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Non tradirmi mai
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E-book324 pagine4 ore

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Second Chance Series

Bello, bellissimo, romantico, sexy e commovente!

Avery Hartley è la classica brava ragazza ricca che si comporta sempre come gli altri si aspettano che faccia. Quando scopre che il suo ragazzo la tradisce però, perde la testa e gli distrugge la macchina. Viene così condannata a trecento ore di servizi sociali. Seth Hunter è appena uscito di prigione e deve concludere il suo percorso di riabilitazione lavorando come netturbino prima di poter ricominciare da capo. Non chiede granché dalla vita e comunque per adesso la cosa che gli importa di più è proteggere sua sorella dal patrigno, l’uomo che lo ha fatto finire in prigione. Una storia d’amore tra Avery e Seth non è pensabile, sarebbe un disastro totale. Le ragazze come Avery vogliono castelli e cavalli bianchi, e Seth nei panni del principe azzurro non è davvero credibile. E poi è così arrabbiato con il mondo che a volte c’è da aver paura anche solo a stargli vicino. Ma quando Seth si ritrova a passare del tempo con Avery, piano piano comincia a pensare che forse anche lui ha la possibilità di cambiare, di aspirare a qualcosa di diverso da una vita fatta di rabbia e che, addirittura, gli piacerebbe provare a essere felice…

«Seth è il ragazzo da tenere lontano e allo stesso tempo vicinissimo. Ho paura di essermi presa una sbandata... narrativa!»

L.E. Bross

è lo pseudonimo che la scrittrice di romanzi young adult Lee Bross utilizza per la sua produzione new adult. L.E. Bross vive nel Maine con il marito, i figli e molti piccoli animaletti pelosi.
LinguaItaliano
Data di uscita8 set 2016
ISBN9788854198562
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    Anteprima del libro

    Non tradirmi mai - L.E. Bross

    1363

    Titolo originale: Right where you are

    Copyright © 2015 by L.E. Bross

    First published by Pocket Books, a Division of Simon & Schuster, Inc.

    All rights reserved, including the rights to reproduce this book or portion thereof in any form whatsoever

    Traduzione dall’inglese di Elena Paganelli

    Prima edizione ebook: settembre 2016

    © 1989, 2006, 2016 Newton Compton editori s.r.i.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9856-2

    Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    www.newtoncompton.com

    L.E. Bross

    Non tradirmi mai

    Second Chance Series

    Newton Compton editori

    Dedicato a tutti gli inguaribili romantici

    che amano il lieto fine.

    Capitolo 1

    Avery

    Carrie Underwood si è dimenticata di accennare a una cosa: dopo esserti avventata con una mazza da baseball sui fanali del pick-up del tuo ex ragazzo e dopo avergli squarciato tutte e quattro le ruote, vieni arrestata e denunciata per danneggiamento volontario di proprietà privata.

    «Questo patteggiamento è accettato da entrambe le parti?». Attraverso gli occhialini da John Lennon che teneva sulla punta del naso, il giudice guardò di sbieco Grant, quel testa di cazzo del mio ex, e poi me. Per certi versi, mi ricordava Babbo Natale. Be’, se Babbo Natale indossasse una toga nera e distribuisse sentenze anziché giocattoli.

    «Sì, vostro onore». La voce roca di mio padre echeggiò nell’ufficio del giudice.

    «Sì, vostro onore», ripeté l’avvocato di Grant.

    Guardai dritto davanti a me e cercai non apparire mortificata. A dire il vero, mi dispiaceva solo che qualcuno mi avesse ripreso mentre distruggevo il pick-up di Grant e avesse schiaffato il video su YouTube. Di sicuro ero sulla buona strada per la gogna virale. Tre milioni e rotti di visualizzazioni. Mio padre, il procuratore distrettuale Samuel Hartley, aveva provato a far ritirare la denuncia, finché non era venuto a sapere del video dall’avvocato di Grant. Se uno sguardo potesse uccidere, ora mi troverei tre metri sotto terra. Vedete, mio padre stava puntando alla carica di sindaco con un programma politico di tolleranza zero verso il crimine. Non è che potesse cambiare le regole solo perché sua figlia le aveva infrante. Tuttavia, per mettere quanta più distanza possibile tra sé e questo casino, aveva fatto sì che nella denuncia io fossi citata con il cognome da nubile di mia madre, Melrose, anziché Hartley.

