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Tutto l'amore che mi manca
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E-book417 pagine6 ore

Tutto l'amore che mi manca

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Info su questo ebook

«Un romanzo capace di piegare il tempo, che fa riflettere, suggestivo e avvincente.»
USA Today

L’estate nella sua piccola città del Kentucky, prima di partire per il college, sembra trascorrere per Natalie nel migliore dei modi. Almeno finché la ragazza non comincia a vedere cose strane. All’inizio sono solo delle fugaci visioni: la porta di casa è rossa invece che del solito colore verde, al posto di un negozio di fiori appare un asilo nido. Quando la città scompare per ore e al suo posto compaiono dolci colline e animali che pascolano, Natalie deve però ammettere che qualcosa non va. A un certo punto riceve anche la strana visita di un personaggio che lei chiama Nonna, che le dice: «Hai tre mesi per salvarlo». La notte successiva, sotto le luci del campo da football del liceo, Natalie incontra un bellissimo ragazzo di nome Beau, e allora è come se il tempo si fermasse e non esistesse più nulla. Nulla, tranne Natalie e Beau. 

Una meravigliosa e imperdibile storia d’amore

«Il romanzo della Henry affascina, sia per la storia d’amore, sia per la capacità di ripensare in modo fantastico il tempo e lo spazio.»
Publishers Weekly

«Un romanzo capace di piegare il tempo, che fa riflettere, suggestivo e avvincente.»
USA Today

«Questa storia d’amore bella, magica e che fa viaggiare nel tempo merita sicuramente un posto nella vostra libreria.»
Bustle

«Un esordio davvero intenso.»
Buzzfeed
Emily Henry
Ha studiato scrittura creativa allo Hope College e al New York Center for Art & Media Studies. Oltre a scrivere, lavora come correttrice di bozze. Vive tra l’Ohio e il Kentucky.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mar 2017
ISBN9788822705761
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    Anteprima del libro

    Tutto l'amore che mi manca - Emily Henry

    1

    È la notte prima del mio ultimo giorno di liceo quando ricompare. Ne avverto la presenza nella stanza anche senza dover aprire gli occhi. Succede sempre così.

    «Svegliati, Natalie», dice in un sussurro. In realtà sa benissimo che sono già sveglia – mi desterebbe anche il ronzio di una mosca in corridoio – esattamente come sa che il San Bernardo ronfante disteso ai piedi del mio letto, il cane da guardia che mi hanno regalato mamma e papà per permettermi di dormire sonni tranquilli, non disturberà la nostra chiacchierata e continuerà a russare imperterrito.

    Spalanco le palpebre nell’oscurità, scosto le coperte e mi metto a sedere. Fuori dalla finestra risuona il frinire dei grilli e la luce verdazzurra della luna filtra attraverso le foglie degli alberi disegnandone le sagome sulla moquette.

    Ed eccola lì: seduta sulla sedia a dondolo nell’angolo, il posto in cui si accomoda da sempre, fin dalla prima volta che venne a trovarmi quando ero bambina. I lineamenti antichi sono velati dal buio della notte, i folti capelli grigi le ricadono dolcemente sulle spalle. Indossa i suoi consueti abiti color cenere e, benché siano trascorsi quasi tre anni dall’ultima volta che l’ho vista, non sembra affatto invecchiata... A dire il vero non sembra invecchiata nemmeno rispetto alla prima volta che la vidi. Anzi, la trovo addirittura ringiovanita. Forse perché sono io a essere più vecchia, e adesso le rughe e le macchie dell’età non mi spaventano così tanto.

    Sono tentata di mettermi a strillare, o almeno di premere l’interruttore dell’abat-jour sul comodino... Insomma, avrei voglia di compiere uno di quei gesti che faranno scomparire queste creature, come ho imparato in questi miei diciotto anni di vita. Vorrei solo darle una lezione per avermi abbandonato, per avermi spinto a credere che fosse scomparsa per sempre.

    Ma siccome, in fondo in fondo, non desidero davvero che svanisca, metto da parte il rancore e resto immobile.

    «Gentile da parte tua essere tornata a trovarmi», bisbiglio. Le parole mi graffiano la gola ancora intorpidita dal sonno, e devo concentrarmi perché i miei occhi ancora mezzo addormentati mettano a fuoco le rughe sul suo volto, i segni d’espressione ai lati della bocca, le delicate zampe di gallina agli angoli degli occhi scuri. «Dove sei stata?»

    «Qui», replica lei rifilandomi una delle sue classiche risposte sibilline.

