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Il mistero della reliquia dimenticata
Il mistero della reliquia dimenticata
Il mistero della reliquia dimenticata
E-book380 pagine4 ore

Il mistero della reliquia dimenticata

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Info su questo ebook

Dall’autore di La mappa della città morta

Potente come Clive Cussler

Il nuovo talento del thriller d’avventura italiano

Mentre un’epidemia di antrace flagella gli allevamenti della Val d’Agri, il cuore petrolifero della Basilicata, qualcuno fa apparire dei misteriosi altari nelle campagne, opera forse della stessa mano che ha tentato di sottrarre una preziosa reliquia da una chiesa locale. Quando, su un altare, tra croci e candele viene deposto il cadavere di una vecchia, gli eventi prendono una piega inattesa. Le accuse ricadono su Lucio Lobello, trentenne ludopatico e tossicodipendente che nasconde un segreto inconfessabile: quello di essere il diavolo, il principe delle tenebre in persona, che da millenni erra per il mondo sotto mentite spoglie sfuggendo a un gruppo di arcangeli che vorrebbe ricacciarlo negli inferi. O almeno così crede lui. Ma per scampare a una condanna per omicidio, stavolta Lobello dovrà allearsi proprio con uno dei suoi inveterati avversari: un prete…

«Chiuso l’ultimo capitolo, si ha la sensazione di essere tornati da un viaggio incredibile e questo, in un libro, non è facile da trovare.»
Stefano Santarsiere
è nato nel 1974, vive e lavora a Bologna. Ha diretto il cortometraggio Scaffale 27, aggiudicandosi il primo premio nel contest Complete Your Fiction 2012. Ha pubblicato i romanzi L’arte di Khem, Ultimi quaranta secondi della storia del mondo, e con la Newton Compton La mappa della città morta e I guardiani dell’isola perduta.
LinguaItaliano
Data di uscita25 mag 2018
ISBN9788822722201
Il mistero della reliquia dimenticata

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    Anteprima del libro

    Il mistero della reliquia dimenticata - Stefano Santarsiere

    Parte prima

    FINO A QUI

    1

    Come mai sei caduto dal cielo,

    astro mattutino, figlio dell’aurora?

    Come mai sei atterrato,

    tu che calpestavi le nazioni?

    Isaia 14:12

    Mi sacrifico per la menzogna.

    È una faccenda che va avanti da millenni. Mi sacrifico per la menzogna e mi tocca farlo in modi sempre nuovi, mentre i campioni della verità si affidano ai soliti metodi.

    Ne ho conosciuti a centinaia nei secoli trascorsi qui: cambiano le epoche, cambiano i regimi, ma alla fine è sempre la stessa storia del bastone e la carota. Vessazioni e blandizie, a diversi gradi di violenza e perfidia.

    Questi qui, per esempio, non mi hanno fatto alcun male. Il loro concetto di coercizione soffre limiti etici e legali parecchio accentuati. Di certo vedono in me l’inatteso regalo di una notte d’autunno, dopo settimane ad annaspare su un omicidio intriso di elementi rituali, ma per adesso fingono di attenersi al fatto minore: l’effrazione compiuta in una chiesa sottoposta a sigilli.

    Il commissario Lamanna è un tipo segaligno, sulla cinquantina, con un logoro completo di fustagno. La faccia affilata e il naso all’ingiù mi fanno pensare alle maschere dei medici ai tempi della peste nera. Dirige con piglio spavaldo il commissariato di Viggiano, uno dei più importanti della Basilicata, perché ha santi protettori da Potenza fino a Roma. E ovviamente il comune di Santerio ricade nella sua competenza.

    L’ispettore, quel Carlucci che venerdì sera faceva domande al bar, è più giovane di lui. Una mezza calza in giacca marrone e un ciuffo di capelli del colore e la consistenza della paglia di legno. Mi ricorda quel perdente di Longino il centurione: solerte, obbediente ai codici ma incline all’indulgenza. Scommetto che sarà lui a stilare il rapporto.

    Non si sono presi la briga di convocare un avvocato d’ufficio. «Solo sommarie informazioni», ha tenuto a precisare il commissario; ma poi hanno accennato a tenermi qui per la notte.

    Dopo un po’ sono usciti. «Pensa bene a quello che devi dirci», ha borbottato Lamanna, con il tono di chi promette di tornare dopo poco.

