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La piramide del faraone maledetto
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La piramide del faraone maledetto
E-book414 pagine6 ore

La piramide del faraone maledetto

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Info su questo ebook

Un maestro del thriller storico

Dall'autore del bestseller La città perduta dei nazisti

65 d.C. Il centurione romano Marco Domizio Enobarbo conduce una spedizione nell’antico tempio della regina Didone per trovare la sua mitica corona nascosta da secoli. Chi ne entra in possesso riceve in dono poteri straordinari. 
1945. In una Berlino avvolta dalle fiamme, due ufficiali nazisti di alto grado scompaiono all’improvviso. Si perdono le tracce anche di un oggetto molto prezioso, che il regime vuole a tutti i costi custodire tra i suoi tesori.
OGGI. Due famiglie, che nel passato avevano avuto rapporti con il nazismo, vengono brutalmente torturate e uccise rispettivamente a New York e Londra. Le modalità di esecuzione ricordano un antico e macabro rituale. Jamie Saintclair, esperto nel recupero di opere d’arte e studioso del passato nazista, viene chiamato dall’ispettore che si occupa dell’indagine. Le sue conoscenze sono indispensabili, ma quando si imbatte in un oscuro segreto che risale a due millenni prima, le sue certezze vacillano. Saintclair dovrà scoprire la verità prima che accada qualcosa di ancora più terribile…

Un oscuro segreto custodito per millenni
Un tesoro che il regime nazista vuole a tutti i costi ottenere

Un grande thriller su uno dei più antichi misteri della storia dell’arte

«Un thriller mozzafiato, che spazia tra diverse epoche storiche.»

«Grandissima suspense fino alla fine.»

«Veloce e incisivo. James Douglas regala sempre intense emozioni.»
James Douglas
È lo pseudonimo di Douglas Jackson, autore di romanzi storici di successo, dei quali la Newton Compton ha pubblicato Morte all’imperatore!; Il segreto dell’imperatore; L’eroe di Roma; Combatti per Roma, La vendetta di Roma. La città perduta dei nazisti è stato il primo di una serie di thriller storici che hanno come protagonista Jamie Saintclair, esperto nel recupero di opere d’arte.
LinguaItaliano
Data di uscita13 lug 2017
ISBN9788822712646
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    Anteprima del libro

    La piramide del faraone maledetto - James Douglas

    1692

    Titolo originale: The Isis Covenant

    Copyright © James Douglas, 2012

    First published as The Isis Covenant by Transworld Publishers, a division of The Random House Group Ltd.

    James Douglas has asserted his right under the Copyright, Designs and Patents Act 1988 to be identified as the author of this work.

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Ilaria Ghisletti

    Prima edizione ebook: settembre 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1264-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Oldoni Grafica Editoriale, Milano – www.oldoni.com

    James Douglas

    La piramide

    del faraone maledetto

    01_OMINO-1.tif

    Newton Compton editori

    Indice

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Capitolo X

    Capitolo XI

    Capitolo XII

    Capitolo XIII

    Capitolo XIV

    Capitolo XV

    Capitolo XVI

    Capitolo XVII

    Capitolo XVIII

    Capitolo XIX

    Capitolo XX

    Capitolo XXI

    Capitolo XXII

    Capitolo XXIII

    Capitolo XXIV

    Capitolo XXV

    Capitolo XXVI

    Capitolo XXVII

    Capitolo XXVIII

    Capitolo XXIX

    Capitolo XXX

    Capitolo XXXI

    Capitolo XXXII

    Capitolo XXXIII

    Capitolo XXXIV

    Capitolo XXV

    Capitolo XXXVI

    Capitolo XXXVII

    Capitolo XXXVIII

    Capitolo XXXIX

    Capitolo XL

    Capitolo XLI

    Capitolo XLII

    Capitolo XLIII

    Capitolo XLIV

    Capitolo XLV

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Per Shona e Derek,

    gli amici migliori al mondo

    I

    Per due giorni camminammo nelle tenebre dell’Oltretomba prima di giungere al tesoro della regina Didone. Più di una volta temetti che ci saremmo persi per sempre in quelle caverne.

    Le parole erano balbettanti e a tratti incomprensibili. La voce un sussurro a malapena formato, fragile come il suo proprietario, il paziente dai capelli d’argento sdraiato su quel letto d’ospedale. Seduto al suo capezzale, l’uomo alto e biondo premette il pulsante del registratore digitale e ascoltò le due frasi per la quarta volta.

    Per due giorni camminammo nelle tenebre dell’Oltretomba prima di giungere al tesoro della regina Didone...