    «Sono passati quasi tre anni».

    «Non per me».

    Osservo per la milionesima volta lo scialle logoro e l’abito consunto che penzola dal suo corpo emaciato.

    «No, certo», faccio io, «tu sei fuori dal tempo, giusto?».

    Lei solleva la spalla destra, come per ostentare indifferenza. «Se lo dici tu. È passato qualcun altro a trovarti?».

    Mi premo i palmi delle mani sugli occhi per guadagnare tempo. Mi vergogno ad ammetterlo ma non è venuto nessun altro, e il motivo lo conosco bene. Vorrei potermi infuriare con lei per avermi lasciato da sola per tre lunghi anni, ma è solo colpa mia. Sono stata io a farla scomparire. A ogni modo, lei sa già tutto, perciò non ho alcun bisogno di confessare le mie responsabilità. Come per dimostrare la propria onniscienza, nota: «Credo che Gus abbia scoreggiato».

    Allungo il collo per dare un’occhiata al cane arruffato. Ha la lingua che gli ciondola dalla bocca e il naso umido che si muove incessantemente per annusare i dintorni. Lo osservo scalciare con una delle zampe posteriori, probabilmente immerso in un sogno, e avverto il lezzo a cui si riferiva lei.

    Mi copro il naso con l’avambraccio. «Oddio, Gus, che schifo. Ti voglio bene, ma sei un mostro... Davvero disgustoso».

    Aspetto che il fetore si affievolisca prima di rispondere alla domanda. «Non è passato nessun altro. Sono spariti tutti. La dottoressa Langdon pensava che la terapia EMDR avesse funzionato. Mi ha spiegato che era per quello che avevi smesso di venire. I miei traumi sembravano essersi risolti. Sono una ragazza fortunata. O almeno lo ero fino a cinque secondi fa».

    EMDR: dall’inglese eye movement desensitization and reprocessing, ovvero desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari. Si tratta di un approccio terapeutico per curare gli effetti dei traumi e delle problematiche legate allo stress e, nel mio caso, per eliminare la donna seduta davanti a me e tutti coloro che si sono materializzati accanto al mio letto nel corso degli anni.

    Lei resta in silenzio per alcuni istanti, pensierosa. «Poco fa… be’, poco per me, ma tre anni per te… ti ho raccontato una cosa sulla dottoressa Langdon. L’hai riferita a qualcuno?».

    Continuo a fissarla con durezza.

    «Ricordi cosa ti ho detto, Natalie?», mi incalza lei.

    Annuisco. «Hai detto che sarebbe morta in un incendio».

    «E...?»

    «È ancora viva», la informo. «Mi ha anche consigliato di prendere il Tavor, ma ovviamente la mamma si è opposta. A quanto pare l’adolescenza è un periodo particolarmente stressante».

    Dio – il nome segreto che le affibbiai tanti anni fa, anche se lei mi ha sempre chiesto di chiamarla Nonna – scoppia a ridere e abbassa gli occhi sulle proprie mani segnate dal tempo, intrecciate in grembo. «Oh, non sai quanto, ragazza mia».

    «Hai mai avuto la mia età?», le domando.

    Le sue folte sopracciglia guizzano in alto, allontanandosi dai tenebrosi occhi scuri. «Sì», risponde sottovoce.

    «Ed è stato un periodo stressante?».

    Stringe brevemente le labbra. «Quando avevo la tua età, non sapevo un bel niente. Non sapevo niente di me stessa, né dell’universo o del dolore. L’idea che presto sarei cresciuta mi spaventava a morte, avevo paura di perdere i miei amici, ero certa che sarei impazzita. La vita mi sembrava un frullatore pronto a maciullarmi. E invece le cose che mi sono accadute quando avevo qualche anno più di te hanno trasformato il frullatore in un piacevole bagno caldo e schiumoso».

    Abbasso gli occhi e osservo lo strappo sulla mia trapunta. È la coperta che ha fatto mia madre quando io ero solo un feto nell’utero della mia madre naturale. Doveva appartenere a un’altra bambina, un’adozione che non andò in porto. Divenne mia, quando io divenni dei miei genitori. «Mi sei mancata», mormoro a Nonna.

    «Anche tu mi sei mancata».

    «Non hai detto che per te è trascorso solo un minuto?»

    «Infatti».

    Restiamo in silenzio per alcuni istanti, fissandoci intensamente. Infine mi chiede: «Come stanno i gemelli?»

