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Caccia a Pablo Escobar
Caccia a Pablo Escobar
Caccia a Pablo Escobar
E-book333 pagine4 ore

Caccia a Pablo Escobar

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Info su questo ebook

La vera storia degli uomini che hanno catturato il re dei narcos
 Il libro che ha ispirato la serie TV Narcos 
 Nel corso della loro vita gli agenti speciali Javier Peña e Steve Murphy hanno più volte rischiato la vita al servizio della dea (l’agenzia federale antidroga statunitense). Ma la missione più pericolosa che si siano mai trovati ad affrontare è stata quella mirata a catturare Pablo Escobar, in Colombia. La loro storia è diventata una fiction prodotta da Netflix, Narcos. Oggi, per la prima volta, i protagonisti di una delle più grandi operazioni mai realizzate nella lotta al crimine organizzato raccontano la loro versione della storia in un libro sconvolgente che fornisce una prospettiva inedita sul regno del terrore del cartello di Medellín. I lettori affiancheranno Peña e Murphy nei diciotto mesi che precedono l’uccisione dell’uomo più pericoloso al mondo. Una caccia all’uomo in cui la realtà è di gran lunga più appassionante della fantasia.
 Il libro evento di Javier F. Peña e Steve Murphy, i due straordinari agenti che hanno rischiato la vita per arrestare Pablo Escobar
 «Il racconto in prima linea di Steve e Javier è una fonte inestimabile di informazioni inedite. Grazie a loro siamo stati in grado di costruire la storia attorno a uno degli eventi più complessi e misteriosi di tutta la storia recente.» Eric Newman, produttore di Narcos
 «Scritto come un thriller... impossibile smettere di leggerlo.»Kirkus Reviews
 «Una vera rivelazione. Una lettura obbligata per chiunque voglia sapere cosa sia davvero successo durante una delle più spietate cacce all’uomo.»Publishers Weekly

Steve Murphy
ha lavorato sotto copertura a Miami prima di essere trasferito in Colombia per lavorare al fianco di Javier Peña e incastrare Escobar.
Javier F. Peña
è diventato un agente speciale della DEA (l’agenzia federale antidroga statunitense) nel 1984. Ha trascorso quattro anni sulle tracce di Pablo Escobar insieme al suo partner Steve Murphy.
LinguaItaliano
Data di uscita16 ott 2019
ISBN9788822738905
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    Anteprima del libro

    Caccia a Pablo Escobar - Steve Murphy

    638

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Titolo originale: Manhunters

    Copyright © 2019 by Steve Murphy and Javier F. Peña

    Published by arrangement with St. Martin’s Press. All rights reserved.

    Traduzione dall’inglese di Andrea Russo

    Prima edizione ebook: novembre 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3906-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Steve Murphy – Javier F. Peña

    Caccia a Pablo Escobar

    La vera storia degli uomini che hanno catturato il re dei narcos

    Indice

    Introduzione

    Parte prima

    Parte seconda

    Parte terza

    Parte quarta

    Conclusione

    Epilogo

    Ringraziamenti

    «Beati gli operatori di pace,

    perché saranno chiamati figli di Dio».

    Matteo 5:9

    Per Connie, per il suo amore e supporto infiniti.

    Steve Murphy

    Per i veri eroi: la polizia nazionale colombiana e i nostri colleghi della

    DEA

    . E in ricordo di tutti gli innocenti uccisi da Pablo Escobar.

    Javier F. Peña

    Introduzione

    Javier

    Sapevo che qualcosa non andava quando risposi al telefono nel mio nuovo appartamento a Bogotá.

    «Javier?».

    Riconobbi la voce del mio supervisore, Bruce Stock, all’altro capo del telefono, ma c’era un leggero tremolio, un accenno di insicurezza nel modo in cui pronunciò il mio nome.