    Era stato così fin dall’inizio: frammenti sconclusionati di storie in una dozzina di lingue diverse, ognuno dei quali accennava in modo frustrante a una verità completa ma per il momento incomprensibile. All’inizio era stato stimolante, alla lunga era diventato uno strazio. Nomi le cui identità erano state chiarite solo grazie ai libri di storia. I medici lo chiamavano disturbo da personalità multipla e secondo loro non era così insolito che un paziente iniziasse di colpo a parlare lingue straniere, perfino alcune che non poteva di certo aver imparato. Non sapevano spiegarne il motivo, ma capitava. Solo l’uomo biondo sapeva che quel caso era diverso dagli altri. Perciò aveva iniziato a registrare i patetici vaneggiamenti di una mente vicina all’autodistruzione.

    La stanza della clinica era grande e ariosa, ma per un attimo l’uomo fece fatica a respirare. Si alzò dalla sedia di plastica imbottita e aprì la finestra, inspirando l’odore di gas di scarico che arrivava dal traffico continuo e assordante della vicina Euston Road. Una combinazione di parole dello stralcio registrato gli ricordava qualcosa. Cercò in memoria le registrazioni precedenti, ascoltando inconsciamente il suono stridulo e irritante del dispositivo che ricercava la sezione che voleva ascoltare. ... per sempre in quelle caverne.

    Era uno dei brani più lunghi e l’uomo aggrottò la fronte per la concentrazione.

    Ordinai ai miei legionari di murare l’imboccatura della caverna e, usando come schiavi i sacerdoti e gli scribi sopravvissuti, feci deviare un torrente in modo da formare uno stagno immobile che avrebbe nascosto per sempre l’accesso alle grotte. Ultimato il lavoro, feci passare a fil di spada tutti gli schiavi, feci bruciare i loro corpi e sbriciolare le ossa in modo da non lasciare più tracce della loro esistenza terrena.

    Paul Dornberger ascoltò con distacco il racconto del massacro. Più del contenuto, era interessante il fatto che le parole fossero state pronunciate in una forma arcaica di latino colloquiale utilizzata a Roma probabilmente intorno all’epoca della morte di Cristo. Paul conosceva il latino e il greco come la sua lingua madre, eppure ci aveva messo settimane prima di associare la registrazione all’idioma che era abituato a leggere e ascoltare.

    Il fragile corpo sul letto emise un lamento, come se avesse captato l’elettricità febbrile nell’aria. Dornberger lo osservò. Non provava nulla dell’affetto o della compassione che un figlio avrebbe dovuto provare.

    Il tesoro della regina Didone.

    Quelle cinque parole lo facevano sentire eccitato come un bambino. Gli facevano venire in mente immagini di forzieri d’oro e gioielli da libro illustrato: un vero tesoro regale. Ma non era quello il dettaglio più importante. Ciò che davvero contava era che le parole del vecchio confermavano qualcosa che andava al di là della ragione, perfino al di là della fede. Qualcosa che il vecchio aveva rivelato durante uno dei rari momenti di lucidità del suo tracollo verticale. Dornberger fece un respiro profondo e si diresse verso la grossa cassaforte inchiodata al pavimento di fianco al letto. Era un modello costoso, il meglio che i soldi del suo datore di lavoro avevano potuto comprare. La osservò per un secondo. La combinazione di chiavi e numeri era scolpita nella sua memoria, tuttavia ripercorse ogni passaggio mentalmente prima di passare all’azione. Era un uomo prudente e quello era il suo modo di agire. Con un debole clic, il pesante sportello di acciaio si aprì, rivelando una grossa borsa di velluto nero del tipo che si usa per riporre gli strumenti musicali di valore.

    Dornberger esitò prima di prenderla. In tutta onestà, il contenuto della borsa lo metteva a disagio come poche altre cose al mondo. Posò la borsa sul letto e sciolse i cordini di seta che la chiudevano. Non c’era fretta. La porta era chiusa a chiave, per scrupolo, in modo che medici e infermieri non potessero entrare senza bussare. Il velluto era morbido sotto le sue dita, mentre scostava i lembi chiusi. Vide subito il bagliore morbido del metallo giallo. Il cuore di Dornberger sussultò mentre estraeva il contenuto dalla borsa.

