per sfuggire da Boston a bordo delle

    BMW

    , che veleggiavano fin dal Connecticut verso nord sulle Volvo Cross Country lungo l’Interstatale 91, o che colavano a sud da Montreal sulle Jaguar

    XJ

    , si sentivano cullati da quell’idillio bucolico, dalle fattorie punteggiate di mucche bianche e nere, dai capanni nascosti ordinatamente tra le foreste d’acero, dagli empori dipinti in rosso-fienile per richiamare l’originale pigmento del

    XIX

    secolo prodotto dalla ruggine.

    Non appena i visitatori entravano nel territorio in cui i cartelloni pubblicitari erano banditi per non offendere la bellezza della natura, si sistemavano sui loro sedili in pelle riscaldati, pervasi da una serenità rockwelliana e liberi dalle grigie fatiche della vita urbana. Abbassavano i finestrini per godersi l’aria frizzante di montagna, subito rinfrancati e inebriati da quello scenario e da una fitta di nostalgia per un passato che non avevano mai vissuto ma che tuttavia potevano assaporare. Qui, l’aria era più dolce. Qui si sentivano vivi. Al sicuro.

    Al sicuro. Rath sbuffò nel sistemarsi la confezione di piselli scongelati dietro la schiena. Da nessuna parte si era al sicuro. Nessuno lo era. La violenza s’infiltrava qui come in ogni altra parte del mondo, perlopiù inflitta da persone note. Intimi, familiari, conoscenze segrete.

    Si era sempre chiesto perché nelle zone rurali la gente, intervistata dopo qualche fatto efferato, dicesse: «Non credevo che qui potesse accadere una cosa del genere». Come se la violenza si preoccupasse di non superare certi prestabiliti confini geografici.

    Rath stava guidando lungo un tratto di strada che ogni anno compariva nella lista delle 10 migliori rotte per il foliage d’autunno del «New York Times», ma che gli abitanti del posto conoscevano come la Strada dell’Assassinio: il tratto in cui Gabe Hoyt aveva ucciso suo cugino. I due uomini stavano litigando per una donna a bordo del camion di Hoyt quando questo era andato fuori strada. Mentre suo cugino si allontanava barcollando, l’altro gli aveva sparato in testa con una calibro .45 che teneva nel cruscotto. In preda al panico, Hoyt aveva poi schiacciato il cranio del cugino con le ruote del camion, credendo di camuffare così le prove. Una buona strategia, per un bifolco ubriaco. Il sangue macchiava ancora il manto stradale, una chiazza scura simile a quella lasciata da un cervo travolto da un tir per il trasporto di legname.

    Rath scosse la sigaretta sul posacenere della Scout.

    L’anno prima c’era stata l’irruzione nella casa di una coppia di professori della Vermont Law School, i quali erano stati legati, torturati con una fiamma ossidrica e seviziati con l’attizzatoio che avevano appena finito di usare per ravvivare il camino natalizio. Gli assassini quindicenni avevano ripreso il crimine con i loro cellulari. Nessuno dei ragazzi aveva mai fatto niente o avuto trascorsi violenti. Avevano semplicemente saltato la scuola per capriccio e mentre gironzolavano per strada si erano messi in testa che sarebbe stato pazzesco uccidere qualcuno. E così, toc toc.

    Com’è possibile spiegare atti del genere? Con quale parola descriverli se non con malvagità?

    Rath aspirò la sigaretta. Il tabacco sfrigolò.

    Poi ovviamente c’erano i Pritchard, massacrati il 3 maggio 1995, un lunedì; un delitto divenuto famoso per via della bambina.

    Laura Pritchard era rincasata dal mercato alle 16:30, aveva messo a dormire la figlia al piano di sopra e stava preparando la cena per il compleanno di suo fratello minore quando qualcuno aveva suonato alla porta. Avrebbe dovuto incontrarsi con il fratello al mercato agricolo, ma lui, come al solito, non si era presentato. Come al solito, era impegnato con una donna. Nessun rispetto per nessuno tranne che per se stesso. Così la sorella era andata ad aprire certa che fosse lui.

    Ma non era lui. Era l’uomo che una volta aveva tagliato il prato di Laura. Un Signor Aggiustatutto che se ne andava in giro con un camion mezzo scassato pieno di attrezzi elettrici e che sulla porta di casa aveva appeso un cartello con su scritto

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    . Ned Preacher. Anche se non fu questo il nome che usò quella sera.

    Laura dev’essere rimasta sorpresa nel vederlo. Non solo perché non si trattava di suo fratello, ma anche perché sedici mesi prima Ned aveva lasciato la città, dimenticando un assegno a credito di centocinquanta dollari. Forse lei aveva pensato che alla fine Preacher fosse tornato per riscuoterlo.