    «Bene», le rispondo. «Coco si trasferirà in un’accademia d’arte e arti performative, e Jack gioca ancora a calcio. La mamma è talmente gonfia d’orgoglio che potrebbe esplodere da un momento all’altro, perciò va tutto bene. Alla fine dell’estate lei e papà ci porteranno a San Francisco, e poi su a Seattle». Il viaggio estivo è una tradizione che i miei instaurarono quando decisero di sposarsi. All’epoca, la mamma non era ancora mai stata da nessuna parte e l’unica perplessità che nutriva sul matrimonio con papà era che lui amava il Kentucky talmente tanto che non se ne sarebbe mai allontanato. All’epoca erano poveri, ma papà le promise che avrebbero esplorato il mondo intero, o almeno tutti gli Stati Uniti. Fu così che nacque il viaggio annuale della famiglia Cleary.

    Nonna tiene gli occhi chiusi per un lungo istante e quando li riapre le compaiono delle deliziose increspature ai lati delle palpebre. «Pensavo che quest’anno fosse la volta di Boulder, Denver e il Mesa Verde», dice. «Con Jack che si becca un’intossicazione alimentare e Coco che pretende di mangiare solo cibi preparati dalle grandi catene della ristorazione».

    «Quello è successo l’anno scorso», le rispondo. «Quest’anno è la volta della Highway 101. Se vuoi sapere la mia, probabilmente faremmo meglio a portarci dietro una bella scorta di Xamamina, se vogliamo divertirci».

    «E che mi dici di te? Come stai?»

    «Alla grande. In agosto mi trasferirò nel Rhode Island per frequentare la Brown University... ma sicuramente lo sapevi già».

    Lei annuisce, e nella stanza cala di nuovo il silenzio. Mi mancavano questi momenti di veglia notturna in sua compagnia, mentre il resto del mondo sta sognando. Senza questi attimi di quiete, gli ultimi tre anni sono trascorsi in un caotico turbinio.

    «Ma è vero che Dio ti abbandona quando diventi grande?», le domando. «È per questo che non venivi più a trovarmi?»

    «Non ho mai detto di essere Dio».

    È vero. Avevo sei anni la prima volta che la vidi, e in tutto questo tempo non ha mai specificato cosa sia esattamente... Non certo perché non gliel’abbia chiesto o non abbia più volte tirato a indovinare.

    Prima di Nonna, le mie allucinazioni erano a dir poco terrificanti: una sfera scura che mi fluttuava davanti al naso, uomini brizzolati con delle giacche verdi che mi osservavano coi loro occhi simili a pozzi senza fondo, donne con il trucco da pagliaccio ferme accanto al mio letto. Al loro arrivo, io mi mettevo a urlare e accendevo la luce, ma quando i miei giungevano di corsa in camera mia quelle cose erano scomparse, evaporate, come se non fossero mai esistite.

    «È stato solo un brutto sogno», mi confortava la mamma facendo scorrere le dita affusolate tra i miei capelli annodati. Poi papà andava a prendere delle coperte dal ripostiglio del corridoio e costruiva una specie di nido accanto al lettone, in modo che potessi trascorrere il resto della notte insieme a loro.

    Tuttavia, la notte in cui vidi Nonna per la prima volta fu diverso. Non ero molto ferrata sulle questioni spirituali o metafisiche – la mia è una di quelle famiglie che vanno in chiesa un paio di volte l’anno, e quelle sporadiche visite annuali non mi avevano mai folgorato – però non avevo alcuna avversione nei confronti del concetto di Dio: semplicemente non ritenevo possibile che potessimo conoscerlo in modo approfondito.

    Credo che Dio sia una cosa di cui scorgiamo dei brevi barlumi: un gigantesco, vago calore che ogni tanto sento pulsare intorno a me; mi provoca i brividi e mi riempie gli occhi di lacrime; una Cosa misteriosa e sconfinata che abbraccia il mondo intero e non può essere ridotta a un singolo nome o a un pugno di regole da seguire, Qualcosa che si palesa in un milione di storie, vere e inventate, che riguardano tutti gli esseri viventi.

    Avevo affibbiato a Nonna quel soprannome non perché fossi convinta che lei fosse davvero quella Cosa, ma perché ne possedeva dei tratti e sapevo che ne faceva parte.

    Non mi veniva in mente nessun altro termine con cui descrivere un essere che sbucava fuori dalle pareti per proteggermi dal buio.

