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The Hunger. Affamati
The Hunger. Affamati
The Hunger. Affamati
E-book409 pagine5 ore

The Hunger. Affamati

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Info su questo ebook

«Inquietante, avvincente.» Stephen King

1846. Dopo aver viaggiato per settimane verso ovest, in direzione della California, un gruppo di pionieri si trova davanti a un bivio. Per il leader della spedizione, George Donner, è il momento di fare una scelta. Quelle che si trovano davanti, infatti, sono due strade che conducono alla stessa destinazione. Una è già nota come una pista sicura, ma dell’altra, ancora sconosciuta, si vocifera che potrebbe essere più corta. La decisione di Donner avrà ripercussioni sulle vite di tutti coloro che sono in viaggio con lui. Il caldo cocente del deserto sta per lasciare il posto a venti pungenti e a un freddo acuto in grado di congelare il bestiame. Spinti verso la follia dalla fatica e dalle privazioni, i membri del gruppo dovranno lottare per la sopravvivenza. Mentre i bambini cominciano misteriosamente a scomparire. Ma la minaccia più pericolosa che i pionieri dovranno affrontare non è la furia della natura, bensì qualcosa di più primitivo e feroce che si sta risvegliando.Finalista ai Goodreads Choice Awards 2018 per la categoria Horror

Tornate indietro o morirete tutti

La spedizione Donner: l’episodio più inquietante della storia degli Stati Uniti in un capolavoro del thriller

«Una splendida lettura, davvero intensa.»
The Financial Times

«L’autrice dimostra un’acuta conoscenza della natura umana. L’incredibile incontro tra persone ordinarie e la straordinaria disperazione, raccontato in modo sorprendente.»
USA Today

«Una rivisitazione della tragica Spedizione Donner con un incredibile colpo di scena.»
New York Post

«La famosissima vicenda storica prende vita in un capolavoro di immaginazione e suspense.»
Booklist
Alma Katsu
ha lavorato per oltre trent’anni come analista di intelligence per il governo federale degli Stati Uniti ed è consulente per le nuove tecnologie. Il suo romanzo di esordio, The Taker, è stato selezionato da Booklist come uno dei migliori dieci del 2011.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2018
ISBN9788822724984
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    Anteprima del libro

    The Hunger. Affamati - Alma Katsu

    2088

    Titolo originale: The Hunger

    Copyright © 2018 by Alma Katsu and Glasstown Entertainment, LLC

    All rights reserved including the right of reproduction in whole or in part in any form.

    This edition published by arrangement with G.P. Putnam’s Sons, an imprint

    of Penguin Publishing Group, a division of Penguin Random House LLC.

    Traduzione dall’inglese di Andrea Russo

    Prima edizione ebook: ottobre 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2498-4

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Alma Katsu

    The Hunger

    Affamati

    Indice

    Prologo

    Giugno 1846

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Luglio 1846

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Agosto 1846

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Settembre 1846

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Ottobre 1846

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Novembre 1846

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Dicembre 1846

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Gennaio 1847

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Epilogo

    Ringraziamenti

    209258.jpg

    Per mio marito, Bruce

    Prologo

    Aprile 1847

    Erano tutti d’accordo: era stato un inverno terribile, uno dei peggiori di cui si avesse memoria. Al punto da aver costretto alcune tribù indiane, i Paiute e i Miwok, a scendere più a valle. Era impossibile cacciare, e una fame implacabile serpeggiava accompagnandoli nei loro spostamenti, lasciando alle loro spalle campi improduttivi pieni delle tracce di fuochi neri e inodori, simili a occhi scuri nel terreno.

    Due Paiute dissero addirittura di aver visto un bianco in preda alla follia, riuscito chissà come a sopravvivere a quel terribile inverno, attraversare il lago ghiacciato come un fantasma.

    Doveva essere il loro uomo: un tipo di nome Lewis Keseberg. L’ultimo sopravvissuto conosciuto della tragedia della spedizione Donner. La squadra di salvataggio era stata inviata a cercare Keseberg e riportarlo indietro vivo, se fosse stato possibile.

    Era metà aprile, e la neve arrivava al torace dei cavalli; la squadra dovette abbandonarli presso un ranch locale e percorrere il resto del tragitto a piedi.