    Bruce aveva poco più di cinquant’anni e per gran parte della sua carriera aveva lavorato alla Drug Enforcement Administration (

    DEA

    ) in giro per il mondo. Era un omone di un metro e novantacinque, e una delle persone più gentili che avessi mai conosciuto: insomma, il classico gigante buono. Era anche imperturbabile; non poteva essere altrimenti, dato che era al comando di una delle missioni più pericolose della storia della

    DEA

    . La priorità di Bruce era catturare Pablo Escobar, il miliardario a capo del cartello di Medellín responsabile della miriade di autobombe che esplodevano in tutta la Colombia, per non parlare del contrabbando di tonnellate di cocaina in Nordamerica ed Europa. Escobar e i suoi brutali sicari – perlopiù killer adolescenti provenienti dalle baraccopoli che circondano la città di Medellín – stavano facendo fuori chiunque li ostacolasse. Avevano già ammazzato il ministro della Giustizia colombiano, massacrato la maggior parte dei giudici della Corte suprema del Paese e assassinato il direttore di un importante quotidiano che aveva osato denunciare il potere del cartello. Tutti questi omicidi erano avvenuti prima del mio arrivo in Colombia, ma la tensione si percepiva in ogni angolo del Paese. L’aeroporto era presidiato da carrarmati e le strade da soldati inferociti armati di mitragliatrici.

    All’inizio del 1989, quando Bruce mi chiamò a casa, mi trovavo in Colombia già da otto mesi e, come qualunque altro agente

    DEA

    presso l’ambasciata

    USA

    , ero ossessionato dal mio nuovo incarico: prendere Escobar. Il mio compito era contribuire a catturarlo e metterlo su un aereo per gli Stati Uniti, dove sarebbe stato processato per i suoi crimini. Fu la minaccia dell’estradizione a spingere Escobar a muovere guerra al governo colombiano e alle forze dell’ordine americane.

    Arrivai a Bogotá dopo il mio primo incarico nella

    DEA

    di Austin, Texas, dove mi ero concentrato su piccoli spacciatori messicani di metadone e cocaina. Sapevo che la Colombia sarebbe stata la sfida più grande della mia carriera, e ritenevo di essere pronto. Mi ero già inserito nel Bloque de Búsqueda, il cosiddetto blocco di ricerca formato dai migliori poliziotti colombiani e agenti dell’intelligence, seicento uomini sulle tracce di Escobar praticamente ventiquattro ore al giorno. Il Bloque de Búsqueda aveva base in un presidio di polizia a Medellín, dove passavo gran parte della settimana con la polizia nazionale colombiana che dava la caccia al boss del narcotraffico omicida nella sua città. Mi avevano detto che alcuni membri dell’unità erano corrotti e alle dipendenze di Escobar, per cui prestavo molta attenzione ogni volta che mi relazionavo o parlavo con qualcuno.

    Nei fine settimana, se non lavoravo, sedevo per ore nel mio appartamento di Bogotá. Adoravo quella casa di trecentosettanta metri quadri posta a un incrocio trafficato del centro. Avevo una vista mozzafiato sulla città e sulle Ande. Dalla vetrata del soggiorno, larga dodici metri, mi sembrava quasi di poter toccare quelle maestose montagne. Perché la verità è che mi sentivo il re del mondo nel mio palazzo nel cuore della vita notturna di Bogotá con quattro camere da letto e alloggi separati per le domestiche. Era tutto troppo grande e maestoso per uno scapolo texano, ma era il luogo ideale in cui portare le ragazze. Rimanevano sempre senza fiato per la vista, e questo rendeva molto più facile sedurle. Era tutt’altra cosa rispetto alla mia casetta di Austin, che non impressionava nessuno, men che meno me.

    Non avrei mai immaginato che la mia vita di agi sarebbe finita quel sabato pomeriggio quando sentii il tremolio nella voce di Bruce.

    Non disse molto, ma capii dal suo respiro che stava cercando di rimanere il più calmo possibile. In quel momento, mi resi conto di essere in grave pericolo.

    «Javier, ascoltami bene. Prendi la pistola, lascia tutto il resto e vattene subito di lì. Mi dispiace, non c’è tempo per le spiegazioni. Si tratta di Escobar. Sa dove sei».

    Si tratta di Escobar. Sa dove sei.

    Cercai la mia arma – una 9 mm semiautomatica – e andai dritto all’ascensore, controllando i corridoi come un fuggitivo spaventato, per accertarmi che non ci fosse nessuno nascosto dietro gli angoli o dietro una porta. Mi tremavano le mani mentre premevo il pulsante dell’ascensore, e ogni pochi secondi controllavo la fondina per essere sicuro di avere la pistola; era confortante sfiorare il metallo freddo con la punta delle dita.