    «Molto bene», disse il giudice. Mi guardò e io sostenni il suo sguardo fermo. «Avery Melrose, lei è condannata a svolgere trecento ore di servizi sociali e al pagamento di un risarcimento di quindicimila dollari. Avrà sei mesi a disposizione per completare il lavoro e dovrà pagare l’intera somma del risarcimento entro settantadue ore. Se non rispetterà le condizioni di questo patteggiamento, verrà accusata di oltraggio alla corte. Di conseguenza, sarà arrestata e trascorrerà quel che resta della sua condanna in una prigione di minima sicurezza. Sono stato chiaro?»

    «Sì, signore». Merda. Mio padre non mi aveva avvisata che dovevo esaurire le trecento ore di servizi sociali in sei mesi. Ero all’ultimo anno all’Università del North Carolina, ed ero davvero troppo impegnata per scontare una stupida pena.

    «Come diavolo potrò svolgere il servizio sociale e andare contemporaneamente a lezione?», gridai in faccia a mio padre, non appena fummo fuori dall’ufficio del giudice.

    «Avresti dovuto pensarci prima di avventarti sul pick-up di Grant con una mazza da baseball, Avery. Santo cielo, che diavolo avevi per la testa?».

    Papà infilò i documenti firmati nella ventiquattrore e si avviò all’uscita. Grant mi passò accanto con un sorrisetto in faccia. Stronzo.

    «Avevo per la testa l’immagine del mio ragazzo con il cazzo infilato dentro una zoccola qualunque nel nostro letto». La mia voce echeggiò nel corridoio del tribunale, e diverse teste scattarono nella mia direzione per fissarmi. Mio padre ritornò da me e mi afferrò per un braccio.

    «Vuoi tenere un tono di voce basso? Ti stai comportando come una pezzente».

    Mi trascinò oltre Grant, che ora sembrava un po’ rosso in viso. Gli alzai il dito medio mentre mio padre mi spingeva fuori dalla porta.

    «Non hai dieci anni, Avery. Almeno prova a comportarti come la ragazza perbene che sei stata educata a essere». Mi lasciò andare non appena le porte si chiusero con un rumore sordo. Rimasi in piedi sui gradini del tribunale, con il petto che si alzava e abbassava affannosamente per la rabbia.

    Si comportava come io se stessi facendo i capricci. Avrei voluto pestare i piedi, ma avrei solo dimostrato che aveva ragione. Come si aspettava che avrei reagito trovando Grant nel suo appartamento a letto con una troia da due soldi?

    Il mio ragazzo.

    Che scopava qualcuno che non ero io.

    E che poi provava a dirmi che non era come sembrava.

    Penso che sia stato questo a farmi incazzare di più. Come se avessi frainteso quello che stava succedendo davanti ai miei occhi. Come se pensasse che fossi tanto stupida.

    La mia normale, razionale capacità di giudizio è volata dritta fuori dalla finestra quando ho sentito lui gemere il nome di quella. Sono corsa fuori e ho preso la mazza che Grant teneva accanto alla porta d’ingresso; poi, ho iniziato a colpire la prima cosa che ho visto: il suo pick-up. Nel tempo che Grant ci ha impiegato a infilarsi i pantaloni e uscire di casa, avevo mandato in frantumi tutti i finestrini e i fari, e avevo rigato con le chiavi la vernice nera lucida delle portiere.

    Ci era voluta l’azione congiunta di Grant e del suo coinquilino, Bryan, per levarmi la mazza dalle mani, non prima che colpissi il mio ex perbene sulla spalla che usava per lanciare. Bastardo.

    «Non sono per niente dispiaciuta», dissi a mio padre, alzando il mento. «Non sei tu quello che dice sempre che non si deve permettere a nessuno di prenderci per il culo?».

    Papà ringhiò. «Sai perfettamente che c’è una bella differenza tra non farsi prendere per il culo e causare quindicimila dollari di danni».