    Ecco la manifestazione fisica delle parole incise sul nastro: l’impossibile che diventa possibile. L’oggetto nelle sue mani era alto circa quarantacinque centimetri e consisteva in un diadema d’oro sormontato da due corna dello stesso materiale prezioso, curvate in avanti e verso l’esterno, in modo che le punte fossero distanziate tra loro di circa venti centimetri. Tra le corna, vicino alla base nel punto più stretto, c’era un castone pensato per contenere un oggetto delle dimensioni approssimative di un uovo d’anatra. Il diadema era decorato con simboli geroglifici identici a quelli incisi sui manufatti della sezione egizia del British Museum. Al centro, alla base delle corna, c’era un singolo occhio dallo sguardo penetrante. Istintivamente, Dornberger prese il diadema e lo indossò. In un primo momento il metallo gli gelò la fronte, poi però si scaldò in fretta con il calore del suo corpo. Il sangue gli rimbombava nelle orecchie, la vista si appannò e per un secondo credette davvero. Ma la sensazione scomparve in fretta e Dornberger guardò il suo riflesso nella finestra: il completo elegante e il ridicolo copricapo. Un uomo giovane dalla mascella quadrata e dall’espressione rigida, capelli corti e biondi, occhi stretti e chiarissimi che la gente trovava difficili da decifrare. Con una smorfia disgustata si tolse la corona e la riportò al letto di Max Dornberger.

    «Bene, vecchio... e se davvero credessi alla tua follia? Se fosse tutto vero, come faccio a trovarlo?».

    Come prevedibile, non ci fu risposta.

    Dornberger ripose la corona con la stessa cura con cui l’aveva presa e rimise la borsa di velluto nella cassaforte, premendo qualche tasto a caso per far scattare la serratura.

    Quando fu soddisfatto si chinò sul letto e baciò il padre sulla fronte. Se avesse potuto vedersi dall’esterno si sarebbe stupito dell’affetto di quel gesto. Prese il registratore appoggiato sulla cassaforte e lo fissò per alcuni secondi, forse sperando che gli rivelasse qualche segreto. L’oggetto, però, era silenzioso come il vecchio.

    Scuotendo la testa per la sua stessa stupidità, Dornberger toccò la maniglia della porta.

    Poi la parola arrivò come un sussurro nel vento.

    «Come?», chiese, anche se sapeva bene cosa aveva sentito.

    Hartmann.

    II

    Myron Deloite aprì la doppietta assaporando il piacevole schiocco, soffiò via la polvere e inserì con cautela le due cartucce buckshot al loro posto. Si ritrovò a sorridere ricordando quel mercoledì sera dietro i garage, con Soraya. Cazzo, quella era davvero merce di prima scelta, ma non costava poco. Prima bisognava metterla dell’umore giusto con un po’ di erba, poi eccitarla con un paio di strisce di coca. Erano le ragazze come lei che l’avevano fatto finire nei guai, però Myron non poteva stare lontano da quei culetti sexy e da quelle manine instancabili. Soddisfatto, richiuse il fucile e lucidò le canne con uno straccio sporco che aveva trovato nella credenza del suo appartamento affittato.

    Un tempo la doppietta era stata una gran bella arma, ma poi qualcuno aveva crudelmente mozzato quindici centimetri di legno di quercia e le canne nere e lucide erano state segate a cinque centimetri dal calcio. Ormai il fucile era lungo poco più di mezzo metro.

    Myron avrebbe preferito una pistola, o magari uno di quei simpatici M10 che vomitavano fuori trenta raffiche nel tempo di uno sputo, ma la doppietta costava poco e il soldato Myron Deloite al momento aveva qualche problema di liquidità. In fondo quello che contava era che la doppietta fosse facile da usare e facesse il suo sporco lavoro aprendo un bel buco in quello a cui sparavi. Myron aveva visto cosa riusciva a fare perché aveva insistito per assistere a una dimostrazione. Magari non era l’uomo più furbo della Terra, ma non era neanche il più scemo. Non voleva comprare un fucile che gli scoppiasse in faccia.

    Legò un pezzo di spago al calcio per creare una specie di tracolla abbastanza lunga da poter essere infilata sulla spalla. Ci vollero un paio di tentativi per azzeccare la misura giusta, ma alla fine la doppietta si ritrovò bella comoda contro la sua coscia destra, con un gioco sufficiente perché potesse afferrarla e sparare tenendola sul fianco. Il lungo cappotto nero che qualche notte prima aveva rubato in un bar era appeso dietro la porta. Myron lo indossò e si guardò allo specchio. Nessun rigonfiamento strano o bozzo sospetto. Avrebbe dovuto sedersi in metropolitana con la gamba tesa, ma poteva farcela. Slacciò il cappotto per poter prendere la doppietta il più in fretta possibile e fece un altro paio di prove per impratichirsi. Era una figata pazzesca: si sentiva come Clint Eastwood. Ti senti fortunato, stronzo?.