    ¡Calma, calma, Javier! Tranquilo, hombre.

    Sentivo la voce della mia abuela, la persona più forte che conoscessi. Una volta aveva affrontato dei ladri nella nostra casa di Laredo, e mi aveva tirato fuori da un’infinità di situazioni difficili.

    Tranquilo, tranquilo!

    Corsi nel garage sotterraneo, guardandomi intorno per essere sicuro che non mi seguissero. Controllai di nuovo di avere la pistola e aprii il mio

    OGV

    (Official Government Vehicle, o veicolo governativo ufficiale), una Ford Bronco antiproiettile. Quando girai la chiave, mi resi subito conto di non aver controllato sotto l’auto. Per fortuna non saltai in aria, e partii in quarta per arrivare il prima possibile all’ambasciata americana a pochi chilometri di distanza.

    Pensavo a mia nonna e cercavo di respirare a fondo mentre avanzavo per quello che mi sembrò un tempo infinito nel traffico di Bogotá. Scelsi le strade più congestionate, perché pensavo di rendermi anonimo in mezzo a tutte le altre macchine. Tirai un sospiro di sollievo nello scorgere i cancelli dell’ambasciata, costruita come una fortezza. Bruce mi stava già aspettando agli uffici della

    DEA

    , accanto al garage.

    Non ho mai scoperto se Escobar avesse avuto intenzione di uccidermi o solo di rapirmi, dato che ero una pedina americana importante nella sua battaglia per evitare l’estradizione. Secondo le informazioni che riuscimmo a raccogliere, aveva ordinato ai suoi sicarios di trovare l’agente della

    DEA

    messicano, dato che ero l’unico americano di origini messicane della squadra. Non avevano l’indirizzo esatto, ma sapevano che abitavo all’angolo fra la Settantesima e la Settantaduesima, e avrebbero impiegato pochi giorni, se non addirittura poche ore, a rintracciare il mio edificio, abitato unicamente da persone di origini nordamericane. La polizia nazionale colombiana e noi dell’intelligence della

    DEA

    facemmo del nostro meglio per arrivare in fondo alla questione, ma senza risultato.

    Quella sera mi trasferii in una casa sicura dell’ambasciata riservata a emergenze di quel tipo. Passarono alcune settimane senza ulteriori minacce da parte degli uomini di Escobar, e Bruce mi trovò un appartamento a Los Rosales, vicino all’abitazione dell’ambasciatore americano. Era un quartiere molto più elegante, con siepi curatissime, dimore lussuose e muscolosi agenti di sicurezza vestiti di nero, armati fino ai denti e con i walkie-talkie. Mi mancava il mio rifugio in centro.

    Ma non mi mancava poi così tanto. Sapere che il più grande narcotrafficante del mondo ti dà la caccia è a dir poco snervante. Le settimane dopo la fuga dal mio amato appartamento non riuscii a rilassarmi né a dormire.

    Ma se volete sapere la verità, la mia più grande paura era che la

    DEA

    mi rimandasse a casa. Per la mia sicurezza.

    Per cui sminuii la minaccia, la ignoravo ogni volta che uscivo a bere qualcosa con i colleghi. Ma controllavo di continuo le nostre informazioni per sapere se il cartello mi stesse ancora dando la caccia. Fingevo che andasse tutto bene. Ma adesso posso ammetterlo: ero spaventato a morte.

    Ma sapete una cosa? Col cavolo che avrei lasciato vincere Escobar. E col cavolo che me ne sarei tornato a casa mentre lavoravo al caso più importante della mia vita.

    Pensai di nuovo alla mia abuelita e andai avanti.

    Steve

    La Renault blu ci sfrecciò davanti, costringendoci a uscire di strada e sprofondando me e Connie nel nostro incubo peggiore.