    È stato mentre li guardavo chiudere la porta, osservando i loro visi esausti, che per un istante ho pensato di rivelargli chi sono realmente: Figlioli, quando Abramo fu chiamato al sacrificio di Isacco io calpestavo questa terra già da secoli. Ho concluso che mi avrebbero sottoposto a un esame tossicologico, con il risultato di un’imputazione supplementare.

    Non mi preoccupa affatto la sorte che mi attende. Ho avuto a che fare con professionisti della coercizione che al confronto Carlucci e Lamanna fanno la figura dei dilettanti. Come nel 1941 ad Amburgo. Oppure nel 1209: ero insieme ad altri quattro Càtari nel sotterraneo a Béziers, sotto i ferri di Jérome de Ville. Dopo sei ore di torture ero privo di un occhio, avevo entrambi i piedi amputati e l’aria gravava del puzzo dei nostri testicoli stritolati nelle tenaglie arroventate.

    In questa stanza non vedo la stessa crudeltà, perché non si agisce in nome di Dio. Spegneranno la lampada, forse dimenticandomi su questa sedia. Penserò a Rosalba Castaldo che mi ha messo in questo guaio, immaginerò la cella che mi attende a Lagonegro… e tutto ciò sarà nulla in confronto all’Inferno.

    Quello vero. Dal quale sfuggo per pura e semplice vigliaccheria.

    La porta si apre ed ecco l’ispettore che fa ritorno. Solo. Mi porge un bicchiere d’acqua e appoggia il registratore mp3 sul tavolo. Per ironia è un modello identico a quello di Rosalba, forse li prendono con gli sconti di qualche tessera fedeltà.

    «È un interrogatorio?», domando.

    Carlucci fa un sospiro infastidito. «Lobe’, te l’abbiamo già detto. Occorrono informazioni preliminari e non voglio perdere tempo a trascriverle. Se hai voglia di interrogatori ti accontentiamo domani, appena il giudice dà l’autorizzazione».

    Bevo una lunga sorsata. Carlucci si siede, incrocia le braccia e mi osserva con gli occhi grigi.

    «Che hai fatto in faccia?».

    D’istinto mi tocco il taglio sotto l’occhio sinistro. Non è così orribile come venerdì sera ma fa ancora la sua brava figura.

    «Una storia di carte».

    L’ispettore inarca un sopracciglio, sento gli ingranaggi del dubbio cigolare nella sua testa.

    «Non dà una bella impressione, Lobe’. Fa pensare male».

    «Che ho cattive compagnie?»

    «Anche l’occhio vuole la sua parte».

    «Il mio l’ha avuta».

    Vuoto il bicchiere in un’altra sorsata e faccio schioccare la lingua.

    L’ispettore sposta la sedia e prende posto davanti a me. Passiamo un intero minuto a guardarci. «Quanto tempo dobbiamo perdere?», dice alla fine.

    «Io non ho problemi», gli rispondo scrutando il bicchiere alla luce della lampada. «Ho tutta l’eternità».

    La sua bocca disegna una smorfia di rammarico.

    «Non penso proprio. Per adesso il commissario resta di là, a recuperare delle carte che ti riguardano». Appoggia gli avambracci sul tavolo, che scricchiola leggermente mentre l’ometto si protende verso di me. «Ma fra poco torna, Lobe’. E l’hai visto pure tu che tipo è, quant’è incazzato, quindi vediamo di fare in fretta e nessuno ci resterà male».

    Gli mostro il bicchiere. «Posso avere altra acqua?»

    «L’avrai dopo. Spiegami che ci facevi nella chiesa». Schiaccia il pulsante di registrazione e il puntino rosso inizia a lampeggiare.

    «Cosa si fa in una chiesa?»

    «Dimmelo tu».

    «Pregavo».

    «E ti sei scelto l’unica chiesa sotto sequestro?»

    «È la mia chiesa». E aggiungo a voce alta, affinché venga registrato in modo chiaro: «Ciascuno ha diritto alla chiesa che desidera, ispettore».

    Inizia ad agitarsi sulla sedia, come se gli prudesse il culo. Non capisco se finge o si sta davvero innervosendo.

    «Se è la tua chiesa, magari sai dirci chi voleva fregarsi la reliquia».

    «Conservare reliquie è una degradante forma di venerazione».