    Ci volevano tre giorni per scendere fino al lago dopo aver raggiunto la cima; fredda, spazzata dal vento e desolata. La primavera voleva dire fango, molto fango, ma a certe altezze era ancora inverno, e il terreno era coperto da una spessa coltre bianca. Non ci si poteva fidare di quella neve: nascondeva crepacci e scarpate. Nascondeva segreti. Anche se si pensava di essere su un terreno solido, era solo una questione di tempo prima che tutto cedesse.

    La discesa era molto più dura di quanto si aspettassero; la neve cedeva sotto i loro passi, fradicia e scivolosa, piena di un innaturale desiderio di inghiottire l’intera squadra.

    Più il gruppo si avvicinava al lago, più faceva buio, e gli alberi erano così alti da oscurare la cima delle montagne e bloccare la luce del sole. Dai danni alla vegetazione era evidente che avesse nevicato molto: rami spezzati e corteccia rovinata fino a dieci, dodici metri. Inoltre, il lago era pervaso da un silenzio inquietante. Non si sentiva il minimo suono, nessun uccello, nessun’anatra planare sulla superficie dell’acqua. Solo i loro passi e il loro respiro pesante, e gli occasionali crepitii della neve che iniziava a sciogliersi.

    La prima cosa che notarono quando la nebbia sul lago salì verso di loro fu il fetore; l’intera area puzzava di decomposizione. Il greve tanfo di carne putrida si mescolava con l’aria boschiva, rendendola sempre più pesante a mano a mano che si avvicinavano al lago. L’odore di sangue, con il suo sentore metallico, sembrava provenire da ogni direzione, dal terreno, dall’acqua e dal cielo.

    Erano stati informati che i sopravvissuti vivevano in un capanno abbandonato e in due piccole baracche, una delle quali costruita contro un enorme masso. Trovarono il capanno quasi subito, costeggiando il lago che si increspava sotto una pesante nebbia. Era isolato, in una piccola radura. Era inequivocabilmente deserto, eppure non riuscivano a scrollarsi di dosso la sensazione di non essere soli, che qualcuno all’interno li stesse aspettando, come un personaggio uscito da una fiaba.

    Quella brutta sensazione si era insinuata in tutta la squadra, irrequieta e agitata per quell’innaturale odore nell’aria. Si avvicinarono al capanno lentamente, con i fucili spianati.

    Diversi oggetti inaspettati erano sparsi sulla neve: un libro di preghiere tascabile, un segnalibro fatto con una striscia di nastro che fluttuava al vento.

    Alcuni denti.

    Quella che sembrava una vertebra umana, ripulita della carne.

    Adesso la brutta sensazione era nelle loro gole e dietro gli occhi. Alcuni si rifiutarono di procedere oltre. La porta del capanno era proprio davanti a loro, accanto a un’ascia poggiata contro la parete esterna.

    La porta si aprì da sola.

    Giugno 1846

    Capitolo 1

    Per Charles Stanton, non c’era niente di meglio che radersi. Quella mattina si era piazzato davanti al grande specchio legato al fianco del carro di James Reed. La prateria si estendeva in ogni direzione come una coperta, di tanto in tanto increspata dal vento: chilometri su chilometri d’erba, interrotti soltanto dalla punta rossa della Chimney Rock, che si ergeva in lontananza come una sentinella. Se socchiudeva gli occhi, la carovana sembrava un ammasso di giocattoli sparsi in quella vasta, infinita prateria: inconsistenti, insignificanti, irrilevanti.

    Si voltò verso lo specchio e fermò la lama sotto la mascella, ricordando una delle massime preferite di suo nonno: L’uomo malvagio si nasconde sotto la barba, come Lucifero. Stanton conosceva molti uomini che si accontentavano di un coltello ben affilato, e altri che usavano persino un’accetta, ma per lui non c’era niente di meglio di un rasoio a mano libera. Non rifuggiva la sensazione del freddo metallo contro la gola. Anzi, un po’ gli piaceva.

    «Non sapevo fossi vanitoso, Charles Stanton», disse una voce alle sue spalle, «ma se non ti conoscessi mi chiederei se non ti stessi ammirando». Edwin Bryant gli si avvicinò con una tazza di latta di caffè in mano. Il sorriso scomparve subito. «Stai sanguinando».