    Ero alla guida di una delle auto governative più vecchie messe a disposizione dall’ambasciata. Era un grande

    SUV

    con enormi specchietti laterali. Se fossimo stati in California, saremmo sembrati surfisti diretti in spiaggia. Invece eravamo in Colombia, e c’era un motivo se il

    SUV

    era equipaggiato come un carrarmato. A Connie dicevo scherzando che poteva resistere a una sparatoria e persino all’apocalisse. A ogni modo, la sua corazza mi faceva sentire al sicuro. C’erano placche d’acciaio in tutti gli sportelli, sotto al veicolo e nel tetto. Tutti i finestrini erano antiproiettile, con un vetro estremamente spesso che li rendeva quasi impossibili da infrangere. Sul davanti e sul retro c’erano barre d’acciaio cromate conosciute come cattle guards (letteralmente: protezioni contro il bestiame). Con tutti questi sistemi di sicurezza integrati, pesava circa il doppio di un veicolo normale.

    Io e Connie stavamo tornando a casa dall’ambasciata e avevamo deciso di prendere alcune strade secondarie vicino a una base militare per evitare il traffico e fermarci al nostro ristorante preferito a prendere un pollo arrosto. Avevamo avuto entrambi una lunga giornata e non vedevamo l’ora di rilassarci davanti alla televisione con un pollo piccante, patate arrosto e un bicchiere di Merlot. Dato che ero quasi sempre a Medellín, accadeva raramente di poter passare una serata insieme, per cui eravamo impazienti di arrivare nel nostro appartamento nella parte settentrionale della città.

    Quando all’improvviso la Renault mi tagliò la strada, schiacciai su freno e frizione, cercando di fermarmi prima di centrare quell’auto – in confronto alla nostra – minuscola. Con tutto quel peso, non era difficile perdere il controllo del

    SUV

    , e sapevo che se avessi urtato la Renault avrei ferito gravemente i passeggeri. Forse addirittura uccisi. Riuscii a fermarmi a pochi centimetri dall’altra auto.

    Dopo essermi assicurato che Connie stesse bene, furioso feci per uscire a far sentire le mie ragioni al conducente. Ma quando alzai lo sguardo, vidi che i tre passeggeri camminavano verso di noi con aria minacciosa. Indossavano giacche leggere e jeans, e avevano tutti una pistola infilata nei pantaloni.

    Dal mio arrivo in Colombia per lavorare al caso di Pablo Escobar più di un anno prima, mi ero fatto un sacco di nemici. Il criminale più ricercato del mondo conosceva il mio nome e quello del mio collega, Javier Peña. Lo sapevamo perché l’intelligence colombiana aveva intercettato il signore della droga mentre parlava al telefono con uno dei suoi scagnozzi dei «due gringos» alla base Carlos Holguín di Medellín. In una conversazione fece addirittura riferimento a «Peña e Murphy».

    Per cui, quando i tre uomini si avvicinarono allo sportello del nostro veicolo e in spagnolo cominciarono a urlarci di scendere, iniziai a preoccuparmi che non si trattasse di una semplice questione fra automobilisti. Era una trappola, ed eravamo in inferiorità numerica. In più, accanto a me c’era la persona che più amavo al mondo. Dovevo proteggere Connie, indipendentemente da quello che poteva succedermi.

    All’inizio mi rifiutai di aprire lo sportello e mostrai loro il mio tesserino della polizia colombiana, sperando di spaventarli e farli desistere. Invece non batterono ciglio, e a quel punto cercai freneticamente di contattare via radio l’ambasciata per chiedere rinforzi. Tutte le auto dell’ambasciata erano dotate di radio portatili d’emergenza per chiamare i marine se ci fossimo trovati nei guai. Speravo che avrebbero mandato subito una pattuglia per spaventare i buffoni che ci tenevano in ostaggio.

    Ma chiamai una volta. Chiamai due volte. Chiamai tre volte. Nessuna risposta.

    A quel punto i tre ceffi stavano prendendo a calci gli pneumatici e cercando di aprire gli sportelli. Mi girai verso Connie, che stava tentando di rimanere calma, ma vedevo che era molto spaventata. E a dire la verità, lo ero anch’io.

    Poco dopo aver cercato di contattare l’ambasciata, la moglie di un agente della

    DEA

    ci chiamò dalla sua radio portatile per assicurarsi che stessimo bene. Le dissi dov’eravamo e di chiamare subito aiuto. Nel giro di qualche minuto il nostro supervisore era alla radio. Gli dissi di fare in fretta e portare i «margaritas», il nome in codice che usavamo per le mini Uzi che tenevamo in ufficio per queste occasioni.