    «Le tue cazzate non mi interessano, Lobe’. Fra dieci minuti Lamanna chiama il magistrato e gli spiega che abbiamo un sospettato per l’omicidio».

    Ecco, mi stavo giusto chiedendo quando avrebbero cominciato a scoprire le carte.

    Carlucci si distende sullo schienale e si gode la mia espressione. «Ué, non lo sai che abbiamo motivo di ritenere che il tentato furto e l’omicidio siano opera della stessa mano?»

    «È quello che dice Televalle», osservo.

    «E se lo dicono ci sarà un motivo. Coppola mica è uno sprovveduto». Si appoggia nuovamente sul tavolo. «E sai cosa pensiamo? Che tu conosci quel motivo. Magari perché quella mano assassina e ladra è proprio la tua».

    Non rispondo.

    «Nella macchinetta abbiamo trovato alcune foto del dipinto, Lobe’. Fammi capire perché fotografavi quella tela».

    Sul piano investigativo è la notizia peggiore. Io e Carlucci – e soprattutto il commissario Lamanna – siamo al corrente della stessa informazione. Con la differenza che loro la conoscono perché sono poliziotti. Mentre io, che agli occhi dei galantuomini sono un tossico e un degenerato, non ho motivi per saperlo.

    Gli occhi di Longino si stringono. «Angiolina Farella… la volevi derubare, vero?». Il tono della voce si fa allusivo. «La vecchia si è ribellata, tu eri strafatto di hashish e così hai perso il controllo».

    «Non la conoscevo neppure», mento.

    «Raccontane un’altra, in questi paesi si conoscono tutti. Sapevi che andava in quella casa. L’hai seguita, la volevi ripulire. Lei si è ribellata e tu l’hai strangolata e trascinata su quella tavola con le candele accese».

    Faccio affiorare un sorrisetto. «Un po’ teatrale per un omicidio a scopo di rapina, non trova?».

    «E chi lo sa che ti passa per la testa, Lobe’. Magari ce lo dirà lo psichiatra del tribunale. O l’esame tossicologico».

    È un film già visto. Contano sulla mia insipienza per puntellare le loro ipotesi zoppicanti.

    «Ripeto la domanda: è un interrogatorio?»

    «Ripeto la risposta: no».

    Dovrei cucirmi la bocca, qui non c’è un avvocato a darmi di gomito e ogni parola potrebbe finire nel mucchio degli elementi a mio carico. Ma non posso fare a meno di sfidare l’ispettore.

    «E sentiamo», dico, «mi ha visto qualcuno uscire da quella casa? Entrarci con il cane al guinzaglio, il tavolo, le candele e tutto il resto?». Sento i palmi delle mani sudare mentre lo chiedo, e il cuore accelerare i battiti.

    «Presto o tardi qualcuno si farà avanti», risponde Carlucci. Di colpo si raddrizza sulla sedia. «Forza Lobe’, collabora. Il giudice ne terrà conto. Sei giovane, puoi risparmiarti dieci anni e uscire che sei ancora abbastanza arzillo da godertela un po’». Stavolta resto in silenzio e lui mi guarda in tralice. «Guarda che così peggiori la situazione. Dimmi che ci facevi in quella chiesa».

    «Provavo il coro della domenica».

    Sbatte un pugno sul tavolo. Il bicchiere salta e rotola verso il bordo, dove l’afferra prima che precipiti sul pavimento. Si alza e viene ad afferrarmi il bavero.

    «Non ti azzardare a prendermi per il culo, brutto pezzo di merda».

    Mi scuote come un sacco di stracci; una fitta mi esplode nel cranio e bagliori turchese brillano ai lati del campo visivo. L’acqua ha cancellato la sete ma ha rivelato un’altra necessità: lo shabu. Darei metà delle anime dell’Inferno per avere quei diamantini a portata di mano.

    «Era una povera vecchia!», urla l’ispettore. «Non avrà avuto nemmeno la forza di gridare». Goccioline di saliva mi irrorano la faccia. «A pensarci può farti perdere la testa, capisci? E quando perdi la testa fai cose che non dovresti. Le fai e poi non te ne ricordi. La gente dirà: Carlucci aveva perso la testa, non ci vedeva dalla rabbia e quello gliel’ha strappate di mano». Mi alita a cinque centimetri dal naso. Distolgo lo sguardo e lancio un’occhiata al registratore.

    «Quel coso è acceso, vero?».