    Stanton abbassò lo sguardo sul rasoio. Era macchiato di rosso. Nello specchio vide una linea sulla gola, un taglio aperto di sette centimetri dove aveva poggiato la lama. Il rasoio era così affilato che non aveva sentito niente. Stanton si tolse l’asciugamano dalla spalla e lo premette contro la ferita. «Dev’essermi scivolata la mano».

    «Siediti», disse Bryant. «Fammi dare un’occhiata. Ho una piccola formazione medica, sai?».

    Stanton scansò la mano tesa di Bryant. «Sto bene. Non è niente. Un incidente». Ecco cos’era quel maledetto viaggio, in una parola. Un incidente inaspettato dietro l’altro.

    Bryant alzò le spalle. «Se lo dici tu. I lupi possono fiutare il sangue a tre chilometri di distanza».

    «Cosa posso fare per te?», domandò Stanton. Sapeva che Bryant non si era spostato lungo la carovana solo per parlare, non quando avrebbero dovuto aggiogare gli animali. Intorno a loro, il solito caos mattutino. I carrettieri radunavano i buoi, che facevano tremare il terreno sotto il loro peso. Gli uomini smontavano le tende e le caricavano sui carri, o spegnevano i fuochi sotto la sabbia. L’aria era piena delle grida dei bambini che trasportavano i secchi d’acqua per bere e lavarsi.

    Stanton e Bryant non si conoscevano da molto, ma avevano fatto subito amicizia. Il gruppo con cui Stanton aveva viaggiato prima – una piccola carovana proveniente dall’Illinois, formata in gran parte dalle famiglie Donner e Reed – si era da poco unito a un altro molto più grande guidato da un ex militare, William Russell, proveniente da Independence, Missouri. Edwin Bryant era stato uno dei primi membri della spedizione Russell a presentarsi a Stanton e ad avvicinarsi a lui, forse perché erano entrambi uomini non sposati in una carovana piena di famiglie.

    All’apparenza, Edwin Bryant era l’opposto di Stanton. Quest’ultimo era alto, forte senza nemmeno doverci provare. Gli avevano sempre fatto i complimenti per il suo bell’aspetto. Lo aveva ereditato dalla madre, per quanto ne sapeva. Aveva gli stessi capelli castani folti e ondulati e gli stessi occhi espressivi.

    Il tuo aspetto è un dono del diavolo, ragazzo, così che tu possa portare gli altri al peccato. Un’altra delle massime di suo nonno. Una volta aveva colpito Stanton in faccia con la fibbia di una cintura, forse nella speranza di scacciare il diavolo che vedeva nel suo volto. Non aveva funzionato. Stanton aveva conservato tutti i denti, e il naso era guarito. La cicatrice sulla fronte era scomparsa. Il diavolo, per quanto ne sapeva, era rimasto.

    Bryant aveva una decina di anni in più. Fare il giornalista gli aveva permesso di mantenere un fisico meno segnato dal lavoro rispetto alla maggior parte degli uomini della carovana, agricoltori o carpentieri o fabbri che si guadagnavano da vivere con lavori pesanti. La vista debole lo costringeva a portare quasi sempre gli occhiali, e aveva immancabilmente un aspetto disordinato, come se avesse la testa altrove. Ma non si poteva certo negare che fosse brillante, anzi, probabilmente era l’uomo più intelligente del gruppo. Aveva ammesso di aver passato alcuni anni come assistente di un dottore quando era molto giovane, anche se non voleva essere costretto a fare il medico della spedizione.

    «Da’ un’occhiata qui». Bryant diede un calcio al terreno, alzando una nuvola di polvere. «Hai visto? L’erba è secca per essere giugno».

    Stavano attraversando quella prateria ormai da giorni, e fin dove l’occhio poteva arrivare non si vedeva che erba e sterpaglia. A entrambi i lati della carovana, in lontananza, dune di sabbia del colore dell’oro e del corallo salivano e scendevano, alcune scoscese e simili a dita che indicavano il cielo. Stanton si accovacciò e strappò qualche ciuffo d’erba. I fili erano corti, non più di venti o venticinque centimetri di lunghezza, ed erano già scoloriti verso un verde-brunastro. «Sembra che ci sia stato un periodo di siccità di recente», disse Stanton. Si alzò e si tolse la polvere dalle mani, guardando verso l’orizzonte violaceo avvolto nella nebbia. Il terreno sembrava stendersi all’infinito.