    Mentre aspettavamo, impotenti, con i tre là fuori che continuavano a insultarci e a prendere a calci gli sportelli dell’auto, la mia adorata moglie mi sorprese come ogni volta che ci trovavamo in una situazione che sembrava impossibile.

    «Non sono così grossi», disse, indicando gli uomini. «Io posso mettere fuori combattimento quello, se tu pensi agli altri due».

    Forse avrei accettato se non fossero stati tutti e tre armati; e in più, se avessi aperto lo sportello, Connie sarebbe potuta rimanere ferita, o peggio.

    Quando il nostro supervisore arrivò sul posto con i margaritas, mi preparai a uscire dall’auto e affrontare i tre uomini. Eravamo entrambi ottimi tiratori, e se quelli avessero tentato di fare qualcosa di sospetto, sapevo che potevamo ucciderli senza problemi. Ma nessuno di noi voleva uccidere chicchessia. Volevamo soltanto andarcene a casa a mangiare il nostro pollo arrosto!

    Proprio mentre stavo per aprire lo sportello, si avvicinarono due moto della polizia nazionale colombiana. Vidi che ci guardavano, ma non sembravano intenzionati a fermarsi. Cominciai a suonare il clacson per attirare la loro attenzione, e a quel punto gli agenti tornarono indietro. Con la coda dell’occhio vidi il nostro supervisore che imbracciava il margarita.

    Rimettendo la pistola nella fondina, andai dai poliziotti per mostrare il mio distintivo, dicendo che ero della

    DEA

    e che stavo dando la caccia al criminale più ricercato della Colombia. Spiegai loro che i tre uomini a bordo della Renault ci avevano tagliato la strada e che temevo potessero essere sicari di Escobar. Dopotutto, pochi anni prima l’agente speciale Enrique «Kiki» Camarena Salazar era stato rapito da poliziotti corrotti in Messico per essere torturato e ucciso per ordine del signore della droga Miguel Ángel Félix Gallardo. Tutti gli agenti della

    DEA

    che lavoravano in America Latina dopo la morte di Kiki avevano paura di fare la stessa fine.

    Dissi ai due agenti che gli uomini a bordo della Renault blu erano tutti armati.

    A quel punto, estrassero le pistole e li circondarono.

    Ci volle un po’, ma quando i poliziotti capirono chi fossi e che avevo contatti con i piani alti della polizia colombiana cominciarono a scusarsi con me e Connie. Quanto ai tre che avevano rischiato di causare un brutto incidente, scoprimmo che erano membri di basso grado dell’esercito colombiano. Alla fine venne fuori che si era trattato di un semplice episodio di rabbia stradale e che i tre avevano voluto intimidirci. Ancora non sanno quanto siano stati vicini alla morte quella sera.

    Li riempii di improperi nel mio migliore spagnolo e li minacciai di chiamare il loro comandante. Cominciarono subito a scusarsi e a implorarmi di non farlo. Credo sapessero che gli sarebbe toccato il carcere militare, e volevano allontanarsi da noi il più in fretta possibile.

    Dopo aver ringraziato la polizia, io e Connie andammo a casa, scossi da quanto era successo. Seduti in soggiorno con le nostre porzioni strabordanti di pollo e patate, mentre Connie versava il vino nei bicchieri mi ritrovai a pensare alla prossima situazione pericolosa.

    E stavolta sapevo che un veicolo blindato non sarebbe stato in grado di proteggermi. Non dall’apocalisse, e di sicuro non da Pablo Escobar.

    Parte prima

    Steve

    Da piccolo ero ossessionato dalla polizia. Stravedevo per le uniformi inamidate in stile militare e le volanti che sfrecciavano a sirene spiegate e lampeggianti accesi.

    Sognavo di diventare un poliziotto, di catturare i cattivi, soprattutto se si approfittavano degli innocenti. Per me, gli agenti di polizia erano supereroi. Sapevo che le forze dell’ordine erano la mia vocazione sin da quando era un bambino nel Tennessee.