    Rath era giunto per primo sulla scena del delitto, e in tutti quegli anni si era fatto mille fantasie su quanto era accaduto su quella soglia. Aveva trovato la porta di casa aperta e un lago di sangue che bagnava la moquette, oltre a grumi e schizzi sparsi sulle pareti come in una specie di macabro Pollock.

    Il corpo di Laura giaceva ai piedi delle scale in una posa indecorosa: le gambe puntate in modo anormale sotto il torso, la faccia sfregiata rivolta di lato quasi per vergogna. La soffice moquette, un tempo candida come neve fresca, era così intrisa di sangue che faceva un rumore appiccicaticcio sotto le scarpe. La donna aveva il collo spezzato ed era stata rudemente violentata con una serie di oggetti diversi dal membro maschile, sebbene fosse stato usato anche quello.

    Rath ebbe un brivido d’orrore, la pelle fredda e sudaticcia.

    A ucciderla era stato il collo spezzato, ma sarebbe lo stesso morta dissanguata nel giro di pochi secondi per la lama che aveva reciso la vena cava superiore, impedendo al sangue deossigenato di fluire dal cervello all’atrio destro.

    Il corpo di Daniel Pritchard era stato adagiato sul petto di sua moglie in modo tale che sembrava volesse proteggerla anche nella morte: una scena tratta da un perverso Romeo e Giulietta, dove i due attori erano stati annientati dagli oscuri impulsi di un terzo personaggio.

    Daniel era stato pugnalato mentre stava entrando in casa. Nascosto dietro la porta, Preacher aveva affondato il coltello tra la terza e la quarta costola, fendendo il lobo caudato del fegato e l’arteria epatica. Presentava quattro ferite da difesa sul palmo destro, con un lembo di pelle che penzolava dal pollice, e altre due ferite sulla nuca, che finivano entrambe sulla giugulare esterna posteriore tra lo splenio e il trapezio. La morte era sopraggiunta per una fluviale perdita di sangue.

    Ancora adesso quelle immagini proiettavano un’ombra sull’anima di Rath e gli lasciavano un sapore metallico e amarognolo sulla lingua. Ancora adesso cercava di scrollarsi di dosso la tristezza che gli stringeva il cuore in una morsa atroce e spietata.

    In piedi di fronte ai due cadaveri, il vuoto di un minaccioso, raccapricciante silenzio aveva di colpo assalito Rath. Poi, debolmente, un lamento quasi impercettibile, simile al suono di un dito bagnato sull’orlo di un bicchiere di cristallo, iniziò a perforargli il cervello.

    La bambina.

    Era saltato sopra ai corpi, scivolando sul sangue, senza curarsi di inquinare le prove, ed era schizzato sulle scale per poi avventarsi nel corridoio e spalancare la porta della stanza matrimoniale.

    Si era scapicollato sul lettino.

    E lì giaceva la piccola, le braccia e le gambe minute che si muovevano spasmodiche, come se il suo corpicino stesse andando a fuoco, la bocca aperta che emanava un sibilo sordo dal fondo della gola, come quello dell’aria che esce dal foro di un palloncino.

    Rath aveva afferrato le sbarre del lettino con una forza tale da creparle. Al piano di sotto giaceva la madre della piccola, stuprata e assassinata da un uomo che con tutta evidenza non era nuovo alla violenza e all’omicidio. Laura Pritchard. Amabile moglie. Madre devota. Sorella maggiore di un uomo solitario la cui presenza avrebbe impedito il crimine se fosse stato puntuale come promesso; ma, come al solito, non era riuscito a esserlo, proprio come il loro vecchio. L’unico fratello di Laura, il fratello minore.

    Frank Rath.

    Rath tremò: quel giorno era presente e strisciava dentro di lui adesso come allora. Niente aveva attenuato il suo senso di colpa o di perdita. Nemmeno l’amore profondo che provava per quella bambina.

    Rachel.

    Nel momento in cui aveva sollevato Rachel dal lettino, Rath aveva avvertito un improvviso mutamento dentro di sé, uno sconvolgimento permanente, come lo scivolare di una placca della litosfera terrestre sotto un’altra; la sua egoistica vita passata si era eclissata sotto un’altruistica vita futura, uno squarcio profondo lo aveva percorso, alterando il suo paesaggio interiore. Una nipote si era trasformata in una figlia per mezzo di un crudele atto di violenza.

    Per i sei mesi successivi all’omicidio, ogni notte Rath aveva tenuto il lettino di Rachel accanto a sé, giacendo insonne e ascoltando il suo respiro affannoso, i singulti e i piagnucolii. Si era allarmato nel sentirla troppo calma, l’aveva scossa lievemente per assicurarsi che fosse viva, ed era stato pervaso di sollievo nel vederla di nuovo agitarsi sotto le coperte. L’aveva sollevata e stretta a sé quando era scoppiata nel pianto più disperato che avesse mai udito, e il cuoricino della piccola aveva battuto forte quando lui le aveva promesso di proteggerla. Pensava: Se riusciamo a superare questa fase, le febbri da cavallo, il rischio di morte in culla e altre strane malattie, tu starai bene, e io non dovrò mai più preoccuparmi così tanto.

