Nella mente dei criminali nazisti
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L’Europa era ancora coperta dalle ceneri del secondo conflitto mondiale, quando si aprì il processo di Norimberga, un procedimento internazionale per giudicare e perseguire i crimini di guerra. Uno psichiatra, Douglas Kelley, e uno psicologo, Gustave Gilbert, cominciarono allora a indagare la psicologia dei capi nazisti. Li sottoposero a lunghe interviste, eseguirono test per valutare il loro quoziente d’intelligenza e la loro personalità. Si trattò del primo studio sistematico su leader che avevano orchestrato uccisioni di massa. Prima del processo si pensava che i gerarchi e gli ufficiali nazisti fossero dei folli sanguinari. Ma i colloqui e i test rivelarono una realtà più complessa. I risultati furono così sconcertanti che una parte dei dati rimase nascosta per decenni. E la loro stessa interpretazione fu oggetto di accese discussioni. Secondo Gilbert la malvagità dei criminali nazisti derivava dalla loro psicologia corrotta. Kelley li considerava invece moralmente imperfetti, uomini comuni, prodotto del loro ambiente. Chi dei due aveva ragione? Basandosi sulla sua decennale esperienza e sugli incredibili progressi fatti dalla psichiatria, dalla psicologia e dalle neuroscienze, Joel E. Dimsdale riprende in mano quei risultati ed esamina nel dettaglio quattro criminali di guerra: Robert Ley, Hermann Göring, Julius Streicher e Rudolf Hess. E attraverso strumenti diagnostici sempre più precisi, scopre un notevole spettro di patologie. Nella mente dei criminali nazisti è un viaggio complesso e inquietante per dare un senso al male più estremo.
«In questo affascinante e coinvolgente viaggio nelle menti depravate di alcuni dei capi nazisti, uno scienziato che ha studiato a lungo l’Olocausto esplora la natura del male. Non si riesce a smettere di leggerlo.»
«Un racconto straziante e insieme una detective story, che pone questa domanda: i criminali di guerra nazisti erano come le altre persone, o fondamentalmente diversi? Avvincente e ben raccontato, riesamina un periodo storico che non dobbiamo mai dimenticare.»
Un viaggio inquietante per dare un senso al male più estremo
Joel E. Dimsdale
È professore emerito e svolge la sua attività di ricerca presso il Dipartimento di Psichiatria dell’università della California, a San Diego. Per i risultati delle sue ricerche è stato invitato a parlare al 70° anniversario del processo di Norimberga.
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Anteprima del libro
Nella mente dei criminali nazisti - Joel E. Dimsdale
417
Titolo originale: Anatomy of Malice
Copyright © 2016 by Yale University.
All rights reserved.
Traduzione dall’inglese di Giulio Lupieri
Prima edizione ebook: settembre 2016
© 2016 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-9853-1
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Il Paragrafo, www.paragrafo.it
Joel E. Dimsdale
Nella mente
dei criminali nazisti
La vera storia degli psicologi che hanno
intervistato i criminali di Norimberga
Newton Compton editori
OMINO.jpgPrefazione
Le origini in una terra di letame e di sangue
Quando il vento soffia da Est, nelle strade di Sioux City, in Iowa, aleggia un lieve odore di letame e di sangue. Non è poi così sgradevole e ricorda la fertilità della zona. Negli anni Quaranta e Cinquanta, questo era uno dei luoghi più sicuri in cui crescere protetti della vastità e della solidità dell’America, circondati da migliaia di chilometri quadrati di prateria e dalle Grandi pianure, e lontani da confini minacciosi.