    Sono nato a Memphis, ma all’età di tre anni mi trasferii con i miei genitori e mia sorella maggiore a Murfreesboro, una cittadina con ampi prati e piantagioni del periodo prebellico in stato di abbandono appena a sud di Nashville, nell’umida regione centrale del Tennessee. Non era successo molto da quelle parti dai tempi della guerra di secessione. A scuola ci spiegarono la battaglia di Stones River, che imperversò per tre giorni a Murfreesboro tra la fine del 1862 e l’inizio del 1863; fu uno dei combattimenti più cruenti del conflitto tra confederati e unionisti e causò più di ventitremila morti.

    A undici anni, ebbi la mia personale battaglia storica in un cortile di periferia. Ripensandoci, più che una battaglia fu il momento di svolta della mia adolescenza. Colto con le mani nel sacco e costretto a socchiudere gli occhi per non rimanere accecato dalle luci della polizia: il mio primo incontro con le forze dell’ordine.

    D’estate, io e i miei amici campeggiavamo nei nostri giardini, a turno, sistemando i sacchi a pelo sull’erba e rimanendo a guardare le stelle, oppure ci stringevamo in una tenda e ci spaventavamo a vicenda con racconti di fantasmi, zombi o omicidi raccapriccianti, addormentandoci con il rumore dei grilli e delle rane. Le estati nel Tennessee erano calde, e la sera non rinfrescava molto, per cui la maggior parte delle notti ci spostavamo con i sacchi a pelo fuori dalle tende e ci risvegliavamo la mattina ricoperti di rugiada.

    Una sera faceva così caldo e c’era una tale afa che nessuno di noi riusciva a dormire, per cui decidemmo di intrufolarci in casa di un nostro amico. Non sono sicuro del motivo che ci spinse a farlo, forse volevamo riprenderci qualcosa che all’epoca ritenevamo importante. Mentre discutevamo e cercavamo di forzare la finestra di una delle stanze da letto, a un tratto sentimmo un’auto avvicinarsi nel buio, e capimmo subito di essere nei guai. Era una volante. Avendo sentito rumore, qualcuno doveva aver chiamato la polizia. Rimanemmo impietriti, troppo spaventati anche solo per voltarci. Riuscii appena a distinguere i due agenti che scesero dalla volante, dato che ero accecato dai fanali. Ci dissero di rimanere fermi, ma non ce n’era bisogno, dato che eravamo immobilizzati dalla paura. Sentivo il sudore colarmi sulle guance mentre tenevo le mani in alto. Quando i miei occhi si abituarono alla luce, vidi due poliziotti alti e muscolosi. Mi sembravano creature di un altro pianeta, con le uniformi nere ben stirate e gli stivali lucidi dello stesso colore. Ci chiesero se volevamo essere portati all’ufficio dello sceriffo della contea di Rutherford e sbattuti in cella o andare dai nostri genitori. Noi rispondemmo in coro: sapevamo cosa sarebbe successo se i nostri genitori l’avessero scoperto, per cui optammo per la prigione. Gli agenti scoppiarono a ridere. Eravamo mortificati e a disagio mentre loro scrivevano i nostri nomi e indirizzi e ci riaccompagnavano a casa. In un modo o nell’altro sopravvivemmo a quella terribile notte, ma perdemmo interesse nel campeggio. Almeno per quell’estate.

    Nel corso degli anni ho spesso ripensato a quel primo incontro con le forze dell’ordine con un senso di ammirazione verso i due agenti che avevano usato il buon senso con un gruppo di ragazzini scalmanati.

    Desideravo diventare un poliziotto più di ogni altra cosa, ma qualche anno più tardi scoprii che i miei genitori avevano altri progetti per me.

    Sono cresciuto con una rigida educazione battista, il più piccolo di tre figli. O forse dovrei dire di due: mio fratello morì ad appena tre anni, prima che io nascessi. Mia sorella aveva otto anni più di me, e passammo gran parte della nostra infanzia a litigare.

    Mio padre era alto un metro e novantacinque, ed era la persona più forte e intelligente che abbia mai conosciuto. Mio zio mi raccontava sempre che quando era giovane gli piaceva combattere, e che non aveva mai perso un incontro. Non aveva paura di niente o di nessuno, e una volta gli chiesero di fare un provino per i Washington Redskins, un’offerta che declinò educatamente in quanto non considerava il football professionistico una carriera sicura.