    L’ispettore sgrana gli occhi. Guarda l’apparecchio, guarda me, poi molla il bavero e mi raddrizza il giubbotto, con gesti falsamente premurosi.

    «Già, torniamo al punto», dice con un ghigno. «Non è successo niente. È soltanto per le sommarie informazioni», e torna a sedere.

    Mi sistemo sulla sedia e passo una mano sul viso.

    «Interrogatorio o no, non c’entro con il tentativo di furto», mormoro in tono offeso.

    «Io la penso diversamente», risponde. «Dieci giorni fa volevi fregarti la reliquia e oggi sei andato a completare il lavoro». Si morde un labbro. «E se è così, hai sicuramente a che fare con il nostro amico Geppetto».

    La mia mente, in carenza anfetaminica, mi sussurra una frase inconcludente: Non lo chiamare Geppetto davanti a lei, se non vuoi farla incazzare. Il pensiero successivo, ancor più superfluo e del tutto voluttuario, è la reazione di Rosalba alla notizia del mio arresto: la immagino preoccupata per quello che potrei dire.

    Ma io non farò il suo nome. Non corri rischi, mia dolce Lilith. Del resto, la scheda di memoria della fotocamera contiene solo immagini scattate nella chiesa. Nei guai ci sono soltanto io.

    E io non tradisco. Nonostante le Sacre Scritture.

    L’ispettore avvicina il viso, ho la sensazione lancinante che il suo alito sappia di metadone. «O magari Geppetto sei proprio tu», scandisce.

    Se Longino si aspettava una reazione rivelatrice devo averlo deluso parecchio, perché resto immobile. Provo un sottile orgoglio nel sollevare all’insù gli angoli delle labbra e sostenere il suo sguardo da addestratore fallito. So il fatto mio. Avverto l’assenza dello shabu scavare una voragine nella mia cassa toracica, ma sono ancora lucido per affrontare questa dannata faccenda. Millenni trascorsi a errare per il mondo mi hanno insegnato tutto sull’umana arte della simulazione.

    Questo piccolo ispettore di provincia, per esempio, fa il duro ma non ha un bel niente. Non possono incastrarmi per omicidio solo per un’effrazione e qualche foto rubata in chiesa.

    L’unico vantaggio che Longino ha su di me deriva dalla privazione delle anfetamine. È un’arma che per adesso non sa neppure di possedere ma con la quale può ridurmi a un supplichevole, tremulo mendicante di droga, pronto a svendere la poca libertà che gli resta in cambio di un diamante colorato.

    Oh, san Martino, se potessi venirmi in soccorso!

    La porta si apre e si richiude, ecco Lamanna che fa ritorno. Ha un fascicolo non troppo voluminoso tra le mani. «Hai visto che fa perdere la pazienza pure a te?».

    Carlucci molla la presa. «Mannò, è nu bravo guaglione, vedrai che adesso ci racconta tutto».

    Proprio come pensavo.

    È un vero interrogatorio.

    2

    Beati quelli che osservano le sue testimonianze,

    che lo cercano con tutto il cuore.

    Salmi 119:2

    Dodici giorni prima

    Mercoledì 1 ottobre. Tardo pomeriggio

    Un tempo erano dappertutto.

    Per secoli, il mondo è stato riempito di altari votivi in onore di ogni sorta di divinità. La gente li erigeva con libertà sfrenata offrendo al dio, spirito o demone di turno pendagli, ori, cibo, ma anche esseri umani interi. Edicole e nicchie occupavano l’angolo più intimo delle case e raccoglievano silenziose orazioni in onore dei defunti o suppliche a entità pagane. Ogni giardino esibiva il tempietto di famiglia e ogni ingresso un piccolo vano con la statuina di terracotta dall’aria benedicente.

    Ma nell’ultimo secolo sono diventati fuori moda. Limitati alle liturgie ufficiali, relegati all’interno delle chiese o dei cimiteri. La gente si è dedicata a un dio scintillante e vorticoso che non ha bisogno di un larario, ma di un semplice portafoglio, così gli altari votivi sono spariti dalle case, dai giardini e dal mondo intero, come i telefoni a disco.

    Ma nelle ultime settimane, nelle campagne di Santerio ne è apparso qualcuno. Dapprima una semplice buca con al centro una bisaccia e una conchiglia, in contrada Finaide. Nulla di identificabile come una reale venerazione.