Eppure anche qui c’erano delle ombre. William Faulkner disse: «Il passato non muore mai. E non è neanche passato». Sioux City diventò la meta di molti sopravvissuti dei campi di concentramento, attratti dalle sue dolci colline digradanti, dalla fertilità della terra e dall’isolamento da un mondo che sapevano non essere per nulla sicuro. Mio fratello se ne accorse la prima volta a dieci anni quando, consegnando i giornali nel quartiere, scorse un tatuaggio sull’avambraccio di un vicino. L’uomo sembrava imbarazzato da quella rivelazione e mio fratello non sapeva cosa significasse. Mia madre, che non era mai a corto di parole, gli diede una confusa e sbrigativa spiegazione.
Dovevo avere sei o sette anni quando scoprii quali ombre incombevano sui nostri vicini. Fu durante una passeggiata dopo cena con mio padre, che era un medico locale. Era marzo o aprile, la terra del parco era soffice dopo il disgelo e odorava di fresco. Era il giorno di Pesach, la Pasqua ebraica, e mio padre sembrava scosso dopo aver fatto una visita a un paziente affetto da una grave forma di angina. Questo non bastava, però, a spiegare il turbamento di mio padre, che si prendeva cura di tutti ed era abituato all’idea della morte. Quello che l’aveva colpito in quel paziente era stata la coincidenza della malattia. L’uomo era un sopravvissuto ai campi di concentramento che il giorno di Pesach – in un’altra terra di colline, sangue e letame – aveva assistito al massacro di tutta la sua famiglia. La sua religione, tuttavia, gli diceva di gioire per la propria liberazione nel giorno di Pesach.
All’epoca, prima della cattura di Adolf Eichmann, la gente preferiva non sentir parlare dell’Olocausto. In Death in Life: Survivors of Hiroshima (1968), Robert Jay Lifton ha osservato che i sopravvissuti a un forte trauma suscitano la paura del contagio in coloro che li incontrano in seguito. Per me era comunque difficile ignorare l’Olocausto perché, nelle piccole città di provincia, si viene inevitabilmente a conoscenza di molti segreti e fantasmi.
Da ragazzino non davo granché peso al male. La televisione era ancora una novità, i programmi pochi e i notiziari duravano soltanto quindici minuti. Sono cresciuto con un’idea del male mutuata dai fumetti: Joker, Lex Luthor, il Dottor Destino. Un mondo in cui il male aveva contorni precisi, era l’altro
, il demoniaco, completamente diverso dai bravi cittadini e dalle strisce a fumetti. Non è strano quindi che anche per me – come per la maggior parte della gente negli anni Quaranta e Cinquanta – i nazisti che avevano concepito e gestito i campi di concentramento erano dei depravati totalmente estranei alla natura umana.
Il boia nel mio studio
Passarono gli anni. Dopo il college partecipai a una campagna archeologica e scavai molto al di sotto della superficie del XX secolo, dissotterrando strati di ceneri che testimoniavano altre violenze avvenute millenni prima. Gli studi sociologici mi insegnarono come le forze sociali modellano le nostre vite, e alla Scuola di medicina imparai a curare la gente.
Con ogni probabilità, mi sarei dimenticato dell’Olocausto se un’amica dei miei genitori non mi avesse invitato a cena per festeggiare l’inizio dei miei studi in medicina. Mi portò in un vecchio ristorante a gestione familiare di Sioux City, e davanti a una classica cena del Midwest – per iniziare caramel rolls*, poi polpettone, patate al forno, fagiolini stracotti e caffè Folgers – mi raccontò la sua vita nei campi di concentramento. Disse che non ne aveva mai parlato a nessuno, ma stava invecchiando e voleva che qualcuno lo sapesse. Anche lei aveva perso tutta la famiglia durante la guerra, ma in Iowa si era rifatta una nuova vita, che sembrava assolutamente normale, non fosse stato per gli incubi che continuavano a ossessionarla ogni notte. Parlammo per ore, e i rinomati caramel rolls del ristorante non furono facili da digerire, quella volta.