    «E siamo appena entrati nella prateria», notò Bryant.

    Quello che intendeva era chiaro: forse non ci sarebbe stata erba a sufficienza per i buoi e il bestiame. Erba, acqua e legna: le tre cose di cui aveva bisogno una carovana. «Le condizioni sono peggiori di quanto pensassimo, e abbiamo ancora molta strada da fare. Vedi quella catena montuosa in lontananza? Quello è solo l’inizio, Charles. Ci sono altre montagne al di là di quelle, e deserti e praterie, e fiumi più larghi e profondi di tutti quelli che abbiamo attraversato finora. Tutto fra noi e l’oceano Pacifico».

    Stanton aveva già sentito quella litania. Bryant non aveva parlato quasi d’altro da quando, due giorni prima, avevano superato la baracca di un cacciatore ad Ash Hollow. La baracca vuota era stata trasformata in una specie di avamposto per i pionieri che attraversavano quella distesa, e che avevano cominciato a lasciare le proprie lettere per il successivo viaggiatore diretto a est, in modo che potesse portarle a un vero ufficio postale affinché venissero consegnate. Molte lettere erano semplicemente un foglio di carta piegato lasciato sotto a una roccia, nella speranza che alla fine sarebbero arrivate a destinazione.

    Stanton era rimasto stranamente confortato dalla vista di tutte quelle missive. Erano sembrate una dimostrazione da parte dei viaggiatori del proprio amore per la libertà e del proprio desiderio di nuove opportunità, indipendentemente dai rischi. Ma Bryant si era agitato: «Guarda tutte queste lettere. Devono essercene decine, forse un centinaio. Chi le ha scritte è davanti a noi. Siamo fra gli ultimi della stagione, e sai cosa significa, vero?», aveva chiesto a Stanton. «Potremmo aver accumulato troppo ritardo. I valichi saranno bloccati dalla neve, e in montagna l’inverno arriva presto».

    «Pazienza, Edwin», disse Stanton adesso. «Ci siamo appena lasciati Independence alle spalle…».

    «Eppure siamo a metà giugno. Ci stiamo spostando troppo lentamente».

    Rimettendosi l’asciugamano sulla spalla, Stanton si guardò intorno. Il sole era sorto da ore ormai, e ancora non avevano lasciato l’accampamento. Tutt’intorno a lui, le famiglie stavano ancora finendo di fare colazione sui resti dei falò. Le madri cullavano i figli fra le braccia mentre si scambiavano gli ultimi pettegolezzi. Un bambino se ne stava a giocare con un cane invece di radunare i buoi della famiglia.

    «Puoi fargliene una colpa in una mattina così bella?», domandò Stanton in tono leggero. Dopo settimane in movimento, nessuno era ansioso di affrontare una nuova giornata. Metà degli uomini aveva fretta solo quando arrivava il momento d’iniziare una nuova caraffa d’infuso di malto. Bryant si limitò ad accigliarsi. Stanton si passò la mano sulla nuca. «A ogni modo, dovresti parlarne con Russell».

    Bryant fece una smorfia mentre si chinava per riprendere la tazza di caffè. «Ne ho già parlato con Russell, e anche se è d’accordo con me, non fa niente. Non sa dire di no a nessuno. L’altro giorno – te lo ricordi? – ha lasciato andare quegli uomini a cacciare bufali, e la carovana si è fermata per due giorni per affumicare ed essiccare la carne».

    «Più avanti potremmo rallegrarci di avere quella carne».

    «Ti garantisco che vedremo altri bufali. Ma non riavremo più quei giorni».

    Stanton capiva la logica nelle parole di Bryant, e non voleva discutere. «Ascolta, stasera andiamo da Russell e gli parliamo insieme. Gli faremo capire che siamo seri».

    Bryant scosse la testa. «Sono stanco di aspettare. È questo che sono venuto a dirti: lascerò la carovana. Alcuni uomini hanno intenzione di andare avanti, forse anche Russell. A cavallo. Ci vuole troppo con i carri. Capisco perché i padri di famiglia ne abbiano bisogno. Hanno i bambini, gli anziani e i malati da trasportare. Hanno i loro beni di cui preoccuparsi. Non li biasimo, ma non voglio nemmeno essere tenuto in ostaggio da loro».