    Myron aveva passato tre giorni a studiare il bersaglio prima di trovare quello che cercava. Tre cazzo di giorni in piedi sotto la pioggia o seduto in bar troppo costosi a coccolare una tazza di caffè, con la cameriera che lo fissava come una merda di cane portata dentro sotto la suola di un cliente. Casa, metropolitana, ufficio. Ufficio, metropolitana, casa. Non usciva mai la sera. Non andava mai a farsi un giro. Non faceva mai niente da solo. Poi, tornando verso casa dopo una notte in bianco, Myron aveva scoperto che Mr Man faceva jogging. Mr Man andava a correre nel parco all’alba, tutto solo. E Mr Man era un cretino: l’aveva spiato per quattro mattine di fila e non l’aveva mai visto cambiare percorso. Non cambiava neanche il senso della corsa. Perciò Mr Man era un uomo morto.

    Myron si guardò il polso. Il quadrante del Rolex segnava le 4:35 del mattino, e Mr Man usciva sempre alle 6:15 spaccate. Un sacco di tempo per prendere il primo treno da Brixton e raggiungere Lancaster Gate in tempo per attraversare il parco a piedi e appostarsi nel punto che aveva scelto per l’esecuzione.

    Immaginando il colpo si era sentito eccitato, ma anche esausto. Queste levatacce stanno uccidendo anche me, bello. Rise da solo per la battuta. Aveva bisogno di una botta per schiarirsi le idee, ecco tutto. Cercò nella cassettiera e prese un sacchetto di polvere bianca. Gli bastava vederla per sentire il cuore battere più in fretta. Purissima cocaina colombiana. Doveva ancora pagarla, ma in fondo era per quello che si dava da fare. Il gentiluomo che gli forniva il materiale ricreativo gli aveva fatto capire che avrebbe potuto cancellare tutti i suoi debiti e anche pararsi le chiappe per il futuro. Myron non era nella posizione per rifiutare. Aveva già fatto lavoretti del genere. Sì, certo, alcuni erano venuti meglio di altri, ma in fondo l’aveva sempre scampata, no? Mr Man era un bianco ricco e viziato. Si sarebbe fatto sorprendere come un pollo. Myron preparò una striscia sul tavolo e l’aspirò direttamente dalla plastica strappata. Era come una scarica elettrica nel cervello. Si sentiva già meglio.

    Tornò allo specchio e tirò fuori la doppietta dal cappotto. Ti senti fortunato, stronzo?

    Jamie Saintclair grugnì mentre la sveglia sul comodino trillava implacabile. Gesù Cristo, perché continuava a farsi del male in quel modo? Rotolò sulla pancia cercando il pulsante della sveglia. Non doveva rimettersi a dormire. Se avesse richiuso gli occhi non si sarebbe alzato più. Si costrinse a uscire dal letto. A quell’ora Sarah sarebbe stata già in piedi, schizzando da una parte all’altra come una palla di gomma demente con una tuta da corsa. Lui preferiva ritmi più calmi. Niente Sarah, almeno per tre mesi. Era tornata nella Terra dei Liberi per trovare se stessa, o almeno così gli aveva detto. Jamie si infilò a fatica i calzoncini di lycra, non faceva ancora abbastanza freddo per i pantaloni lunghi, poi afferrò la maglietta, quella con Guernica di Picasso che aveva comprato a nove euro in un museo di Madrid. Cinque minuti dopo ne aveva vista una identica a tre euro su una bancarella nella strada vicina. Le scarpe da corsa Nike presto avrebbero dovuto trovare un rimpiazzo. Non subito, ma comunque presto. Vagò disorientato nell’appartamento fino a trovare la porta di ingresso e le scale che lo portarono in strada. Kensington High Street. A quell’ora non era del tutto deserta, ma grazie al cielo c’era pochissima gente in giro. Jamie non iniziò a correre subito, si limitò a camminare per un po’ a passo sostenuto fermandosi ogni tanto per un po’ di stretching inefficace che lo faceva sembrare un imbecille. E finalmente il parco. Imboccò il solito sentiero sulla diagonale lunga che superava il lago rotondo, prima piano, lasciando che il sangue irrorasse i muscoli per prepararli gradualmente alla corsa. Il respiro era un po’ faticoso, ma presto sarebbe diventato regolare. Finalmente trovò il ritmo istintivo della corsa e smise di pensare. Ecco il bello di correre a quell’ora del mattino: si poteva farlo continuando a dormire. L’idea lo fece sorridere e il sorriso lo fece pensare a Sarah, che a sua volta lo fece smettere di sorridere. Non sorrideva granché da quando se n’era andata. Non. Pensare. A. Sarah. Funzionò, perché all’improvviso Jamie si ritrovò a Lancaster Gate e si preparò a costeggiare i laghetti ornamentali vicini al sentiero sulla Serpentine. Aveva bisogno di farlo davvero tutti i giorni? Era ancora giovane. A trent’anni e qualcosa uno è ancora giovane, no? E non era mai stato così in forma, grazie alle corse mattutine con Sarah e alle lezioni di scherma. E comunque un mercante d’arte non ha bisogno di essere un maratoneta. Dev’essere bravo con la gente. Se avesse usato le ore passate a correre per curare le relazioni sociali forse sarebbe stato più ricco.