L’interesse per la storia e le dinamiche sociali era stata alla base della mia scelta di laurearmi in psichiatria, e nell’esercizio della mia professione cominciai a studiare i reduci dei lager per apprendere come avevano affrontato la prigionia e la sopravvivenza. Nel 1974 pubblicai un articolo sul comportamento dei superstiti ai campi, che attrasse l’attenzione dei media locali, dandomi l’opportunità di fare un incontro che avrebbe orientato mie ricerche successive.
Accadde nel mio studio, la mansarda di un edificio isolato del Massachusetts General Hospital. Qualcuno bussò forte alla porta, facendomi trasalire perché non aspettavo visite e nessuno saliva mai fin lassù. Un uomo tarchiato entrò nella stanza e dichiarò, a mo’ di preambolo: «Sono il boia e sono venuto per lei». Si sedette sul divano, indicando la custodia di un fucile, e io mormorai una preghiera. Quando aprì la custodia, mi accorsi che dentro non c’era un’arma ma pile di documenti della seconda guerra mondiale. «Ero il boia di Norimberga, come dimostrano queste carte», disse. Proseguì spiegandomi che era fiero del suo lavoro, e che, nonostante l’avesse svolto con professionalità, gli era piaciuto impiccare quei criminali. «Erano feccia, Dimsdale. Dovrebbe studiare loro, non i sopravvissuti».
Incontri fortuiti
Un incontro simile non può non lasciare il segno, e quelle parole mi rimasero impresse nella mente. Poi, a una cena di gala a Gainesville, in Florida, ci fu un altro incontro fortuito, questa volta con la celebre esperta dei test di Rorschach, Molly Harrower, che mi parlò di alcuni esami condotti sui criminali di guerra a Norimberga e dei misteri e delle controversie che ancora oggi circondano l’argomento.
Questo libro racconta una storia oscura che si dipana dalla Germania alla Svizzera e, stranamente, dal New Jersey alla California. Ho aspettato a lungo prima di scriverlo. Era troppo cupo, ma la storia continuava a ossessionarmi, e con l’avanzare degli anni non potevo più eluderla. Queste pagine ricostruiscono l’eredità di Norimberga e quello che ho appreso su ciò che definisco anatomia del male
.
* Sfogliatine caramellate spesso guarnite con sciroppo e frutta secca. (n.d.t.)
I protagonisti
Burton C. Andrus, comandante del campo di Ashcan e direttore del carcere di Norimberga
Gustave Gilbert, psicologo americano
Hermann Göring, Reichsmarschall, capo della Luftwaffe
Molly Harrower, psicologa americana, esperta del test di Rorschach
Rudolf Hess, vice Führer
Robert Jackson, giudice della Corte suprema e procuratore capo degli Stati Uniti a Norimberga
Douglas Kelley, psichiatra americano
Robert Ley, capo del DAF, il Fronte tedesco del lavoro
Hermann Rorschach, psichiatra svizzero
Julius Streicher, editore di «Der Stürmer»
Introduzione
«È necessario a chi dispone una repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini rei, e che li abbiano sempre a usare la malignità dello animo loro, qualunque volta ne abbiano libera occasione».
Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio
«L’unica cosa necessaria al trionfo del male è che gli uomini buoni non facciano nulla».
Frase attribuita a Edmund Burke
Come si spiega il male?
Alla fine della seconda guerra mondiale, gli Alleati avevano molte questioni da regolare con i capi nazisti che erano stati catturati. La loro punizione era una parte cruciale del processo di denazificazione della Germania. Gli americani speravano, inoltre, che i processi per crimini di guerra avrebbero dissuaso i futuri leader dal commettere altri genocidi.