    Stanton pensò al suo carro, alla sua coppia di buoi. L’attrezzatura gli era costata quasi tutti i soldi che aveva ottenuto dalla vendita del suo negozio. «Capisco».

    Gli occhi di Bryant luccicavano dietro gli occhiali. «Quell’uomo che si è unito a noi ieri sera mi ha detto che i Washoe sono ancora a sud del loro abituale territorio di pascolo, circa due settimane più avanti rispetto a noi. Non posso rischiare di perdermeli». Gli piaceva considerarsi un antropologo amatoriale, e a quanto sembrava stava scrivendo un libro sulle credenze spirituali delle tribù indiane. Poteva parlare per ore delle leggende – di animali, di dèi imbroglioni, di spiriti che sembravano vivere nella terra, nel vento e nell’acqua – e ne era così appassionato che alcuni dei pionieri avevano cominciato a sospettare di lui.

    Per quanto a Stanton piacessero le storie di Bryant, sapeva che potevano spaventare i cristiani cresciuti esclusivamente con i racconti della Bibbia, che non potevano capire che un uomo bianco potesse essere profondamente affascinato dalle credenze dei nativi.

    «Lo so che queste persone sono tuoi amici. Ma per l’amor di Dio!», continuò Bryant. Quando si scaldava per un argomento, era impossibile fermarlo. «Cosa gli ha fatto credere che potessero portare una casa intera fino in California?».

    Stanton non riuscì a trattenere un sorriso. Sapeva, ovviamente, a cosa si riferiva Bryant: al veliero delle praterie di George Donner. L’enorme carro personalizzato era stato sulla bocca di tutta Springfield quando era stato costruito, e adesso era sulla bocca di tutta la carovana. Il pianale era stato ampliato per fare spazio a una panchina e a una piccola dispensa coperta. Conteneva persino una stufa con la canna fumaria che scaricava da un buco nella copertura di tela.

    Bryant fece un cenno verso l’accampamento dei Donner. «Voglio dire, come si aspettano di valicare le montagne con una cosa del genere? È gigantesco. Nemmeno quattro coppie di buoi basterebbero a fargli superare le ripide salite. E poi per cosa? Per portare la regina di Saba in tutta comodità». Nel poco tempo trascorso da quando il gruppo di Springfield si era unito a quello, più grande, di Russell, era evidente che Edwin Bryant avesse sviluppato una sana avversione nei confronti di Tamsen Donner. «Ma hai visto com’è dentro? Come la barca di Cleopatra, con il materasso di piume e articoli di seta». Stanton sorrise. Non era che i Donner ci dormissero dentro; il loro carro era pieno di tutto ciò che avevano avuto a casa, inclusi i letti, come ogni altro. Bryant era un po’ incline all’esagerazione. «Avevo pensato che George Donner fosse un uomo intelligente. Evidentemente non lo è».

    «Puoi biasimarlo per aver cercato di rendere felice sua moglie?», domandò Stanton. Voleva considerare George Donner un amico, ma non ci riusciva. Non conoscendo i suoi legami.

    E ora, per peggiorare le cose, non riusciva a staccare gli occhi dalla moglie di Donner. Tamsen era più giovane del marito di almeno vent’anni, e incredibilmente bella, forse la donna più bella che Stanton avesse mai visto. Era come una di quelle bambole di porcellana che si vedevano in sartoria, che sfoggiavano l’ultima moda francese in miniatura. Aveva un luccichio smaliziato negli occhi da cui Stanton era attratto, e un vitino da vespa così sottile che un uomo poteva circondarlo con le dita. Diverse volte si era trattenuto dal pensare cosa avrebbe provato stringendo quella vita fra le sue mani. Stanton non riusciva proprio a capire come George Donner si fosse aggiudicato una donna del genere. Immaginava che i soldi avessero giocato un ruolo determinante.

    «Un gruppo di noi partirà presto», disse Bryant, a voce più bassa. «Perché non vieni? Sei da solo, nessuna famiglia di cui preoccuparsi. In questo modo arriverai a… ovunque tu stia andando più velocemente».