    Cra! Jamie sobbalzò per il verso rauco e per il frullo d’ali che annunciavano il passaggio di un airone decisamente furibondo.

    «Scusa se ti ho rovinato la colazione, amico», borbottò Jamie correndo tra gli alberi.

    Dalla sua posizione invisibile sul luogo dell’esecuzione, Myron sentì un rumore lontano di ghiaia calpestata. Si spostò per vedere meglio il sentiero tra gli alberi. Non voleva sparare all’atleta sbagliato, no? Alzò gli occhi verso il cielo di un livido color piombo. Quasi l’alba. Il sentiero era illuminato artificialmente, e in ogni caso Myron aveva così tanta cocaina in circolo che avrebbe potuto vedere anche al buio. Non era nervoso, solamente eccitato. Odiava i ricchi bianchi e quello stronzetto era bianco e ricco. Tutti i giorni andava dalla bella casa di Kensington fino all’elegante ufficio di Bond Street. Quel bianco viziato aveva tutto. Be’, ci avrebbe pensato Myron a portarglielo via.

    Il suono ritmico della corsa si avvicinò. Myron vide i lampi fosforescenti delle scarpe da jogging illuminate dai lampioni. Più vicino. Più vicino. Proprio come aveva previsto: un corridore con una maglietta scura, a testa bassa, pensieroso, dell’altezza e della corporatura giusta. Mr Man. Respirò più in fretta. Si avvicinò ancora. Ormai era abbastanza vicino da non poter fuggire. Mr Man era un uomo morto.

    Myron uscì allo scoperto, estrasse la doppietta, puntò al cuore dell’uomo e premette entrambi i grilletti.

    Jamie stava per fermarsi quando vide l’uomo sbucare fuori da dietro la statua bronzea di Peter Pan. Il suo primo istinto sarebbe stato la fuga, ma poi vide le canne gemelle della doppietta che lo fissavano e capì che poteva solamente correre addosso al suo aggressore. Sarebbe morto, quello era fuori discussione, ma almeno sarebbe morto combattendo. Quindi gridò come gli avevano insegnato nell’esercito e saltò addosso all’uomo con il cappotto.

    Incredulo, Myron si rese conto che quella merda di doppietta non aveva fatto fuoco. Tentò di premere di nuovo il grilletto, disperatamente, mentre quella specie di demone ululante lo caricava a testa bassa. Non successe nulla. Fortunatamente per Jamie, il venditore non aveva avvisato Myron della sicura dietro il grilletto, e Myron dal canto suo, eccitato per le potenzialità del nuovo giocattolo, non si era preso la briga di chiedere. Fortuna doppia perché, come Jamie scoprì un secondo dopo essersi schiantato contro il petto di Myron deviando le canne verso il cielo, la sicura non impedisce lo sparo nel cento per cento dei casi. Le due esplosioni simultanee li assordarono entrambi. Terrorizzato, Myron lasciò cadere la doppietta e restò impotente nelle mani della sua furiosa, terrorizzata e pericolosa vittima. Myron aveva diciannove anni ed era altro un metro e settanta. Jamie superava il metro e ottanta, era ben piazzato, aveva studiato pugilato a Cambridge e si era allenato alla lotta con gente che era capace di uccidere a mani nude. Finì tutto in meno di trenta secondi.

    «Va bene, piccolo bastardo», ringhiò Jamie, sedendosi a cavalcioni sulla schiena dell’aggressore e bloccandogli entrambe le braccia. «Cosa cazzo cercavi di fare?».

    L’unica risposta che ricevette fu una gragnola di insulti molto creativi, alcuni dei quali non aveva mai sentito in vita sua. Si spostò caricando tutto il suo peso sul ginocchio premuto contro la schiena del ragazzo, che reagì con un soddisfacente strillo di agonia.

    «Senti, mio giovane amico dal grilletto facile», gli sussurrò Jamie all’orecchio. «Tra poco andrai alla polizia, in ogni caso. Il punto è vedere se ci andrai intero o meno». Bloccò il braccio destro di Myron con un ginocchio e gli afferrò il polso sinistro. «Adesso devi scegliere: posso romperti tutte le dita una per una, più o meno così». Si sentì uno schiocco secco e Myron strillò di nuovo.