    I miei genitori non avevano reputato le angoscianti apparizioni alla Shining abbastanza gravi da giustificare una seduta da uno strizzacervelli, ma l’essere celestiale con l’aspetto di un’anziana pellerossa che veniva a narrarmi i miti della creazione destò la loro preoccupazione. Quando accennai a Nonna, una mattina durante la colazione, la mamma uscì di corsa dalla cucina per andare a chiamare papà. Dovevo aver fatto qualcosa che non andava, ma non capii cosa fino alla settimana successiva, quando la mamma tornò a casa dopo un incontro con uno psicologo infantile e venne a farmi il primo discorso.

    «È del tutto normale che tu voglia sapere qualcosa di più sulla tua cultura d’origine, tesoro», esordì con voce tremante. Sembrava una citazione tratta da un libro della serie Sei stata un dono speciale, che mi aveva letto quando ero piccola invece di rifilarmi il più traumatico discorsetto Sei stato adottato che avevano dovuto subire alcuni bambini che conoscevo. «È naturale che desideri esplorare la tua identità».

    «Avevo gli occhi aperti», le spiegai a quel punto. «Non era un sogno. Nonna esiste davvero».

    Non riuscii a convincere né lei né papà, né tantomeno la dottoressa Langdon, io però non avevo dubbi: Nonna esisteva. Proprio come non ho mai avuto dubbi sul fatto che Nonna sia un’entità sublime o ne sia parte, anche se non vuole ammetterlo.

    «Okay», dico, «Grande Spirito, Grande Capo Lassù, Terra Creatrice, Holitopa Ishki o chiunque tu sia... Rispondi alla mia domanda. Mi abbandonerai adesso che sono... quasi adulta?».

    Nonna stringe le labbra e si alza. Il mio cuore prende a battere all’impazzata... È venuta a trovarmi per decine e decine di notti, ma questa è la prima volta che si alza in piedi. Attraversa la stanza, si siede sul bordo del letto e stringe le mie mani. Ha una pelle incredibilmente liscia, come velluto, sedimenti ridotti in polvere o seta antica.

    «Questa», sussurra, «potrebbe essere l’ultima volta che mi vedi, Natalie. Ma sarò sempre al tuo fianco».

    Ricaccio indietro le lacrime e scuoto la testa. La mia più vecchia amica, la persona che a detta degli esperti non esiste, una presenza solo ed esclusivamente mia. Non dovrei essere così stupita, dopotutto fra tre mesi mi trasferirò alla Brown e presto la sedia a dondolo, la mia stanza, le dolci colline del Kentucky faranno parte del passato. Credevo davvero che Nonna sarebbe venuta con me? Mi ritrovo comunque a chiederle: «Perché?».

    Mi scosta i capelli dalla fronte lisciandomeli all’indietro, come fa sempre anche la mamma. «Adesso sdraiati, giovane donna. Ti racconterò un’ultima storia, e voglio che presti molta attenzione a ciò che ti dirò. È importante».

    «È sempre importante secondo te».

    «È sempre importante». Torna alla sedia a dondolo fermandosi un attimo a grattare Gus dietro l’orecchio, che si è messo a mugolare. Si accomoda e si schiarisce la gola. «È la storia della nascita del mondo, e della donna caduta dal cielo».

    «Me l’hai già raccontata», le ricordo. «Anzi, se non sbaglio è stata la prima storia che mi hai raccontato».

    Lei fa cenno di sì con la testa. «È stata la prima e sarà l’ultima, perché adesso hai imparato ad ascoltare».

    Impara ad ascoltare, ascolta con il corpo, lasciati avvolgere dalla storia sono i consigli che Nonna mi dispensa da sempre. A dire il vero, non ricordo quasi nulla di questa storia; un po’ perché me l’ha narrata a notte fonda quando il mio cervello era completamente annebbiato dal sonno, e un po’ perché la sua voce è l’equivalente acustico di un carillon che intona Clair de lune: talmente avvolgente che le parole si perdono nella musicalità del suono. Mi sdraio e chiudo gli occhi, abbandonandomi alla sua voce.

    «Prima del mondo che conosciamo oggi ce n’era un altro», comincia lei, «un mondo antico, dove non esisteva la morte. E in quel mondo abitava una donna molto forte e molto particolare. Il padre della donna fu la prima persona al mondo a morire, ma la donna continuò a parlare con il suo spirito anche dopo la sua dipartita. Poiché la morte gli aveva svelato dei segreti che i vivi non potevano ancora vedere, lo spirito consigliò alla figlia di prendere in marito uno straniero di una terra lontana. E così, contro il volere di sua madre, la giovane donna decise di fidarsi dello spirito del padre e partire alla volta di quella terra lontana per presentarsi al cospetto dello straniero. L’uomo, che era uno stregone molto potente, accolse la proposta di matrimonio con scetticismo: dopotutto la donna era ancora molto giovane, e a lui serviva una moglie forte e capace. L’uomo decise pertanto di sottoporre la ragazza a tre prove: se le avesse superate, l’avrebbe sposata.