    Bryant era di nuovo palesemente a caccia di informazioni sul motivo per cui Stanton stesse compiendo quel viaggio verso ovest. La maggior parte delle persone era fin troppo desiderosa di parlarne. Sapeva che Stanton aveva una merceria e una casa a Springfield, ma Charles non aveva detto né a lui né a nessun altro perché avesse deciso di abbandonare tutto. Il suo socio, quello col senso degli affari, era morto inaspettatamente, lasciandolo a gestire il negozio da solo. Aveva la testa per quel genere di cose, ma non la predisposizione d’animo: servire la fila infinita di clienti, discutere con quelli a cui non piacevano i suoi prezzi, cercare di riempire gli scaffali con prodotti che fossero di gradimento ai cittadini di Springfield, vicini che conosceva appena e che di certo non capiva (acque di colonia esotiche?, nastri di seta brillanti?). In quel periodo era diventato un solitario, e questo di sicuro era uno dei motivi che lo avevano spinto ad abbandonare Springfield.

    Ma non l’unico.

    Stanton decise di tergiversare. «E cosa faccio col mio carro e i miei buoi? Non posso abbandonarli sulla pista».

    «Non devi, infatti. Sono sicuro che troverai qualcuno nel gruppo a cui venderli. O puoi assumere uno dei carrettieri affinché badi al tuo carro e si assicuri che arrivi in California».

    «Non lo so», disse Stanton. A differenza di Bryant, non gli dispiaceva viaggiare con le famiglie, il chiasso dei bambini, il chiacchiericcio stridulo delle donne. Ma c’era dell’altro.

    «Dammi del tempo per pensarci».

    In quel momento, un uomo a cavallo arrivò di gran carriera, preceduto da un vortice di polvere. George Donner. Uno dei suoi compiti era far ripartire la grande carovana al mattino. Di solito lo faceva col sorriso, spingendo le famiglie a raccogliere le proprie cose e a preparare i buoi così da rimettersi in viaggio. Ma quella mattina la sua espressione era cupa.

    Stanton accennò un saluto. Allora finalmente era ora di andare. «Stavo proprio per aggiogare i…», cominciò, ma Donner lo interruppe.

    «Non ci muoviamo ancora», disse in tono grave. «C’è stato un incidente più avanti».

    Uno strano timore risalì fino alla gola di Stanton, ma lo represse subito.

    Bryant socchiuse gli occhi. «Devo prendere la mia cassetta del pronto soccorso?».

    George Donner si spostò sulla sella. «Non quel tipo di incidente. È scomparso un bambino. Quando i genitori stamani sono andati a svegliarlo, non era nella loro tenda».

    Stanton si sentì subito sollevato. «Si sa che i bambini se ne vanno in giro…».

    «Quando ci spostiamo, sì. Ma non di notte. I genitori rimarranno qui per cercare il figlio. Rimarrà anche qualcun altro, per aiutarli».

    «Vogliono volontari?», domandò Stanton.

    Donner scosse la testa. «Ne hanno più che a sufficienza. Una volta che avranno spostato i loro carri dalla pista ci rimetteremo in viaggio. Tenete gli occhi aperti per qualsiasi segno del bambino. Se Dio vorrà, si rifarà vivo presto».

    Donner si allontanò e un altro vortice di polvere si sollevò dietro di lui. Se si era allontanato nel buio della notte, era improbabile che i genitori lo avrebbero rivisto. Un bambino poteva essere inghiottito da quell’immensità, in quello spazio spietato che si espandeva in tutte le direzioni, negli orizzonti che assoggettavano persino il sole.

    Stanton esitò: forse avrebbe dovuto unirsi al gruppo di ricerca. Un aiuto in più non avrebbe fatto male a nessuno. Si portò di nuovo la mano al collo mentre prendeva in considerazione l’idea di montare a cavallo. Quando abbassò lo sguardo vide le dita rosse. Sanguinava di nuovo.

    Capitolo 2

    I carri si estendevano lungo la pianura fin dove Tamsen Donner riusciva a vedere. Chiunque avesse pensato di chiamare velieri delle praterie i carri dei pionieri era molto intelligente: la copertura ricordava le vele delle barche, e adesso luccicava sotto al sole brillante del mattino. E le nuvole dense di polvere alzate dalle ruote dei carri potevano quasi essere confuse con le onde che portavano le loro navi in miniatura attraverso un mare-deserto.