    Poi quattro assi accroccate a formare un tavolo malfermo, con un coltellino, una croce e un mezzo bastone depositati sulla mensa, in contrada Varcolaino.

    E poi ancora a Santa Barbara, Castrone, Valentuccia, Colemanno e svariate altre. Segnacoli di un culto praticato da un anacoreta solitario, o un buontempone in vena di scherzi, ma pur sempre in grado di interrogare contadini e allevatori.

    Per giorni, la questione è stata oggetto di chiacchiere nei bar e dei timori superstiziosi delle vecchie che si segnano davanti alle porte e snocciolano rosari in chiesa. Perché l’apparizione di altari votivi fuori dal controllo ecclesiastico è di cattivo augurio, specie mentre infuria l’antrace negli allevamenti.

    Oggi tocca a me scovarne uno. A Tempa del Conte è apparso qualcosa di più sofisticato, che mostra un progresso nella storia e mi fa ritardare l’incontro con Mariela.

    Il sole è sparito dietro la cresta del monte e il giorno languisce come un pesce estratto dall’acqua. Sotto il monte di Viggiano, la fiamma della Italpetroli arde il suo sulfureo splendore, riflettendosi sul disco di nuvole che staziona perennemente sopra il centro oli; si può avvertire l’odore pungente delle emissioni perfino a questa distanza, nei giorni in cui i venti sferzano la valle.

    L’altare mi è apparso ai margini del sentiero che conduce al campo di Lavitola, in un’area sgombra tra il ciglio e il bosco. Un piccolo pulpito costruito in pietre e listelli di legno piantati nel terreno.

    L’insieme ha la forma di un cubo circondato da una rudimentale balaustra. Sulla superficie del cubo sono poggiati un cappello a tesa larga, un mantello accuratamente ripiegato, una corona da rosario e le solite conchiglie. Ai lati sono accesi due ceri. Li esamino, sono quasi interi. Il misterioso veneratore è andato via da poco. Sarebbe stato divertente se nel momento in cui officiava il suo voto gli fossi apparso io. Belzebù!

    Avverto un singhiozzo e mi giro verso il sentiero.

    «Ma quello… l’hai fatto tu?».

    Non vedendomi arrivare davanti al solito albero, Mariela si è decisa a venirmi incontro. Nonostante il freddo indossa una maglietta nera a maniche corte e jeans stretti. Sembra una qualunque diciottenne che va incontro alle amiche ciarliere.

    Addita il pulpito spalancando gli occhi slavati.

    Guardo prima l’altare poi lei. «Credimi, non sono proprio il tipo».

    Si avvicina, titubante. La luce delle candele si riflette sulla pelle lucida del suo viso. Schiere di ombre funeste si attorcigliano nelle sue pupille.

    «Allora chi è stato a fare?»

    «Uno a cui sta a cuore qualche santo in Paradiso».

    «Non tra mia gente, però».

    «No, anche loro non sono proprio i tipi». Le allungo una carezza, con la stessa benevolenza di un protettore alla sua puttana più redditizia. «Dobbiamo stare qui a contemplare le candele o vuoi andare nel bosco? Lì si può venerare tutto il resto del pantheon».

    Mi guarda senza capire. Adoro quello sguardo smarrito che poi si trasforma in devozione. Una parte del piacere che le suscito deve dipendere dall’incomprensione. È così per tutti i miei seguaci: sanno poco o nulla di me, perciò mi immaginano più potente di quel che sono.

    Mariela forza un sorriso e si stringe le braccia. «Ho paura, adesso».

    «Per l’altare?».

    Annuisce.

    «Ma è solo un modo per attirare la fortuna», le dico.

    Alza le spalle. Il sorriso le muore un po’ sulle labbra.

    «Voi rom non avete un modo per evocare fortuna?», domando.

    Riflette un attimo. «Bruciamo i vestiti dei morti», risponde. «Così non li prende nessuno. A volte bruciamo anche le roulotte». Le lancio un’occhiata interrogativa, così lei continua: «I morti non vogliono che uno si prende loro cose. Chi brucia la roba viene ringraziato dal morto che fa vincere soldi e trovare lavoro buono».

    «E tu ci credi?».

    Scuote la testa. «No».

    «E allora non credere nemmeno all’altare. Credi a me». Mi avvicino. «Sono quello che ti darà la fortuna che volevi avere oggi. La fortuna del piacere e dell’oblio, mia cara».