    Si arruolò come volontario nell’esercito, anche se dovette barare alla visita medica di idoneità, dato che ci vedeva male con l’occhio sinistro. Il dottore gli disse di coprirsi l’occhio sinistro con la mano e di leggere le lettere. Nessun problema. Quando gli chiese di fare lo stesso con l’altro occhio, mio padre usò la mano destra per coprirsi il sinistro e superò la visita oculistica!

    Cominciò nella fanteria, e fu mandato in Europa dopo che l’attacco a Pearl Harbor del 1941 precipitò gli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale. Per via della sua stazza e della sua forza, lavorò con gli ausiliari del corpo sanitario in Francia e Belgio, portando in salvo i soldati feriti e tenendoli fermi durante le procedure mediche.

    Quando tornò dall’Europa, decise di iscriversi all’università Bob Jones di Greenville, Carolina del Sud, per diventare un ministro battista. Fu il primo della sua famiglia ad andare all’università, e dopo la laurea si trasferì con mia madre e mia sorella nella sua prima chiesa a Memphis, dove sono nato. Poi, a Murfreesboro, ruotò diverse piccole parrocchie, facendo altri lavoretti per sbarcare il lunario. Mi ricordo che vendeva aspirapolveri porta a porta. Era un abile rappresentante, e spesso sosteneva che Dio gli diceva dove andare e cosa dire.

    Alla fine Dio spinse mio padre a lasciare l’ufficio sacerdotale per entrare nel settore dei tappeti. Dopo aver trovato lavoro in un negozio di materiali da pavimentazione a Nashville, convinse il fratello minore, che aveva abbandonato l’aviazione, a diventare suo socio. Gli affari andavano bene nel negozio di tappeti, ma a Nashville c’era troppa concorrenza per potersi espandere su più ampia scala, così decisero di cercare altrove.

    Due anni dopo il mio incontro con la polizia, lasciammo il Tennessee e ci trasferimmo più a nord, nella Virginia Occidentale, dove sono nati i miei genitori e dove mio padre e mio zio erano determinati a creare un impero dei tappeti. Prendemmo casa a Princeton, una tranquilla cittadina circondata da bacini carboniferi e nascosta fra gli Appalachi. Avevamo solide radici famigliari nella Virginia Occidentale, dove i miei nonni materni si erano sistemati dopo essere emigrati dall’Inghilterra, e dove mio nonno aveva lavorato nei bacini carboniferi per quasi tutta la vita.

    Non ero contento di essermi trasferito. Ero un adolescente, e non sopportavo di aver dovuto lasciare i miei amici e un posto in cui ero uno dei ragazzi più popolari. Mi iscrissi alle scuole medie locali, ma non fu un’esperienza molto piacevole: i miei compagni mi prendevano in giro per il mio accento del Tennessee, che mi etichettava come uno del «profondo Sud». Le provai tutte per cercare di farmi accettare, e alla fine imparai a camuffare il mio accento e a imitare quello dei ragazzi di Princeton. Oltre allo sport e alla chiesa, la mia nuova città non aveva molto da offrire agli adolescenti, anche se alla fine i rappresentanti cittadini aprirono un centro giovanile in una vecchia sala da bowling, con tavoli da ping-pong, un bar e una pista da ballo, dove ho ballato per la prima volta con una ragazza.

    A Princeton, mio padre e mio zio cominciarono a trasformare il negozio in una prospera attività di famiglia a cui tutti eravamo spinti a contribuire. Mia madre si occupava della contabilità e dei clienti, programmava i lavori di installazione e ordinava le forniture per il negozio, mentre mio padre e mio zio facevano i rappresentanti per cercare di vendere linoleum e tappeti. A dire la verità, era mia madre il cuore e l’anima dell’attività, che senza il suo entusiasmo e il suo duro lavoro avrebbe rischiato il fallimento. Anche mia sorella lavorava part time in negozio, e a quattordici anni iniziai anch’io. Mio padre sperava che avrei portato avanti l’azienda e riteneva che dovessi cominciare dal basso, per cui i primi tempi spazzavo a terra, passavo lo straccio, pulivo i bagni e portavo fuori la spazzatura. In seguito mi promossero e cominciai a occuparmi dei clienti e a

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