    La maggior parte dei pionieri camminava piuttosto che cavalcare, per risparmiare ai buoi quel peso aggiuntivo, rimanendo ai lati della pista per evitare gran parte della polvere. Anche il bestiame – mucche da latte e da macello, capre e pecore – veniva tenuto sull’erba, guidato da ragazzi e ragazze che si davano il cambio, mentre il cane di famiglia metteva in riga chiunque si staccasse dal gruppo.

    A Tamsen piaceva camminare. Le dava il tempo di cercare le erbe e le piante di cui aveva bisogno per i suoi rimedi; millefoglio per la febbre, corteccia di salice per il mal di testa. Segnava tutte le piante che trovava in un diario, mettendo da parte quelle che non conosceva per studi o esperimenti.

    Inoltre, camminare dava agli uomini l’opportunità di ammirarla. A cosa serviva avere il suo aspetto se poi andava sprecato?

    E c’era anche qualcos’altro. Quando rimaneva confinata in un carro per tutto il giorno cominciava a sentire quell’irrequietezza e quell’insoddisfazione opprimenti risalire dentro di lei come un animale in trappola, come succedeva quando era ancora a casa. Almeno all’aria aperta la bestia – l’infelicità – poteva vagare e darle lo spazio per respirare e pensare.

    Quella mattina, tuttavia, rimpianse ben presto quella decisione. Betsy Donner, moglie del fratello minore di George, stava camminando a passo svelto verso di lei. Non che le stesse antipatica, ma non si poteva nemmeno dire che le piacesse. Betsy era ingenua quanto una quattordicenne, l’opposto delle amiche che Tamsen aveva nella Carolina prima di sposare George; le altre insegnanti, soprattutto Isabel Topp; la domestica di Isabel, Hattie, che le aveva insegnato le proprietà delle piante curative; la moglie del ministro, che sapeva leggere il latino. A Tamsen mancavano tutte.

    Era quello il problema più grande. Viaggiavano su quella pista da un mese e mezzo, e Tamsen era agitata. Aveva immaginato che, avvicinandosi all’Ovest, si sarebbe sentita sempre più libera; non aveva previsto quella sensazione d’intrappolamento. C’erano state alcune distrazioni nel corso delle prime settimane. La novità di vivere fuori dal carro e di accamparsi sotto le stelle la notte. Tenere i bambini occupati giorno dopo giorno su quel sentiero infinito, inventando giochi e trasformandoli in lezioni. Era iniziata come un’avventura, ma adesso riusciva a pensare soltanto a quanto fosse diventato noioso, e a tutto quello che si erano lasciati alle spalle.

    A quello che lei si era lasciata alle spalle.

    A come quell’oscuro fastidio, quel desiderio non facesse che crescere con la distanza, invece di diminuire.

    Tamsen era stata contraria al trasferimento sin dall’inizio. Ma George aveva messo in chiaro che sarebbe stato lui a prendere tutte le decisioni sul sostentamento della famiglia. Si era presentato a lei come il proprietario di una grande azienda agricola, con centinaia di ettari coltivati e una mandria. «Sono nato per essere ricco. Lascia che sia io a gestire gli affari di famiglia e non ti mancherà mai niente», le aveva promesso. La sua sicurezza era affascinante: era stanca di doversela cavare da sola da quando il primo marito era morto di vaiolo. Si era detta che alla fine l’avrebbe amato.

    Doveva.

    Era l’unico modo per cancellare la sensazione di aver sbagliato, di essere stata spezzata.

    E inoltre, qualsiasi altra cosa provasse, sapeva di poter contare sempre su Jory. Suo fratello aveva pensato che George fosse l’uomo giusto per lei; era stata incline a crederlo. Aveva desiderato crederlo.

    Poi George le aveva proposto di trasferirsi in California. «È la terra delle opportunità», aveva detto dopo aver letto libri scritti da coloni che avevano compiuto il viaggio. «Saremo ricchi oltre ogni nostra immaginazione. Possiamo acquistare migliaia di ettari là, molti di più di quanto potremmo comprarne nell’Illinois. Avvieremo il nostro impero e lo lasceremo ai nostri figli». Aveva convinto suo fratello Jacob a dividere una grande quantità di terreno. Quando Tamsen gli aveva chiesto delle voci sui disordini in California – non ci abitavano già i messicani? Non avrebbero concesso le loro terre così. E le voci su una possibile guerra imminente con il Messico, come era successo in Texas? – George aveva ignorato le sue domande. «Gli americani si stanno spostando in California a frotte», aveva ribattuto. «Il governo non lo permetterebbe se fosse pericoloso». Aveva persino tirato fuori il suo libro preferito, La guida degli emigranti in Oregon e California, scritto da Lansford Warren Hastings, un avvocato che aveva compiuto quel viaggio, per dimostrarlo. E sebbene Tamsen avesse molte altre domande, una parte di lei voleva avere la stessa speranza del marito… che forse le cose sarebbero andate meglio in California.