    «Non possiamo semplicemente trovare qualcuno che firmi le ore di lavoro al posto mio e lasciarci alle spalle tutta questa storia? Ho degli impegni con la confraternita e un sacco da studiare, non ti puoi seriamente aspettare che io svolga trecento ore di stupido lavoro manuale». Lo guardai, mettendo su il broncio più grande della storia. «Per favore, papino? Non puoi fare qualcosa? Ho commesso un errore».

    A dire il vero, avevo già liquidato la cosa e stavo organizzando il party di benvenuto che la nostra confraternita dava ogni anno. Quest’anno era particolarmente importante, perché mi avevano eletta vicepresidente.

    «...insieme a un gruppo di persone che attualmente si trovano in libertà condizionale».

    Libertà condizionale? Scossi il capo. «Cosa?»

    «Questo è proprio ciò di cui stavo parlando, Avery. Tu non ti rendi conto di che cosa hai fatto. Ti prenderai un semestre di pausa dal college per sistemare questa faccenda. I documenti sono già stati presentati. Trascorrerai trecento ore lavorando fianco a fianco con la squadra che si occupa di lavori pubblici, insieme a un gruppo di persone appena messe in libertà condizionale».

    «Che cazzo, mi stai prendendo in giro?». Il mio tono di voce era di gran lunga troppo alto e stridulo, ma lui non poteva parlare sul serio.

    «Non posso prendermi un semestre di pausa! E che mi dici delle selezioni? Ho degli impegni! E tu davvero ti aspetti che io lavori insieme a dei comuni criminali?».

    Un ringhio gli deformò la bocca. «E adesso che diavolo ti credi di essere, Avery? Questa storia finisce sulla tua fedina penale! Hai ventun anni. Non sei più una bambina. E ho già controllato le schede di ogni singola persona con cui sconterai la pena. Non permetterei mai che fossi in pericolo, lo sai».

    Merda. Merda. Merda. Lacrime autentiche mi salirono agli occhi. Ogni datore di lavoro per cui valesse la pena lavorare controllava la fedina penale. Dio, volevo uccidere Grant per non essere riuscito a tenere il cazzo nei pantaloni e avermi fregato il futuro.

    «Mi dispiace, papà. È solo che... amavo Grant e ho agito senza pensare». Mio padre era una persona ragionevole ma, nel caso in cui non riuscisse a comprendere appieno le mie ragioni, feci appello al suo lato emotivo.

    «Mi ha spezzato il cuore, papino».

    Vidi il suo viso ammorbidirsi, e una speranza nuova mi sorse nel petto. Di certo, non voleva che sua figlia lavorasse con gli stessi esseri immondi che ogni giorno lui si adoperava per mandare dietro le sbarre.

    «Lo so, e mi dispiace tu l’abbia scoperto a tradirti. Ma ciò non cambia quello che hai fatto. Sono in una posizione scomoda, Avery. Tutta la mia campagna si basa sulla tolleranza zero. Diavolo, ho passato gli ultimi quattro anni a ripulire le strade per essere il candidato sindaco migliore possibile. Ho le mani legate in questo momento. Se commetti un reato, vai condannato».

    «Non mi rifilare uno degli slogan della tua campagna», ruggii, poi scesi i gradini sbattendo i piedi.

    «Avery, vedi di presentarti al Dipartimento delle opere pubbliche lunedì alle sei del mattino. Se non lo fai, ti arresteranno e non ci sarà nulla che potrò fare per te». Prima che potessi ribattere qualcosa, un giornalista fece i gradini di corsa e sbatté un microfono in faccia a mio padre.

    «Signor Hartley, che ricadute ha avuto l’arresto di sua figlia sulla sua campagna elettorale?». La bionda gli sorrise, ma riuscivo a vedere l’allegra malizia che le brillava negli occhi.

    Maledetti avvoltoi.

    «Le posso assicurare, signorina Chambers, che nulla è cambiato. Mia figlia pagherà per la sua sbandata proprio come chiunque altro. Sono serissimo quando dico che sono pronto a fare tutto ciò che è necessario per rendere questa città più sicura».

    Mi lanciai un’occhiata alle spalle e vidi mio padre che guardava dritto nella telecamera, il suo sorriso da politico bene in vista. Se non fosse candidato sindaco, avrebbe fatto di tutto per evitarmi la condanna. Aveva sempre funzionato così tra di noi.

    Ma a quanto pareva, non più.