    Come prima prova la condusse nella sua tenda e le diede una montagna di granoturco. Macinalo, le ordinò. Lei lo prese, lo sbollentò e lo macinò sulla pietra in un batter d’occhio, lasciando lo stregone a bocca aperta.

    Come seconda prova le ordinò di spogliarsi e cuocere il granoturco sul fuoco. Lei obbedì, e il mais cominciò a scoppiettare e saltellare, ustionandole la pelle esposta. Lei però non batté ciglio: rimase immobile davanti al fuoco finché la polenta di mais non fu pronta.

    Come ultima prova, lo stregone sollevò la falda della tenda, chiamò a raccolta le sue bestie e le invitò a mangiare la polenta direttamente dalla pelle nuda della ragazza. Benché i loro denti aguzzi la ferissero e le loro lingue umide la disgustassero, la donna completò la prova con serenità e determinazione. E così lo stregone accettò di sposarla.

    La coppia di sposi dormì per quattro notti con le piante dei piedi congiunte, poi il marito rispedì la moglie al suo villaggio d’origine insieme a un generoso dono di carne. Le suggerì di dividerlo equamente fra gli abitanti del villaggio e le ordinò di aprire i tetti di tutte le capanne in modo che quella notte lui potesse benedirli con una pioggia di mais bianco. Lei obbedì, e così avvenne.

    Al suo ritorno, la ragazza si stabilì nella tenda dello stregone, che divenne anche casa sua, e cominciò a trascorrere le proprie giornate in compagnia di un albero che cresceva nelle vicinanze. Era un albero sul quale fiorivano dei boccioli di luce talmente sfolgoranti da rischiarare tutte le terre dello stregone. La donna amava quell’albero – accanto a lui si sentiva meno strana, meno fuori posto – e prese l’abitudine di sedersi all’ombra della sua chioma e chiacchierare con gli spiriti, compreso quello del defunto padre. La ragazza amava quell’albero talmente tanto che una notte, mentre tutti dormivano, giacque con lui e rimase incinta.

    Più o meno nello stesso periodo, il marito della donna si ammalò. I guaritori non trovarono una cura, ma lo informarono che la causa della malattia era sicuramente sua moglie. Lo stregone concordò: non aveva mai conosciuto una persona più potente di lei. Non sapendo come comportarsi, decise di chiedere consiglio ai guaritori. All’epoca il divorzio non esisteva, e l’unica morte che fosse mai avvenuta era stata quella del padre della donna. Tuttavia i guaritori erano uomini saggi, e trovarono una soluzione.

    Sradica l’albero della luce, gli suggerirono, e trova il modo di farci cadere dentro tua moglie. Rimetti l’albero a posto e il tuo potere verrà ristabilito.

    Lo stregone sradicò l’albero della luce quel giorno stesso, e quando guardò all’interno del buco che si era formato sotto le radici si accorse che vi era un mondo intero. Mandò a chiamare la moglie e le disse: Guarda, avvicinati, c’è un altro mondo sotto di noi. La donna si inginocchiò accanto all’albero e puntò gli occhi nella cavità in cui fino a poco tempo prima affondavano le radici. All’inizio scorse solo delle tenebre, ma dopo un po’ intravide un tocco di blu, un blu brillante e bellissimo. Pieno di speranza e gioia e sogni e rifulgente della stessa luce che cresceva sull’albero. Ecco dove si trovava la fonte della luce che le aveva dato conforto nei momenti di solitudine. Con le labbra schiuse in un sorriso, la donna si voltò a guardare il marito e disse: Chi l’avrebbe mai detto che l’albero della luce crescesse sopra un posto così bello?.

    L’uomo annuì e poi, cautamente, le disse: Chissà cosa c’è laggiù.

    La donna rispose: Non saprei.

    Lui disse: Forse qualcuno dovrebbe scoprirlo.

    La moglie restò a bocca aperta, scioccata. E come?

    Saltando, le suggerì il marito.

    Saltando?, domandò lei sporgendosi sul buco per vedere meglio. La donna tentò di capire quanto fosse distante il nuovo mondo, ma non ci riuscì. Era lontanissimo, più lontano di qualsiasi distanza avesse mai percorso.