Oltre a questi obiettivi, c’era il bisogno vitale di comprendere che tipo di uomini potevano aver trascinato la Germania in quell’abominio. Paradossalmente, molti gerachi erano persone istruite, radicate nella tradizione culturale occidentale. Come avevano potuto farlo? Questa volontà di capire
le loro motivazioni non era un obiettivo esplicito dei processi di Norimberga, ma un importante movente. Non si voleva tanto stabilire chi l’aveva fatto, piuttosto il come e il perché. L’assunto era che gli imputati fossero bestie, mostri, qualcosa di completamente diverso
, e che ciò potesse essere dimostrato e confermato da un’attenta indagine. La stampa popolare era piena di teorie, gli storici e i sociologi si precipitavano a offrire le loro spiegazioni. Altre voci, più pacate, sostenevano invece che il male fosse insito nella natura dell’uomo. E poi c’erano gli psichiatri, i neurologi e gli psicologi, che analizzavano il comportamento nazista in un contesto differente. Questi ultimi cercarono di acquisire dati a sostegno delle proprie tesi. Secondo una scuola di pensiero, «era il frutto di menti malate». Altri sostenevano che si trattasse del «sintomo di un grave disordine psichico». Per altri ancora, erano soltanto «persone normali che avevano fatto scelte sbagliate».
Come avevano potuto commettere quei crimini? Soffrivano di qualche disturbo psichiatrico? Erano pazzi criminali, psicopatici, sadici? Molti studiosi hanno interpretato il comportamento dei nazisti alla luce delle loro idee sulla natura della società e del comportamento individuale. Alcuni hanno offerto brillanti contributi, scavando nel ricco materiale d’archivio. Pochi, però, hanno intervistato i diretti responsabili di quei crimini: la maggior parte degli studiosi si è limitata a interrogare i loro sottoposti, che scaricavano le proprie colpe sui leader del Terzo Reich¹.
Quando cerchiamo di comprendere il comportamento dei nazisti, ci troviamo quindi di fronte a un angolo morto: le personalità dei leader. Abbiamo soltanto dichiarazioni dei subordinati, che affermarono di essere stati delle mere rotelle nell’ingranaggio dello Stato². Naturalmente, siamo tutti rotelle al servizio di varie forze, ma alcuni di noi azionano ruote più grandi. Se c’è un agente
(ovvero un responsabile), va cercato ai livelli più alti del governo: ovvero gli uomini processati a Norimberga.
In qualità di psichiatra sono abituato ad ascoltare, diagnosticare e curare pazienti, e ho svolto il mio mestiere nei contesti più disparati: in un’unità di terapia intensiva, circondato da macchine respiratorie, in prigioni che sembravano ideate da Franz Kafka, in cliniche psichiatriche per persone facoltose, con i pavoni che zampettavano lungo vialetti di ghiaia. Ho lavorato in fatiscenti ospedali pubblici che si reggevano in piedi per miracolo, ho intervistato i pazienti in ambulatori di pronto soccorso dove le urla e le sirene coprivano le loro voci, e ovunque prestassi servizio c’erano delle cartelle cliniche. I medici sono degli storici: ci lasciamo sempre alle spalle degli appunti, non solo per aiutare la nostra fallace memoria, ma anche per facilitare l’opera dei colleghi che ci seguiranno. Esiste una specifica arte di scrivere e leggere questi appunti, invariabilmente telegrafici ma con una grammatica e una logica recondite. Quando scorro le note mediche e psichiatriche di Norimberga, le filtro attraverso la mia esperienza clinica e le considero come una conversazione con i miei colleghi del passato. Cosa stanno cercando di dirmi sul paziente? Cosa è rimasto taciuto?
I medici di Norimberga lasciarono annotazioni criptiche e contraddittorie sui leader nazisti. Ho cercato di decifrare le loro osservazioni e di esaminarle di nuovo nell’ottica contemporanea.