    «Sappi che questo è solo slogato. Comunque, la seconda opzione è peggio: posso farti uscire il braccio dall’articolazione e lasciarti invalido a vita». Fece forza sul braccio e fu premiato da un altro urlo, seguito da un gemito quando allentò la presa. «Quindi te lo chiedo di nuovo. Che cosa cercavi di fare? Perché volevi uccidermi?»

    «Non volevo», biascicò il ragazzo. «Volevo solo derubarti. Sono disperato. Mi servono soldi per la roba».

    «No, figliolo, dovrai impegnarti un po’ di più. Mi hai preso per un minorato come te?». Jamie sospirò e gli strinse il braccio. «Tentiamo di nuovo».

    «No!», squittì l’aspirante killer. «Ti dirò tutto! Ti dirò tutto. C’è una taglia di diecimila sterline sulla tua testa. Spara e riscuoti. Non ho fatto domande».

    Jamie mollò la presa per lo stupore. «Una taglia?»

    «Una taglia, te lo giuro. Ti prego non farmi male».

    Nella mente di Jamie si affollarono centinaia di domande, ma una sola era quella importante. «Devi dirmi un nome».

    «Non posso». La voce del ragazzo era stridula per il dolore e la disperazione. «Mi ammazzerà».

    «Che peccato».

    «Ovviamente nega tutto».

    Jamie ascoltava il detective malvestito seduto con la schiena contro le contorte radici di bronzo del ceppo che sosteneva la statua di Peter Pan.

    «Dice che se ne andava in giro per i fatti suoi quando lei l’ha aggredito senza motivo».

    «Troverete le sue impronte sulla doppietta», obiettò Jamie.

    «Certo, ma avrebbe fatto meglio a non ridurlo così male. Quel braccio non ha un bell’aspetto».

    Jamie alzò le spalle. «Un uomo con una doppietta incontra un uomo con i calzoncini da corsa. Mi sembrerebbe un caso lampante di legittima difesa, ispettore».

    «Lo penso anch’io, signor Saintclair, oppure sareste seduti insieme sul cellulare. Ma non si può mai dire, di questi tempi: uno di quei bastardi di avvocati e un giudice liberale... può succedere di tutto. Ovviamente io non le ho detto niente del genere».

    «Ovviamente».

    Il detective prese il taccuino. «Un’ultima domanda. Questa taglia, se davvero esiste... ha idea di chi potrebbe volerla morta?».

    Jamie si era posto la stessa domanda. Pazzi neonazisti. Il governo cinese. Il Mossad. La lista era lunga, per non parlare dei suoi nemici nel mondo dell’arte che forse lo odiavano più di quanto pensasse. Però c’era una faccia in particolare che gli era venuta in mente tra tutte le altre. «L’hanno scorso ho incontrato un uomo negli Stati Uniti. Abbiamo avuto un dissapore che gli è costato parecchi soldi. Howard Vanderbilt».

    Il poliziotto segnò il nome sollevando un sopracciglio. «Quell’Howard Vanderbilt?»

    «Posso fare qualcosa nel frattempo?»

    «Per la taglia? Manderemo qualcuno per darle dei consigli. Dopo tutto diecimila sterline non è una somma esorbitante».

    Jamie si sentì leggermente offeso. «Consigli? Tutto qui?»

    «Temo di sì, signore».

    «Forse dopo questo tentativo fallito rinunceranno...».

    «Non ci crede neanche lei, vero, signore?»

    «No», ammise Jamie. «In effetti no».

    III

    «Non è roba per te, Saintclair».

    Le parole vennero biascicate in un peculiare misto di scherno, condiscendenza e familiarità che perfino il più consumato degli snob affinerebbe solo dopo un’intera vita di tentativi. Era passata una settimana dal tentativo di omicidio. Jamie Saintclair si girò, con la tentazione di impartire lo stesso trattamento che aveva riservato all’attualmente indisposto Myron Deloite. Al contrario si costrinse a sfoderare un sorriso.

    «Salve, Peregrine». Lo salutò con un cenno, pensando che un naso rotto avrebbe giovato immensamente alla sua faccia violacea da alcolizzato. Purtroppo Sir Peregrine Perry Dacre era appena stato nominato consigliere del presidente della Royal Collection e godeva di un’influenza incredibilmente ben nascosta dietro il completo volgare, le ascelle sudate e l’espressione sempre assente. Perry era un odioso, viscido pettegolo, noto molestatore di giovani stagiste; tuttavia Jamie, nelle precarie condizioni finanziarie in cui versava, aveva deciso con riluttanza di assecondarlo. Si girarono entrambi verso il dipinto, alto più di due metri, che dominava la parete della galleria londinese e che Dacre aveva stizzosamente preteso di includere in una mostra sul Barocco italiano.

    «Carlo Uno aveva buon gusto in fatto di donne», scherzò il vecchio.