    Per una persona coraggiosa come te non dovrebbe essere difficile, insinuò il marito. Potresti trasformarti in un alito di vento o in un petalo o in un bocciolo dell’albero della luce e fluttuare giù, oppure tuffarti in picchiata come un falco e volare fino al bellissimo mondo che c’è là sotto.

    La donna rimase in silenzio a fissare la distesa blu, l’infinità di cose blu che non aveva mai visto, di sogni che non aveva mai sognato. Potrei saltare, disse infine. Potrei fluttuare. Potrei tuffarmi nel blu brillante.

    Certo che potresti, la incalzò il marito.

    La donna restò immobile per un altro lungo istante, inginocchiata a osservare e meditare. Poi si rimise in piedi e allungò i muscoli contratti, piegò le ginocchia, alzò le braccia sopra la testa e si tuffò nel meraviglioso abisso blu.

    Lo stregone – che a quel punto non era più il marito della donna – rimase a fissare il corpo della ragazza che ruzzolò nell’oscurità per parecchio tempo. I guaritori che lo avevano consigliato sul da farsi si avvicinarono alla tenda e lo raggiunsero accanto al buco. Ha saltato, li informò lo stregone, e quelli sollevarono l’albero e lo riposizionarono sull’apertura che conduceva al nuovo mondo».

    Infine Nonna conclude: «E poiché la donna saltò, il nostro mondo ebbe inizio».

    «Dipende dai punti di vista», commento io, mettendomi a sedere.

    Nonna china il capo in avanti. «Dipende dai punti di vista».

    Circa un terzo delle storie che mi ha raccontato nel corso degli anni sono miti sulla creazione. Non so esattamente da dove provengano, anche se quando appaiono personaggi come Scoiattolo e Donna del Mais oppure Abramo e Isacco una mezza idea ce l’ho.

    «Sai, Natalie...», esordisce Nonna, interrompendosi un attimo per fare un respiro profondo e abbassare gli occhi. «C’è un motivo se ti ho raccontato tutte queste storie».

    Raddrizzo la schiena. Gliel’avrò domandato un milione di volte, perché compari in camera mia nel cuore della notte e mi racconti queste cose? «Hai sempre affermato che il motivo erano le storie stesse».

    Nonna sospira, e la sua voce si affievolisce, diventa roca. «Le storie sono importanti, e lo sono indipendentemente da noi. Ne facciamo parte, Natalie. Rispetto a esse, noi siamo degli esseri piccolissimi, minuscoli. Però c’è anche un altro motivo».

    Le sue ciglia scure sono umide di lacrime e d’un tratto mi appare giovanissima. «Che c’è, Nonna?», le chiedo. «Cosa c’è che non va?»

    «Non voglio spaventarti», risponde lei. «Ma devi sapere, devi essere pronta per ciò che accadrà».

    Quando si copre il viso con le mani mi si rizzano tutti i peli sulle braccia, così mi alzo dal letto e vado ad accovacciarmi davanti a lei. Non l’ho mai vista in questo stato. Mi stringe le mani e incrocia il mio sguardo. «Le storie», mormora. «È tutto nelle storie, Natalie».

    «Cosa?»

    «Tutto quanto. La verità. Il mondo intero», risponde brusca. «Quella ragazza è saltata nel buco senza sapere dove sarebbe finita, ed è nato il mondo intero. Riesci a capire? Il mondo intero».

    «Sì, capisco», rispondo io sperando di calmarla, ma è una menzogna. Adesso sono davvero spaventata, e avrei bisogno che lei tornasse a essere la Nonna che conosco da sempre, così io potrei rimettere i panni della bambina che ha paura del buio.

    «Bene». Mi accarezza una guancia. «Bene, perché hai solo tre mesi».

    «Ma di cosa stai parlando...».

    «Hai solo tre mesi per salvarlo, Natalie».

    «Chi? Chi è che dovrei salvare?».

    I suoi occhi, improvvisamente enormi e acquosi, guizzano sopra la mia spalla e le sue labbra si schiudono in un’espressione stupita. «Tu», dice in un soffio, «sei già qui».

    Mi volto indietro di scatto con la nuca che mi formicola per la tensione, ma nella stanza non c’è nessuno.

    «Non aver paura, Natalie, Alice ti aiuterà», mi rassicura Nonna. «Trova Alice Chan».