L’accesso alle cartelle psichiatriche dei capi di governo è strettamente riservato. C’è un’unica, enorme eccezione, ma i ricercatori l’hanno in gran parte trascurata. Lo psichiatra Douglas Kelley e lo psicologo Gustave Gilbert furono dislocati nella prigione di Norimberga per verificare se gli imputati erano in grado di affrontare il processo e per sostenere il loro morale. In veste non ufficiale, inoltre, dovevano fungere da consulenti del direttore della prigione e della pubblica accusa. Ma i due uomini si erano prefissi anche un altro, audace obiettivo: usare i test di Rorschach per indagare la natura della malvagità dei leader nazisti. Kelley e Gilbert trascorsero molte ore (ottanta per ogni imputato, dichiarò il primo) intervistando i detenuti nelle loro anguste celle, sottoponendoli a test psicologici e osservando il loro comportamento durante il processo. In breve, ebbero una straordinaria opportunità di studiare intensamente i capi della Germania nazista. Questo libro racconta che cosa i due hanno scoperto sul conto di quattro imputati la cui malvagità affondava le sue radici in terreni diversi: Robert Ley, Hermann Göring, Julius Streicher e Rudolf Hess.
Queste osservazioni non furono facili per Kelley e Gilbert, ed entrambi uscirono segnati da quell’incontro ravvicinato con il male. Studiarlo da lontano è ben diverso dallo stare seduti per giorni e giorni su una stretta branda accanto a quei criminali, guardandoli, ascoltandoli, sentendo il loro odore. Lo stress di questa inquietante esperienza minò la collaborazione di Kelley e Gilbert ed esasperò le loro differenze personali e gelosie, scatenando intrighi, cause legali e recriminazioni. Ma le loro scoperte e le loro controversie hanno gettato le basi per la nostra attuale comprensione dell’anatomia del male. Gli studiosi contemporanei, ossessionati dai fantasmi di Norimberga, hanno pubblicato alcuni tra i più importanti studi su questo sgradevole argomento.
Per raccontare la mia storia mi sono affidato a vari tipi di informazioni. Oltre ai numerosi libri su tale ambito, ho attinto anche ad altre fonti³. Gli ampi servizi giornalistici testimoniano come la cultura popolare considerasse i criminali di Norimberga. In aggiunta, quasi tutti i partecipanti al processo scrissero resoconti dettagliati. Alcune di queste testimonianze sono state pubblicate, ma altre furono archiviate o conservate in collezioni speciali. Le informazioni raccolte in questi archivi costituiscono il cuore del libro⁴. Settant’anni dopo, le ombre di Norimberga non si sono dissolte e i processi ci offrono una lente per vedere i molteplici esempi del male contemporaneo.
Voci discordi
Quando scoprii la profonda discordanza tra tutte queste fonti, rimasi francamente sorpreso. Ero ingenuo. Ho assistito a convegni sull’Olocausto che sono degenerati in violente discussioni e accuse reciproche, con i partecipanti che minacciavano di prendersi a sediate in testa. Le voci discordi sono la regola, non l’eccezione, in ogni analisi storica, ma quando si parla di omicidi di massa, aumentano esponenzialmente⁵.
La memoria, anche nelle migliori circostanze, è fragile e lacunosa, distorta e menzognera. Tendiamo a esaltare il nostro ego e a cercare giustificazioni, a volte consapevolmente e altre no. Queste difficoltà sono ancora più evidenti nel caso dei diari e delle autobiografie dei nazisti⁶. La scrittrice Rose Macauley tratteggia chiaramente il problema: «Dobbiamo andare a tentoni nella nebbia […] e non possiamo mai fermarci e dire di aver trovato la verità […] perché per scoprirla […] bisogna compiere un lungo viaggio in una fitta giungla»⁷.
Questa storia è un groviglio, complicato dalla necessità di interpretare un linguaggio che è cambiato nel corso del tempo. Quando leggiamo una cartella clinica o una valutazione psichiatrica di settant’anni fa, le parole hanno una connotazione diversa. Come spiegherò nel capitolo 2, non sappiamo nemmeno come interpretare i problemi di cuore di Göring in prigione perché all’epoca l’espressione attacco di cuore
aveva un significato molto più vago. Questa difficoltà a comprendere le valutazioni cliniche del passato è ancora più evidente nel campo della psichiatria. Il tentativo di sistematizzare la nomenclatura diagnostica è relativamente recente; la prima edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) fu pubblicata nel 1952. Nel 1945 il volume non esisteva ancora e non c’era un metodo riconosciuto per comprendere, descrivere o curare i problemi psichiatrici. Interpretare le valutazioni psichiatriche dell’epoca è pertanto un compito arduo. In quegli anni, anche l’esecuzione e la lettura dei test di Rorschach non erano state codificate⁸. È quindi difficile comprendere la terminologia e le deduzioni degli psicologi di allora. Le parole non hanno, semplicemente, lo stesso significato.