    Ma fino a quel momento era soltanto intrappolata in un viaggio infinito, circondata dalle persone a cui teneva meno. La famiglia di George.

    «Buongiorno, Betsy», disse mentre la cognata si avvicinava con un sorriso forzato. Le donne erano sempre costrette a sorridere. Tamsen era diventata così brava nel riuscirci che a volte la sua abilità la spaventava.

    «Buongiorno, Tamsen». Betsy era una donna robusta, con spalle e fianchi larghi e una vita morbida che un corsetto non poteva contenere. «Hai sentito l’ultima? Più avanti è scomparso un bambino».

    Tamsen non era sorpresa. La carovana aveva già vissuto una disgrazia dietro l’altra: segni, tutti, se si sapevano interpretare. Appena una settimana prima aveva aperto un barile di farina, trovandolo infestato da curculioni. Avevano dovuto buttarlo via, ovviamente: una perdita costosa. La notte successiva, una donna – Philippine Keseberg, la giovane moglie di uno degli uomini meno stimabili della carovana – aveva partorito un bambino morto. Tamsen fece una smorfia, ricordando come l’oscurità della prateria sembrasse avvolgere il pianto della donna, intrappolandolo nell’aria circostante.

    Poi c’erano i lupi che inseguivano la carovana. Una famiglia aveva perso l’intera scorta di carne essiccata a causa di quelle bestiacce, che avevano persino portato via un vitello appena nato.

    E adesso un bambino era scomparso.

    «I lupi», disse Tamsen. Non aveva voluto collegare i due eventi, ma non poté farne a meno.

    Betsy si portò una mano alla bocca, uno dei suoi molti gesti affettati. «Ma c’erano altri bambini che dormivano nella sua tenda. Non si sarebbero dovuti svegliare…?»

    «Chi lo sa».

    Betsy scosse la testa. «Forse sono stati gli indiani. Ho sentito dire che hanno portato via bambini bianchi dopo aver attaccato insediamenti…».

    «Santo cielo, Betsy, per caso hai visto un indiano negli ultimi quaranta chilometri?»

    «Allora cos’è successo a quel bambino?».

    Tamsen si limitò a scuotere la testa. Cose terribili accadevano ai bambini – e alle donne – in continuazione, nelle loro case, a causa di persone conosciute, persone apparentemente degne di fiducia. E come se questo non bastasse, lì vivevano a stretto contatto con centinaia di sconosciuti. C’erano buone probabilità che almeno uno di loro fosse colpevole di un terribile peccato.

    Ma Tamsen non sarebbe stata preda della tragedia, non se poteva evitarlo. Aveva i mezzi, seppur limitati: amuleti, talismani, modi per convincere il male a stare lontano da lei.

    Purtroppo, tuttavia, non era in grado di alleviare il male dentro di lei.

    Lì vicino, un uomo che Tamsen riconobbe come Charles Stanton stava radunando il bestiame con un frustino. Più giovane di George, Stanton aveva l’aspetto di qualcuno che trascorreva le giornate a lavorare nei campi, non in un negozio. Stanton alzò gli occhi e la sorprese a fissarlo. Tamsen distolse subito lo sguardo.

    «È probabile che la verità sia molto peggio di quanto possiamo immaginare», disse, godendosi il modo in cui Betsy la stava guardando spaventata.

    «Dove sono le tue ragazze stamani? Ne vedo solo tre», chiese l’altra. La sua voce era improvvisamente piena di agitazione.

    Di solito Tamsen faceva camminare le sue figlie per la prima metà della giornata, sperando di mantenerle magre e in forma. La bellezza poteva essere un problema per una ragazza, ma era una delle poche armi che possedeva una donna adulta, e Tamsen voleva che conservassero la loro, se possibile. Le più grandi, Elitha e Leanne, le

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