    Come una furia, andai al parcheggio e spalancai la portiera della mia bmw decapottabile, un regalo di papà per il mio diploma a pieni voti. Misi al massimo l’aria condizionata, anche se la capote era abbassata, e affondai sull’acceleratore, allontanandomi il più velocemente possibile dal tribunale. Il vento faceva mulinare sul mio viso la punta della coda di cavallo, ma ignorai la cosa.

    Niente scuola. Niente confraternita.

    In pratica la mia vita poteva anche finire ora.

    Maledetto Grant e maledetti i quattro anni che avevamo passato insieme.

    Capitolo 2

    Seth

    «T re mesi di servizi sociali e avrai scontato del tutto la tua pena», disse il mio agente di custodia dall’altra parte della scrivania. «Stai lontano dai guai, Seth, e hai tutto il futuro davanti».

    Mi sedetti comodo e incrociai le braccia, cercando di stare a sentire quello che Arnold mi stava dicendo. Il suo ufficio era un disastro e sapeva di muffa, come se ci fosse del cibo andato a male abbandonato in qualche angolo dimenticato. Ma era meglio della cella che era stata la mia casa negli ultimi dodici mesi.

    «Hai preso il diploma e hai persino iniziato qualche corso universitario. È molto positivo». Arnold continuava a guardarmi da sopra il mio fascicolo. Perché diavolo si sentiva in dovere di dirmi cose che già sapevo?

    «C’è un programma di sostegno rivolto agli ex detenuti che vogliono laurearsi. Con il tuo background e la tua situazione economica, lo faresti gratis».

    In altre parole, ero un fottuto sfigato balordo e lo Stato mi avrebbe dato dei soldi da spendere per una laurea che avrebbe potuto, oppure no, tenermi fuori di prigione. Che grande uso delle tasse dei contribuenti. Certamente anche loro lo apprezzavano molto.

    «Ci penserò su», dissi. In realtà, non l’avrei fatto. Non c’era verso che riuscissi a immaginarmi in un fottuto campus universitario. Arnold mi fissò. «Fa parte del programma di reinserimento a cui hai acconsentito di prendere parte, Seth. Lavoro o studio in cambio di una casa sovvenzionata e buoni pasto. Dovrai venire qui da me ogni settimana per le prime sei settimane, e ogni mese dopo che avrai ottenuto un lavoro full-time, o ti sarai iscritto al college o a una scuola professionale».

    Cristo, se questo programma non mi avesse ridotto la pena di un anno intero, non vi avrei mai acconsentito. Tuttavia, c’era un briciolo di speranza che mi si accendeva nel petto alle sue parole. Se davvero fossi riuscito a garantirmi un’entrata fissa, avrei potuto salvare Sara e filarmela.

    «Qui c’è tutto quello che ti servirà quando uscirai di qui». Arnold mi consegnò una busta marrone. «C’è del denaro, la chiave del tuo appartamento, duecentocinquanta dollari in buoni pasto che possono essere usati in qualsiasi supermercato della zona, la tua tessera sanitaria, un abbonamento ai mezzi pubblici, e un catalogo aggiornato dei corsi alla unc. Mi pare sia tutto».

    Guardai dentro la busta ma non tolsi nulla per il momento.

    «L’indirizzo del tuo nuovo appartamento è sempre lì dentro. Ora, Seth», disse, appoggiando la schiena allo schienale e incrociando le braccia al petto, «devo ricordarti che non sei autorizzato a stare a meno di centocinquanta metri da Sara o Davis. Se ignori l’ingiunzione restrittiva in atto, verrai arrestato e sconterai il resto della tua pena in prigione. Tutto chiaro?».

    Strinsi i pugni. Essere fuori e non poter vedere Sara mi tormentava. Come diavolo potevo starle lontano sapendo quello che lui le faceva?

    Come se il mio agente di custodia avesse potuto leggermi nel pensiero, si sporse in avanti con gli occhi ridotti a una fessura. «Seth. Hai ventidue anni e la possibilità di ricominciare daccapo. Le opzioni sono due: mandare tutto a quel paese e tornare dritto dietro le sbarre, o provare a usare questa possibilità per fare di meglio per te stesso. Sei un ragazzo intelligente, perciò usa il cervello e non i pugni, okay?».