La struttura del libro
Quando avevo nove anni, mio padre mi regalò il mio primo microscopio. Imparai così che il modo migliore per guardare un vetrino è esaminarlo ripetutamente, aumentando e diminuendo l’ingrandimento. Qualche anno più tardi mi regalarono il mio primo microscopio stereoscopico, che mi permetteva di vedere la stessa immagine da angolazioni leggermente diverse. All’improvviso, potevo percepire la profondità e la prospettiva.
Ho trascorso anni studiando i criminali di guerra da angolazioni diverse, da un ingrandimento minimo (le loro personalità pubbliche) a uno massimo (i colloqui con gli psichiatri). Li abbiamo visti da una prospettiva leggermente ingrandita durante la detenzione e nell’aula di Norimberga, ma abbiamo anche una visione ravvicinata che emerge dagli appunti presi dagli psichiatri e dagli psicologi di Norimberga durante i lunghi colloqui individuali e dai resoconti dei test psicologici ai quali gli imputati furono sottoposti.
Questo libro è suddiviso in quattro sezioni che vanno avanti e indietro nel tempo. La prima parte fornisce il contesto storico, gli antefatti di Norimberga, illustrando come il genocidio nazista abbia pervaso le nostre idee sulla natura del male. La seconda racconta gli eventi di Norimberga, sia nell’aula pubblica del processo sia nel privato delle oscure celle degli imputati. La terza parte focalizza l’attenzione su quattro criminali di guerra che esemplificano radici del male decisamente diverse. Nel primo processo di Norimberga furono giudicate ventidue persone. Ne ho selezionate quattro perché rappresentavano altrettante sfide diagnostiche differenti. Per comprendere le caratteristiche della malvagità dei leader nazisti, ho scelto quattro imputati con responsabilità diverse nella guerra e che si erano comportati in modo decisamente differente a Norimberga. La quarta parte ritorna sulla questione centrale del libro: come possiamo spiegare il male? È in tutti noi, oppure in alcuni individui la capacità di fare del male è maggiore che in altri?
I test psicologici condotti sui criminali di guerra sono rimasti nascosti per anni, a causa di un nefasto intreccio di ambizioni, tradimenti e differenze ideologiche. Questi documenti dimenticati ci consentono di capire come la psichiatria e la psicologia contemporanee interpretano il male – le sue radici sociali, psicologiche, psicopatologiche e neurocomportamentali – e come l’incontro con la malvagità influenzi le nostre idee sull’umanità.
Cercare di capire non significa legittimare o condannare. Chi pensa che i leader nazisti fossero tutti dei mostri aberranti non dovrebbe leggere il libro perché, come spiegano queste pagine, ognuno di loro costituiva un caso a sé. Erano uomini avidi e malvagi, ma profondamente diversi l’uno dall’altro. Il testo illustra la natura della loro malvagità e descrive l’influenza esercitata dal processo sugli stessi investigatori, dimostrando come questa storia abbia influito sulle ricerche di oggi.
È un settore di studio molto esteso e controverso, contrassegnato da attente valutazioni ma anche da insinuazioni e acrimonie. Spero che questo volume guidi il lettore alla «generale vicinanza alla verità storica»⁹.
PRIMA PARTE
La preparazione di Norimberga
Capitolo 1
Come questo genocidio fu diverso da tutto il resto
«Vorrei tutte chiamarle per nome,
ma sottrassero l’elenco, e dove saperli?