    Quando mi giro di nuovo verso di lei, la sedia a dondolo è vuota, oscilla avanti e indietro come se qualcuno si fosse appena alzato.

    Sono di nuovo sola. E non sono più la ragazza che parla con Dio.

    2

    Scivolo fuori dal letto per correre a spegnere l’insopportabile trillo della sveglia del cellulare. Non ricordo come abbia fatto ad addormentarmi dopo gli avvenimenti di stanotte, ma evidentemente ci sono riuscita. La luce della luna si è quasi spenta del tutto e gli sparuti lampioni che costeggiano la nostra strada senza uscita si sono accesi, spargendo dei bagliori giallastri sui vetri umidi delle finestre. Gli uccelli si stanno svegliando insieme agli scoppiettii dei motori di alcuni pick-up, ma nessuno sembra essersi ricordato di informare i grilli che questo diabolico momento della giornata è considerato mattino.

    Premo l’interruttore della luce della cabina armadio guadagnandomi un guaito contrariato da parte di Gus, che dopo aver manifestato il proprio fastidio si gira dall’altra parte e si rimette a dormire. Divorata dall’invidia, gli lancio addosso un cuscino ma lui si limita a coprirsi gli occhi con la zampa e continua a ronfare.

    Sono esausta, e come se non bastasse non riesco a scrollarmi di dosso la paura che ho provato stanotte. Nonna era un elemento calmante nella mia vita. Insomma... Le sue storie non sono mai state né allegre né tranquillizzanti, ma la sua presenza mi dava sicurezza, mi rincuorava. Fino a stanotte.

    A cosa si riferiva?

    La ricerca notturna che ho condotto digitando Alice Chan su Google è stata un buco nell’acqua. Di Alice Chan ce n’è un’infinità, ma nessuna di quelle che ho trovato ha attirato la mia attenzione.

    Tre mesi per salvarlo. Scuoto la testa come per rendere le parole più comprensibili.

    Mi infilo un abito nero a maniche corte e prendo un giacchetto di jeans da una stampella dello scomparto superiore. Fuori ci saranno venticinque o ventisei gradi con il novanta per cento di umidità, ma con la preside Grant in menopausa è impossibile prevedere che temperatura ci sarà a scuola. Meglio essere previdenti. Osservo la schiera ordinata di scarpe col tacco che fino all’altro giorno mi riempivano d’orgoglio, e mi rendo conto che adesso mi appaiono necessarie come una parrucca pubica. Opto per un paio di stivali e torno in camera.

    Nella mia stanza, due pareti sono di un obbrobrioso color arancio mentre le altre due sono dipinte di nero lucido: i colori della Ryle High School. A peggiorare la situazione, una delle due pareti nere è quasi interamente dedicata all’immagine della nostra mascotte: il Raider, ovvero il Razziatore; un pirata con un occhio solo e due spade incrociate dietro la testa. Quando ho l’emicrania, devo necessariamente concentrarmi su uno degli unici tre punti focali bianchi: le lenzuola del letto, la lanterna per le candeline o la lampada antica sulla scrivania. Oppure posso sempre andarmi a rifugiare nella cabina armadio.

    A decorare la camera pensarono mamma e papà l’estate della prima media, mentre ero in ritiro con la squadra di danza. Ovviamente, all’epoca, non vedevo l’ora di cominciare il liceo e la tremenda accozzaglia dei colori scolastici mi sembrava la cosa più bella del mondo; finché, un anno fa, mi sono finalmente risvegliata dall’ubriacatura liceale e mi sono accorta che è un pugno nell’occhio. Con un impianto stereo più potente e qualche album dei Black Eyed Peas, la mia stanza non avrebbe nulla da invidiare alla prigione di Guantanamo.

    Nel corso degli anni, dopo la Ridecorazione Infernale, ho aggiunto qualche tocco personale: pannelli di sughero ricoperti di bigliettini scritti dai miei amici, bacheche costellate di medaglie e coccarde della squadra di danza, pompon neri e arancioni infilati dietro la scrivania e la cassettiera, una dozzina di fotografie incorniciate che immortalano feste in maschera, partite di football e balli scolastici.

    C’è la mia faccia ovunque, un milione di volte, che mi sorride di rimando dalle pareti: i soliti capelli corvini, i profondi occhi castani, la pelle scura; lo stesso viso squadrato, gli zigomi alti. Ed eccomi lì, a baciare Matt Kincaid per il quarto anno consecutivo, oppure in palestra in mezzo alla fila centrale del corpo di ballo, insieme alle altre ragazze di altezza media. Oppure ancora accanto a Megan, in quella patetica posa semiseria da Charlie’s Angels che non potrò mai cancellare, sullo sfondo della Gray Middle School.