    Ma il pericolo si affacciava ovunque nella vita di una ragazza, e l’angoscia aveva messo radici nel cuore di Rath, germogliando selvaggia e senza freni. Quando Rachel era cresciuta, anche la preoccupazione di Rath era cresciuta, e lui aveva vigilato su ogni uomo solitario che vedeva starsene con le mani infilate nelle tasche dietro la recinzione del parco giochi. In pubblico, Rath non aveva mai smesso di tenere Rachel per mano, con forza, con un amore feroce e animalesco.

    Nel caso qualcuno avesse provato a farle qualcosa.

    Capitolo 4

    La Monte Carlo dell’89 color marrone metallizzato della ragazza scomparsa era parcheggiata in una strana posizione. Il bagagliaio era accostato alla parete di un fienile fatiscente, e l’auto era così vicino alla carreggiata che il suo muso sporgeva sul ciglio della strada.

    Rath era in piedi lì sul margine a studiare la scena con Grout.

    Un tir li superò ululando con un carico di tronchi di cedro, mugghiando con il clacson e sollevando una ventata che andò a scompigliare il ciuffo di capelli neri di Rath.

    Rath sputò un grumo di sabbia alzato dalla strada e si tirò su il bavero del giubbotto di lana Johnson.

    Grout si soffiò il naso dentro un fazzoletto rosso. «La Monte Carlo è intestata a Mandy Wilks, la nostra ragazza», disse.

    Rath sapeva che Grout non avrebbe voluto chiedere aiuto. Erano amici, e tiravano a freccette insieme, e Grout rispettava Rath. E tuttavia, nessun giovane uomo era felice di chiedere aiuto. Soprattutto quando c’era di mezzo la carriera.

    «Sua madre ha segnalato la scomparsa questa mattina, dopo aver ricevuto una chiamata riguardante la macchina». Grout diede un’occhiata al foglio che teneva in mano. «Sedici anni», disse. «Vista l’ultima volta giovedì sera verso le undici».

    «Dove?», chiese Rath.

    «Dove lavava i piatti. Al Lost Mountain Inn».

    «Strano».

    «Cosa?»

    «Che lavasse i piatti. È strano per una ragazza», disse Rath. «Io facevo il lavapiatti da giovane. Le ragazze lavoravano sempre in sala».

    «Le cose cambiano», fece Grout.

    «Alcune no. Come le ragazze scomparse».

    «Potrebbe essersene andata di sua volontà con un amico», disse Grout, poco convinto. Era un’odiosa costante della condizione umana: ovunque ci fossero delle ragazze, qualcuna sarebbe scomparsa, strappata come un filo tirato dal tessuto della vita quotidiana e gettata nel lurido incubo messo in piedi da qualcun altro. Nei film la suspense s’incentrava sulla finestra di quarantott’ore durante la quale i poliziotti dovevano ritrovare la ragazza viva, come se le ragazze rapite avessero una data di uccisione prestabilita. Ma la realtà era ancora più dura: nove volte su dieci, una ragazza scomparsa contro la sua volontà veniva uccisa nell’arco di tre ore. Di solito dopo essere stata stuprata.

    «Nessuno ha toccato niente?», domandò Rath.

    «Io no», rispose Grout.

    Rath si strofinò la mascella, le dita ancora rosa per il sangue del cervo. «Perché è parcheggiata così?», mormorò.

    La neve si era sciolta. Rath controllò il terreno e si avvicinò all’auto con i movimenti accorti e precisi di un soldato nel bel mezzo di un campo minato.

    «Non ci sono segni di altre macchine», disse Grout. «Nessuna impronta di pneumatici. La neve è andata, ma il freddo intenso delle ultime notti ha gelato il terreno in maniera piuttosto uniforme».

    «L’altra macchina è rimasta sulla strada», disse Rath.

    «Se c’era un’altra macchina».

    «C’era». Rath guardò il lungo, deserto tratto di strada verso nord che dopo meno di due chilometri portava in Canada, poi si rivolse a sud, dove la strada era ugualmente lunga e deserta. «A meno che non pensiamo che Mandy sia uscita dalla macchina e abbia cominciato a camminare, presa dalla voglia di farsi una via di campagna nel cuore della notte con meno dieci gradi. Non c’è molta speranza di trovare un’impronta».

    Si fece più vicino all’auto, osservando il terreno. Cercare era come avere fame senza sapere cosa voler mangiare. Dovevi aprire il frigorifero e sbirciarvi dentro finché qualcosa non ti faceva venire l’acquolina: un pezzo di torta al cioccolato, una fetta di salamino piccante. Quando vi posavi lo sguardo sopra, sapevi che era proprio quella cosa che stavi cercando, ma dovevi vederla per saperlo. Sua

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