    Feci spallucce. Avevo l’impressione che i muri dell’ufficio mi si stessero chiudendo addosso. Avevo bisogno di spazio. Di aria. «Abbiamo finito qui?». Dopo qualche secondo, l’agente annuì. «Vedi di presentarti al Dipartimento per le opere pubbliche alle sei del mattino di lunedì. Una volta che avrai concluso il servizio sociale, potrai frequentare le lezioni a tempo pieno».

    Mi alzai e feci per uscire dal suo ufficio.

    «Seth».

    Mi fermai con la mano sulla maniglia.

    «Se ti servisse qualcosa, c’è il mio numero nella busta. Altrimenti, ci vediamo qui venerdì prossimo, alle cinque e mezza».

    Fu solo quando uscii fuori e respirai un’ampia boccata d’aria fresca che obbligai le mie spalle a rilassarsi. Per la prima volta in dodici mesi, ero all’aperto senza che ci fossero un recinto di filo spinato o delle guardie a osservarmi da una torretta.

    Ero libero.

    E la cosa mi terrorizzava maledettamente.

    Il sole splendente mi fece strizzare gli occhi, perciò presi i miei occhiali da sole e li indossai. Le macchine andavano su e giù per Turner Street, e io le osservai passare. La vita andava avanti. Ero stato chiuso dietro le sbarre per dodici mesi, e all’esterno tutto era rimasto lo stesso.

    Sara era rimasta la stessa. Anche dopo che avevo spaccato la faccia a Davis ed ero stato spedito in prigione per aver cercato di tenerla lontano dagli amici tossici di quel bastardo, lei era rimasta con lui. Era il suo tutore, il nostro patrigno, e avrebbe dovuto essere la persona che la teneva al sicuro.

    Non quella che le forniva eroina e la faceva prostituire.

    Le mani mi si chiusero involontariamente a pugno lungo i fianchi.

    Ero lì, in piedi, a gelare con lo sguardo un avversario invisibile, quando una Ford malconcia si fermò accanto al marciapiede. Una Ford molto familiare che non ero sicuro che avrei mai rivisto.

    Un’altra cosa che Ryan aveva fatto per me mentre ero dentro.

    «Sembri uno che ha bisogno di un passaggio». Ryan si sporse sul sedile e mi guardò da sopra i suoi occhiali scuri. «Ho le caramelle», mi disse, ammiccando.

    «Be’, in tal caso». Mi avvicinai e spalancai la portiera, più felice di vedere il mio migliore amico di quanto non lo fossi stato in tutta la mia vita. Era lo stesso tizio che veniva a trovarmi tutti i fine settimana e che mi teneva aggiornato su Sara. C’era qualcosa di surreale nel vederlo senza un enorme tavolo grigio a dividerci.

    «Come cazzo ci si sente a essere fuori dal gabbio?», mi chiese Ryan, stringendomi la spalla.

    «Merda, amico. Ancora non me ne sono reso conto del tutto».

    «Allora, lì dentro c’è tutta la tua vita? Ci stai tutto dentro una busta, eh?», Ryan accennò con il capo alla busta marrone che tenevo in grembo.

    «Così pare. Un posto dove stare, cibo pagato. Che altro può chiedere di più un uomo, giusto?». La voce mi si incrinò e guardai fuori dal finestrino. Non c’era bisogno di spiegazioni con Ryan. Eravamo cresciuti insieme. Mi copriva le spalle, a prescindere da tutto.

    «Come cazzo è successo che ci siamo incasinati così, Seth?». Le sue dita si chiusero attorno al volante. Nessuno di noi disse il suo nome. Ryan inspirò profondamente. «Allora, hai voglia di andare a bere qualcosa? Il vecchio ha finito presto oggi».

    Ryan lavorava con suo padre nel settore edile. Più che altro, lui e il padre facevano qualche lavoretto quando quest’ultimo riusciva a ripigliarsi abbastanza da stare concentrato. Perché lo assumessero sapendo che lavoro di pessima qualità faceva, non avrei saputo dirlo.

    A dire il vero, il perché lo sapevo. Perché, nonostante tutto, Ryan era un lavoratore instancabile e trovava il modo per risolvere ogni casino. Continuavo a dirgli di liberarsi del peso morto e lavorare da solo, ma lui si rifiutava sempre. Diceva che qualcuno doveva sincerarsi che suo padre stesse bene.