    Jamie intuì che Carlo Uno dovesse essere re Carlo I, il monarca che si riteneva avesse aggiunto il dipinto alla collezione. Ovviamente l’essere vagamente a contatto con la nobiltà consentiva a Dacre di parlare con una familiarità che era negata ai comuni plebei. In ogni caso il vecchio non aveva tutti i torti. La ragazza era piuttosto interessante. Occhi scuri, carnagione chiara, labbra tumide e curve come l’arco di Cupido, protese verso il cherubino che era apparso magicamente dal soffitto. Sembrava indecisa se schiacciarlo con uno scacciamosche o mangiarselo. Anche se l’aveva avvolta in quello che sembrava un vecchio tendaggio, l’artista era riuscito a cogliere la rara bellezza che aveva attratto i migliori scapoli di Roma, e che infine l’aveva condotta alla morte. Si diceva che sant’Agnese avesse camminato con gioia verso il martirio. Jamie sperò, se mai si fosse trovato nelle stesse condizioni, di andarsene con la stessa grazia.

    L’occasione si presentò molto prima del previsto.

    «Un Domenichino tra i migliori, direi». Il raglio nasale di Perry richiamò l’attenzione di tutti i presenti, proprio come aveva sperato il baronetto. Stranamente, Jamie era d’accordo. Di sicuro si trattava di uno dei più bei lavori di Domenico Zampieri, un esempio quasi perfetto di quello che veniva chiamato Classicismo bolognese: chiarezza priva di turbamenti, purezza delle linee e luminosa armonia di colori. In ogni caso Jamie rispose solo con un mugugno vagamente perplesso.

    «Non sei d’accordo?». Gli occhi porcini si strinsero per il sospetto.

    «Certamente, Peregrine. È solo che...»

    «Solo cosa?».

    Jamie abbassò la voce. «È solo che l’altro giorno ero ai Musei Vaticani. Conosci Gennaro, no?»

    «Ovviamente».

    «Be’, stavo parlando con uno dei suoi assistenti delle Sibille». Domenichino aveva dipinto due tele pressoché identiche della Sibilla cumana, una delle quali si trovava alla Pinacoteca Vaticana, mentre l’altra alla Galleria Borghese. «A quanto pare saranno riclassificate come scuola di. La cosa metterà in discussione anche altre opere, immagino. E mi pare proprio di aver sentito il nome della povera Agnese». Attese giusto il tempo necessario perché la faccia color melanzana di Peregrine Dacre sfumasse in un simpatico rosa pallido. «Ehi, ciao, Samantha! Adesso devo proprio scappare, Perry. È sempre un piacere parlare con te».

    Jamie rincorse una hostess alta e bionda che passava reggendo un vassoio di tartine. Lei lo squadrò.

    «Cosa vuoi, Jamie Saintclair? Mi pareva che noi due non ci parlassimo più». Lanciò un’occhiata verso Dacre, che fissava il Domenichino con gli occhi sbarrati. «E va bene, a quanto pare hai zittito il babbuino rosa, quindi credo che dovrò perdonarti». Samantha si girò di colpo per guardarlo meglio. Jamie sapeva che la ragazza era in grado di vedere al di là dei capelli scuri e disordinati che ricadevano sui suoi intensi occhi verdi, al di là della bocca sottile e determinata. Ripensava al loro ultimo incontro. Era bella e slanciata – erano tutte belle e slanciate. Un tipico esemplare della sua specie: diploma conseguito in qualche neogotico tempio del sapere, inverni passati sciando a Klosters, estati sullo yacht di qualche amico nel Mediterraneo, si presentava al lavoro a martedì alterni solo per salutare i suoi amici snob. Jamie aveva pensato che andare a letto con lei sarebbe stato proprio come scoparsi una statuina di porcellana, invece la ragazza gli aveva regalato le quattro ore più perverse della sua vita. Aveva anche insistito per coinvolgere un tizio di nome Charles, che a suo parere avrebbe dato un tocco in più alla cosa. Il ricordo gli provocò un gemito interiore e all’improvviso gli tornò in mente il viso di Sarah Grant. Tornare in America era stata una sua decisione, ma questo non serviva ad alleggerire il senso di colpa.

    «Tutto bene, tesoro?».

    Jamie fece una smorfia indicando le tartine. «Un po’ d’indigestione».

    In fondo alla stanza scorse per un attimo un viso segnato, vagamente familiare, ma Samantha lo spinse nella direzione opposta. «Poi mi ringrazierai», sussurrò lei. «Quell’ometto odioso mi ha annoiata per mezz’ora con la storia di qualche vecchio frammento di manoscritto che un altro ometto odioso avrebbe ritrovato a Parigi».