Per loro un ampio drappo ho intessuto
di povere parole presso di loro orecchiate».
Anna Achmàtova, Requiem, 1940
«La prima volta mi tremò un po’ la mano mentre sparavo, ma poi mi abituai e alla decima esecuzione presi la mira con calma e sparai con mano ferma a tutte quelle donne e quei bambini. Continuavo a pensare ai miei due figli, che quelle orde avrebbero trattato allo stesso modo, se non dieci volte peggio. […] I neonati volavano in aria e noi gli sparavamo, squarciando i loro corpicini prima che cadessero nella fossa e nell’acqua».
Stralcio di una lettera di un agente di polizia tedesco che descrive ai familiari le esecuzioni degli ebrei in Ucraina, ottobre 1941.
Le terre di sangue d’Europa
Quando ero piccolo, avevo un’idea molto vaga della morte e i grandi numeri erano per me un concetto ancora più astratto. Provenendo da una regione dove i quadrupedi superavano numericamente i bipedi, non capivo cosa significasse milioni di morti
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Avevo anche un concetto del male piuttosto limitato. Ogni domenica pomeriggio andavo all’Uptown Theater e pagavo un quarto di dollaro per vedere un western o un film di mostri. All’epoca i mostri non erano mai umani. Di solito erano grosse bestie minacciose: per esempio, ragni, e chi poteva sapere cosa balenasse nelle loro subdole menti aracnoidee? L’alternativa ai perfidi bestioni erano gli zombie, le cui facoltà intellettive erano visibilmente alterate. Quando crebbi, appresi che i mostri non esistevano soltanto al cinema. Anche nella vita reale c’erano persone consumate dalla rabbia, dalla gelosia e dalla pura cattiveria. La portata dei massacri nelle terre di sangue d’Europa sfugge alla nostra comprensione. Com’è possibile che degli esseri raziocinanti si siano abbandonati a simili crudeltà?
Sono diventato uno psichiatra, non uno storico, ma ascolto ogni giorno le storie dei miei pazienti. Cosa ha motivato le loro azioni? Che hanno fatto delle loro vite? Quali sono state le conseguenze delle loro scelte? Sono queste le domande che ho tacitamente rivolto ai criminali di guerra esaminati nel libro, domande che ci aiutano anche a comprendere più a fondo la natura unica del genocidio nazista¹.
Nel corso del secondo conflitto mondiale, persero la vita quaranta milioni di uomini, donne e bambini europei. Che la gente muoia in guerra è normale – lo scopo dei conflitti è raggiungere i propri obiettivi attraverso la violenza – ma due terzi di queste vittime furono civili². Nonostante simili perdite siano un effetto collaterale di ogni guerra, solitamente si tratta di persone che si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato. A volte, tuttavia, per fini strategici, gli Stati perpetrano genocidi di interi popoli, indistintamente di militari e civili. La maggior parte dei Paesi e delle culture, a un certo punto della propria storia, sono ricorsi a un genocidio, il più delle volte motivato semplicemente dalla sete di sangue. E quando i soldati erano stanchi, smettevano di uccidere. Ma l’Olocausto fu diverso. Si trattò di un genocidio a lungo termine, orchestrato con meticolosa attenzione da una delle nazioni più civilizzate al mondo. E fu anche uno dei più vasti omicidi di massa mai commessi. Nel suo brillante saggio Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin, Timothy Snyder ha sottolineato l’immensa portata di tali massacri: «Nella seconda metà del 1941, i tedeschi fucilarono ogni giorno più ebrei di quanti ne erano stati uccisi nei pogrom durante tutta la storia dell’impero russo»³.
Continuo a domandarmi come sia possibile che una mente umana abbia ideato una simile macchina della morte. E mi chiedo anche se la gente lo rammenta.
Una settimana prima di invadere la Polonia, Adolf Hitler aveva portato