    Dopo la scomparsa di Nonna, ho cominciato a non riconoscermi più nella ragazza immortalata in quelle foto e ho iniziato ad avvertire un impellente bisogno di andarmene. Ho mollato la danza, ho mollato Matt, e da quando ho saputo di essere stata accettata alla Brown ho cominciato a mollare anche il Kentucky. E adesso, a tre mesi dalla mia grande fuga, la visita di Nonna sembra rimettere tutto in discussione.

    «NAT, JACK, COCO, LA COLAZIONE!», grida la mamma dalla cucina al pianterreno, e mi si stringe lo stomaco quando passo accanto alla sedia a dondolo.

    Al mattino, sono sempre l’ultima a uscire dalla propria stanza. Coco invece, essendo l’incarnazione vivente dell’efficienza, è sempre la prima a sedersi al tavolo della colazione, per poi tornare di sopra dopo pochi minuti ed esortare Jack a darsi una mossa snocciolandogli la lista di cose che gli serviranno a scuola, il tutto mentre invia sms al cellulare, si fa le trecce ai capelli o si passa il mascara sulle ciglia. Se non ci fosse lei, probabilmente Jack uscirebbe di casa senza pantaloni... e credo che se la spasserebbe pure.

    Al pianterreno, Jack è seduto davanti a un piatto ricolmo di pancetta e sta mangiando praticamente a occhi chiusi, ancora mezzo addormentato. Di fronte a lui, sopra una ciotola di frutta, Coco sta digitando freneticamente sul tastierino del cellulare, i suoi begli occhi azzurri abbelliti dall’eyeliner e dall’ombretto steso ad arte. È tale e quale alla mamma, ad eccezione del naso appuntito, che ha ereditato da papà. Mi sono sempre chiesta come debba essere, assomigliare ai nostri genitori.

    Una delle cose più assurde dell’essere stati adottati è che ti viene spontaneo domandarti se finirai per metterti insieme a qualcuno che possiede il tuo stesso patrimonio genetico. Se fossi una nativa americana al cento per cento non avrei molto di cui preoccuparmi in una cittadina quasi esclusivamente bianca come Union, ma a quanto pare il mio padre biologico era bianco, perciò la situazione è un po’ più complicata.

    La mamma alza lo sguardo dai fornelli e si copre la bocca con la mano soffocando un gemito, come se la cucina avesse appena preso fuoco. «Oh, tesoro, ma guardati. Sei bellissima». Comincia a scuotere i boccoli ramati come se questo potesse aiutarla a ricacciare indietro l’ondata di emozioni che l’ha travolta e apre le braccia verso di me. Mi avvicino al suo abbraccio strascicando i piedi, riluttante. «Non riesco a credere che sia il tuo ultimo giorno di liceo! Mi sembra ieri che ti portammo a casa».

    «Già, ero una gran piagnucolona».

    «Oh, smettila, non è affatto vero. Eri curiosa e taciturna. Passammo quella prima notte in bianco, a fissarti ammaliati, e tu ci guardavi con gli occhi sgranati, senza dire niente...».

    «Mamma», la chiama Jack dalla tavola.

    «Abbiamo sempre saputo che eri speciale, e infatti guarda che ragazza intelligente e talentuosa sei...».

    «Mamma, credo che stia bruciando qualcosa», s’intromette Coco senza alzare lo sguardo dal cellulare.

    «Eh?», fa lei voltandosi di scatto verso i fornelli per osservare l’omelette carbonizzata sulla piastra di ghisa. «Merda».

    «Non sapevo che parlassi il francese, mamma», commento io.

    «Hai sentito? La mamma ha detto merda», bofonchia Jack a Coco con la bocca piena di pancetta.

    «Sì, lo so, è veramente stramba», risponde Coco in tono piatto. Coco e Jack sono diametralmente opposti – lei è perfezionista e ambiziosa, mentre lui è il classico sportivo sempliciotto che si lascia trascinare dagli eventi – ma sono sempre stati inseparabili. Credo dipenda dai nove mesi di convivenza nell’utero.

    La mamma sventola uno strofinaccio per diradare il fumo. «Dammi cinque minuti. Te ne preparo un’altra».

    Mi verso una tazza di caffè e raggiungo mio padre in veranda, dove sta bevendo il caffè con una camicia di jeans a maniche lunghe nonostante il caldo umido di

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