    In realtà quell’ometto odioso era uno dei più eminenti esperti britannici di storia romana. Purtroppo Jamie non riusciva a togliersi dalla testa Sarah e il Raffaello. Per sei brevi mesi Sarah aveva riempito la sua vita e per un po’ Jamie aveva creduto che il Raffaello che avevano ritrovato insieme in un vecchio bunker nazista tra le vette dello Harz sarebbe bastato a renderlo ricco. Ma alla fine l’agente americana del Mossad aveva capito che il Jamie Saintclair che l’aveva accompagnata in giro per l’Europa, schivando pallottole e granate, non era lo stesso uomo che era scivolato troppo in fretta nella sua vecchia routine londinese. Dopo un addio pieno di lacrime, lei era tornata a Boston per riflettere e Jamie, dentro di sé, sapeva bene che non sarebbe mai tornata. Per di più il Raffaello era rimasto nel limbo in cui il mondo dell’arte relegava tutto ciò che non riusciva a comprendere pienamente, e i pagamenti erano stati sospesi.

    Quindi Jamie era di nuovo nelle stesse condizioni in cui si trovava prima dell’affare Doomsday. Non proprio povero. Non proprio disoccupato. Un mercante d’arte alle prime armi la cui carriera aveva subito un brutto colpo quando aveva ritrovato un Rembrandt rubato dai nazisti a una famiglia ebrea parigina, e così facendo aveva rovinato la reputazione di un collega e si era guadagnato l’eterno disprezzo dei membri dell’establishment come Peregrine Dacre. Se era riuscito a rientrare nell’ambiente dalla porta di servizio, guadagnando abbastanza per stare a galla, lo doveva solo a vecchi amici come il romano Gennaro di Stefano, che apprezzava il suo talento innato di saper trovare il dettaglio sbagliato in un’opera dalla provenienza apparentemente immacolata, e a persone come Samantha, a cui, per ragioni sconosciute, era riuscito a piacere veramente.

    Lei lo trascinò con nonchalance attraverso le sale affollate, sospingendolo verso una stanza più piccola e osservando con attenzione i visitatori. «C’è un tale che dovresti conoscere. Stavamo chiacchierando e ho fatto il tuo nome. Potrebbe avere un lavoro per te. Ma dov’è finito? Oh, eccolo. Oleg, tesoro!». Fece per salutare qualcuno che stava giusto uscendo. Nessuno le rispose. Prima che Oleg scomparisse, Jamie fece in tempo a vedere un uomo massiccio con una massa di riccioli scuri circondato da un gregge di solerti guardie del corpo. «Stronzo», sbuffò Samantha. «Questi miliardari russi... un sacco di soldi e zero educazione. Senti, io mi sto annoiando a morte. Perché più tardi non mi porti a bere qualcosa?».

    Prima che Jamie potesse rispondere, il suo cellulare iniziò a trillare nella tasca della giacca, attirando le occhiate di riprovazione di chiunque fosse a portata di orecchio, Samantha inclusa. Si era reso conto troppo tardi di non aver spento il telefonino.

    «Scusate», disse, sorridendo in modo stupido e accostando contemporaneamente il telefono all’orecchio. Si diresse verso l’uscita, dove un gruppetto di persone aspettava di ritirare i cappotti dal guardaroba. All’inizio non riconobbe la voce, ma quando il chiacchiericcio scemò si rese conto che si trattava del suo avvocato.

    «Jamie? Come diavolo stai?». Il tono era pericolosamente allegro.

    «Tutto a posto, Rashid. Come mai non sei in uno di quei tuoi sordidi bar?»

    «In realtà ero lì fino a un momento fa, ma ho ricevuto una telefonata da Berlino che ti dovrebbe interessare». Nonostante tutto, Jamie sentì una sferzata di ottimismo. Finalmente. «Il comitato nazionale nominato dagli Staatliche Museen ha dichiarato che il Raffaello è autentico. È proprio quel Ritratto di giovane che fu rubato dal Museo Czartoryski di Cracovia...». Poi la voce di Rashid si fece incerta e le speranze di Jamie appassirono. «Il problema sono gli esperti esterni che dovrebbero confermare l’attribuzione. Uno dei due dice che non è sicuro al cento per cento e che esiste una minima possibilità che sia l’opera di un apprendista. L’altro invece è certissimo che si tratti di un falso». L’avvocato esitò aspettando una risposta, ma Jamie non trovò niente da dire. Vide Peregrine Dacre che lo fissava dalla porta con un sorrisetto pigro sulla faccia suina. «Senti, Jamie, sono tutte cazzate. Quel tizio non ha prove, dice solo che se lo sente. Però ha

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