    La ghermisco e lei si lascia prendere, guidare, condurre come le anime penitenti. Il bosco è un otre che chiude in sé il giorno. Verde e buio come il ventre di Gerione.

    E, dietro gli alberi, andiamo a consumare il nostro sabba.

    3

    Non rifiutare un beneficio a chi vi ha diritto

    quand’è in tuo potere di farlo.

    Proverbi 3:27

    Giovedì 2 ottobre. Pomeriggio

    È la mia ora preferita quando vado a fare visita a Fredo.

    Le tre del pomeriggio: l’ora del Nazareno.

    Non era in casa, quindi l’ho cercato nell’unico altro posto dove posso scovarlo, in chiesa. Lo trovo in sagrestia che lucida il turibolo con un panno giallo, ingoiando biscotti.

    «Non hai mangiato?».

    Mi guarda di traverso. «Sì, però mi è venuta voglia di dolci e ho aperto questa scatola, sono toscani, i brigidini».

    Dalla scatola manca metà contenuto. «Ti avrei portato Glen per mandare giù il dessert».

    «Scherzi?»

    «Perché?»

    «Sono le tre e mezza del pomeriggio».

    «È vietato bere whisky a quest’ora?»

    Fredo scuote il capo, imbeve lo straccetto di lucidante. «Tu sei un alcolizzato».

    «Tempo fa non me ne avresti fatto una colpa».

    «Tempo fa ero un alcolizzato pure io».

    Prendo posto su una sedia impagliata. Mi rilassa osservarlo strofinare quel tondeggiante pezzo di metallo, con la catena che tintinna tra le dita del sacrestano.

    «Come se la passa il capo?»

    «È in canonica». Ha alitato sul turibolo e ricominciato a sfregare.

    «Vorrei parlargli».

    Interrompe la lucidatura e mi rivolge uno sguardo pieno di sorpresa. «Vuoi parlargli… tu?»

    «Proprio così», dico. «Cos’è, sono già iniziate le ostilità del libro di Giovanni?».

    Il suo sguardo passa dal sorpreso al perplesso. «E questo che cavolo significa?»

    «Lascia perdere. Insomma, posso parlarci o no?».

    Fredo ricomincia a sfregare. «E quale sarebbe l’argomento?»

    «Gli altari. Quelli che compaiono nelle campagne. Ho l’impressione che contengano un’iconografia precisa, ma non riesco a ricordare quale».

    Mi scruta sospettoso. «E da quando ti interessi di queste cose? Non è che ti redimi pure tu?». Ridacchia e studia la parte di turibolo lucidata. «Comunque, don Vito è impegnato con quel tipo arrivato in paese il mese scorso». Non capisco a chi alluda, ma poi aggiunge: «Il damerino con gli occhiali che insegnava all’università».

    Ho un flash rivelatore. «Calvo, con la faccia da topo muschiato?».

    Fredo mi guarda, asciugandosi una goccia di sudore con il dorso della mano. «Lui. Mi sta sullo stomaco. È sempre in giro a osservare il paese con l’aria di chi ha scoperto una città sepolta nella giungla». Si infila un brigidino fra i denti. «Lo trovo offensivo».

    D’istinto, dalla tasca interna del giubbotto prendo il pacchetto del tabacco. Fredo smette di masticare e mi lancia un’occhiataccia.

    Rimetto il pacchetto in tasca.

    «E in quale università insegnava?».

    Ricomincia ad accanirsi sull’argento, senza apparente ragione visto che è già uno specchio. «Bologna». La risposta sparge frammenti di biscotto. «Ma ora è in pensione. Proprio domenica scorsa ne parlavano le ragazze del coro».

    «E cos’altro dicevano?»

    «Nient’altro».

    Rifletto un istante. Dev’essere uno di quelli che si preparano alla dipartita trasferendosi in un piccolo paese, come se ciò rappresenti la camera di decompressione tra l’esistenza in città e la non-esistenza del loculo.

    «Prima del mese scorso si era mai visto da queste parti?», chiedo dopo un po’.

    «Boh. Io non l’ho mai incontrato in vita mia».

    «E cosa cerca da don Vito?».

    Finalmente molla lo straccio. Solleva il turibolo reggendolo alla base e lo rimira tutto soddisfatto.