    «Quindi, andiamo da Billy?», mi chiese.

    Feci una smorfia. Il nostro vecchio punto di ritrovo. Chiamarlo un baretto significava fargli un complimento. «Se andassimo da qualche altra parte?». Non potevo rischiare di imbattermi in Sara, e lei aveva sempre adorato gravitare attorno a quel bar, anche se aveva solo diciassette anni. Sosteneva che aveva atmosfera, qualsiasi cosa volesse dire.

    «Merda. Sì, hai ragione». Ryan si immise nuovamente in strada. «C’è un posto appena fuori città. Cibo abbastanza decente. Buona birra. Non incontreremo nessuno lì».

    «Mi sembra perfetto, amico». Ero già in ansia. C’è qualcosa che va detto della routine e di uno spazio ridotto a disposizione. I tuoi pensieri non possono andare molto più in là dei muri di cemento.

    In quel preciso istante, guardando la città che si estendeva ai miei piedi, capii che c’era troppo spazio, cazzo.

    Troppo spazio per pensare.

    E non mi piaceva per nulla la direzione che stava prendendo la mia mente.

    Capitolo 3

    Avery

    «D unque, stasera siamo dirette in un posto che si chiama O’Malley», mi annunciò la mia migliore amica Shari, sventolando in modo trionfale il pezzettino di carta.

    Quello ero il nostro piccolo segreto scabroso. Da matricole, eravamo andate online e avevamo scovato ogni bar della città, da quelli di quartiere a quelli a cinque stelle, poi ce li eravamo annotati su dei pezzettini di carta, che avevamo messo nella boccia numero uno.

    Ogni volta che sentivamo il bisogno di scappare dalle nostre vite o semplicemente ci serviva un diversivo dopo una settimana infernale, ci affidavamo alle bocce. Non ci serviva del gelato quando le cose andavano male. Avevamo le bocce. Se una di noi due si era lasciata male con il fidanzato (Shari) o aveva passato un giorno merdoso in famiglia (io), estraevamo una destinazione e delle identità e ci smarrivamo in qualsiasi cosa l’universo avesse in serbo per noi.

    Quella serata aveva lo scopo di farmi dimenticare Grant e tutta la merda che era successa in seguito. Volevo solo ubriacarmi e provare qualcosa che non fosse rabbia. A dire il vero, volevo sentirmi voluta, solo per una notte.

    «E chi siamo stavolta?», chiesi.

    La boccia numero due conteneva la nostra professione.

    Shari infilò le sue dita fresche di manicure nella boccia ed estrasse un pezzo di carta. Si atteggiò un mondo mentre lo apriva, poi mi sorrise. «Stasera, tesorino, siamo Fancy e Bambi, due spogliarelliste appena arrivate in città».

    Feci un sospiro di sollievo. Grazie a Dio non avevamo estratto Christoff come destinazione. Mio padre mi avrebbe ucciso se avesse saputo che andavamo in un locale di lusso per vip vestite da zoccole.

    «Com’è che si vestono esattamente delle spogliarelliste appena arrivate in città?», chiesi da sopra la spalla.

    «Lustrini e spandex, baby!», mi gridò Shari dalla sua stanza.

    Oh, Dio. Odiavo lo spandex.

    Spalancai l’anta del mio armadio e rovistai direttamente sul fondo, dove tenevo i miei vestiti da battona. Jeans strappati e top succinti. Tutti trovati in un negozio alquanto interessante di abiti usati sulla Main Street.

    «Allora, tu chi sei delle due stasera?», le urlai.

    Non uscivamo semplicemente a bere. Ci inventavano identità completamente nuove da abbinare ai nostri vestiti da due soldi. Faceva tutto parte del piano per dimenticare per qualche ora chi eravamo.

    La testa di Shari comparve sulla porta. «Mmm. Mi sa che stasera mi sento una Bambi». Mi sorrise ed entrò perché potessi vederla del tutto. Mi scappò una risata. «Oh, mio Dio, è talmente orrendo che mi piace!».

    Shari indossava un top di lustrini dorati e i suoi jeans avevano dei diamanti finti sulle tasche. L’outfit era completato da un paio di scarpe con il tacco

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