    «Registri parrocchiali», risponde. «Ha voluto quelli degli anni Quaranta-Cinquanta. Ne ha consultati due o tre». Finalmente raccoglie la catena e ripone il turibolo in un mobiletto scuro, a cui dà un giro di chiave.

    «Ricerche genealogiche», rifletto ad alta voce. «Forse ha dei parenti a Santerio».

    «Forse», si pulisce le mani con lo straccetto. «Comunque ha parlato con don Vito fitto fitto, mi stava qua», indica con un dito la bocca dello stomaco. «Poi si è messo in disparte a consultare i registri, tutto concentrato. A un certo punto sono uscito dalla sagrestia e l’ho visto immobile, con una mano sulla bocca. Mi è parso che avesse gli occhi arrossati».

    «Addirittura?»

    «Gli ho chiesto se avesse bisogno di qualcosa, perché sono un buon cristiano. Tu non l’avresti fatto».

    «No, infatti».

    «Lui è quasi saltato sul banco. Ha chiuso il registro che aveva in mano, me l’ha consegnato ed è uscito dalla chiesa».

    «E dov’è adesso?»

    «E io che ne so?»

    «Intendo il registro parrocchiale».

    «L’ho messo da parte». Accenna allo stesso armadio dove ha chiuso il turibolo. «Insieme agli altri che ha consultato. Poi andranno tutti di sotto, negli archivi».

    Lascio trascorrere qualche secondo. Fredo prende una patena e passa lo straccio anche su quella, masticando i suoi biscotti uno dopo l’altro, con meticolosa voracità.

    «Posso vederli?».

    Solleva lo sguardo. Ho la sensazione che si aspettasse la domanda. «Scordatelo».

    «Che male c’è?»

    «I registri parrocchiali non vengono consegnati al primo che capita. Occorre una richiesta motivata».

    «E quella del damerino lo era?»

    «Sicuramente, anche se non l’ho capita. E comunque non sono fatti miei».

    Incrocio le braccia. Visto che non mi ha permesso di fumare, gli dico: «Parli così perché il prete non ti ha messo a parte della conversazione».

    Puntualmente si rabbuia. «Stavo lavorando. Non avevo tempo per le chiacchiere». Si alza e dalla sagrestia va dritto in chiesa, portandosi la patena.

    Lo seguo. Mi sistemo al primo banco mentre stende una tovaglia pulita sull’altare.

    «E come si chiama?»

    «Chi?»

    «Il topo muschiato».

    «Alfredo Barbieri, se non sbaglio».

    «Te l’ha detto don Vito?».

    Fredo sbuffa e sistema sulla tovaglia il purificatorio, le ampolline e tutto l’armamentario. «Te l’ho detto, ne parlavano le coriste. Don Vito non ha aggiunto niente sul vecchio».

    Gli lancio un’occhiata maliziosa. «Vedi che non ti dice granché, il capo?».

    Finalmente raggiungo l’obiettivo: adesso è inviperito. «Non lo chiamare il capo, caz…», si tappa la bocca rovesciando gli occhi. «Mmmm… accidenti a te! Mi fai imbestialire davanti all’altare».

    «U-hu!». Agito una mano come se mi fossi scottato. «Parolacce nella casa del Padre».

    «Ma che sei venuto a fare? Non potevi riempirti di whisky a casa tua?»

    «Va bene, se la metti così». Mi alzo dal banco con aria infelice.

    Fredo abbandona le braccia lungo il fianco. «Adesso non fare l’offeso».

    «No, no, sta’ tranquillo. Ti lascio ai tuoi affari da sacrestano».

    Mi dirigo verso il portale, camminando tutto impettito lungo la navata centrale. Dopo un attimo sento Fredo venirmi dietro.

    «Avanti, non essere permaloso». Mi afferra un braccio. «Sicuro che non vuoi un biscotto?»

    «Mi hai preso per un cane?».

    Sospira. «Se vuoi parlare con don Vito ti fisso un incontro, va bene?»

    «Sì sì, grazie tante». E accentuo il broncio, mentre dentro di me scatta il conto alla rovescia.

    4

    Il ricco domina sul povero

    e chi riceve prestiti è schiavo del suo creditore.

    Proverbi 22:7

    Più tardi

    Il whisky è agli sgoccioli e per il rifornimento a prezzo di fabbrica mi tocca aspettare tutto il fine settimana, causa funerale del nonno di san Martino.

    È una

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