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Sotto il cielo di Parigi
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Sotto il cielo di Parigi
E-book443 pagine6 ore

Sotto il cielo di Parigi

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Info su questo ebook

Dall’autore del bestseller Il sarto di Parigi

Parigi, 1940. La città è occupata dai nazisti. Il lussuoso Hotel Ritz, un tempo frequentato dall’alta società parigina, è adesso alla mercé di arroganti ufficiali tedeschi, con un ossequioso seguito di tirapiedi e accompagnatrici. Olivia Olsen è una delle cameriere dell’hotel. È americana, ma tiene nascosta la sua nazionalità, anche se questa bugia diventa ogni giorno più pericolosa. Quando un uomo molto vicino a Hitler mette gli occhi su di lei, Olivia non esita a cogliere l’opportunità per dare una mano ai partigiani. Ma lavorare fianco a fianco con Jack, il suo contatto nella resistenza, potrebbe complicare ulteriormente le cose. Tra i frequentatori del Ritz ci sono anche la famosa stilista Coco Chanel, che intravede nel nuovo regime un’opportunità da sfruttare a proprio vantaggio, e Arletty, una delle attrici francesi più amate dal pubblico, che verrà travolta dalla violenza di un amore proibito. Mentre la guerra si diffonde rapidamente in tutto il continente, il destino di queste tre donne è segnato dalla  vicinanza con il nemico. E nessuna di loro può davvero considerarsi al sicuro…

Nella Parigi occupata una donna è disposta a tutto per resistere alle sopraffazioni dei nazisti

«Marius Gabriel è uno scrittore incredibile che dipinge l’Europa degli anni Quaranta come una tela.»
Historic Novel Society

«Uno scrittore in grado di tenerti inchiodato alle pagine mentre la tua cena si sta bruciando.»
Cosmopolitan

Marius Gabriel
È stato definito da «Cosmopolitan» uno scrittore capace di «tenerti inchiodato alle pagine mentre la tua cena si sta bruciando». Ha finanziato i suoi studi presso la Newcastle University pubblicando con uno pseudonimo oltre trentatré romanzi d’amore. È nato in Sudafrica, ma ha vissuto e lavorato in moltissimi Paesi, e adesso vive tra Londra e il Cairo. La Newton Compton ha pubblicato Il sarto di Parigi e Sotto il cielo di Parigi.
LinguaItaliano
Data di uscita22 gen 2020
ISBN9788822741431
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    Anteprima del libro

    Sotto il cielo di Parigi - Marius Gabriel

    Capitolo uno

    Olivia Olsen non si era mai sentita tanto lontana da Lindstrom, Minnesota, quanto in quell’estate rovente a Parigi nel 1939. Una brezza leggerissima faceva frusciare le foglie degli alberi. Il cielo era di un blu miscelato da Monet in persona, e i passanti dipinti da Renoir. Lungo le banchine della Senna, i parigini sedevano a pescare con la risolutezza di uomini incaricati di portare a casa il pranzo della domenica. E anche Olivia aveva gettato la sua esca.

    Aveva piazzato il cavalletto con vista sul Pont au Change, il ponte di pietra che sfoggiava sugli archi la fiera N di Napoleone, oltre i quali si scorgevano le torri della Conciergerie. Aveva abbozzato la scena con eleganti colpi di pennello impressionisti, con colori vivi; ma c’era uno spazio vuoto al centro della tela, come se dovesse ancora essere dipinta una figura: e infatti, come spiegava il cartello attaccato al cavalletto, per trecento franchi la signorina Olivia Olsen era pronta a inserire chiunque nel quadro, offrendo il perfetto souvenir di Parigi da portare a casa.

    Per completare l’immagine dell’artista parigina, Olivia indossava un basco e un immacolato camice da artista, accessori che non usava mai nel suo studio quando lavorava sul serio. Non che quel lavoro non fosse importante. Forse non aveva valore artistico, ma se quel giorno non fosse riuscita ad avere un cliente la conseguenza sarebbe stata non riuscire a comprarsi nulla per cena. Ultimamente le sue finanze erano piuttosto instabili. Aveva stretto la cinghia al punto che non restava più spazio per praticare altri fori.

    Di solito di domenica riusciva a ottenere almeno una commissione e, se era fortunata e iniziava presto, a volte due o tre. Finché non avesse cominciato a vendere le sue vere opere, era così che cercava di non morire di fame, e si teneva all’erta e pronta a sorridere con grazia a chiunque si soffermasse a guardarla dipingere.

    Aveva i capelli del colore del grano maturo e i grandi occhi grigio-azzurri incorniciati da ciglia folte, i colori dei suoi antenati svedesi, emigrati all’inizio del secolo, in fuga dalla carestia scandinava e riversatisi verso la terra dell’abbondanza nel Midwest americano. Da loro aveva ereditato anche la figura alta e solida, la salute robusta e la capacità di lavorare sodo. Aveva il naso piccolo e dritto e labbra piene e rosee, e più di un passante si fermava a guardare l’artista invece dell’opera.

    Uno di questi passanti ora se ne stava appoggiato alla balaustra accanto a lei e la osservava da vicino. I suoi clienti tendevano a essere turisti paffuti e benestanti. Questo tizio era giovane, magro e inequivocabilmente parigino, con il suo bastone di bambù e la barba bionda arricciata con cura. Era molto attraente, forse anche troppo; ma l’occhio attento di Olivia aveva notato che portava abiti logori. Doveva essere uno studente.

    Incrociò il suo sguardo e lui sollevò il cappello.

    «Posso chiederle, signorina, come mai è vestita come Henri Matisse?»

    «Posso chiederle», ribatté, «perché mi sta bloccando la visuale?»

    «Sto aspettando che inizi a dipingere me», rispose con calma.

    Olivia indicò il cartello attaccato al cavalletto. «Ha trecento franchi?», domandò scettica.

    «Speravo di poter contrattare».

    «Le mie tariffe non sono trattabili»

    «Non mi sembra molto ragionevole. Quanto tempo le occorre?»

    «Circa due ore. Poi porto il dipinto nel mio studio, lo lascio asciugare, lo vernicio, lo incornicio, e può ritirarlo tre giorni dopo».

    «Trecento franchi è la sua ultima parola?»

    «Le mie ultime due parole, per la precisione».

    Lui sospirò. «Molto bene, allora. Siamo d’accordo». Appoggiò un gomito alla balaustra e assunse una posa affabile. «Può procedere».

    Olivia era irritata. «Non credo neanche per un attimo che lei abbia trecento franchi con sé».

    L’uomo batté il bastone a terra. «Che impudenza. Mi sta chiedendo di pagare in anticipo?»

    «Le mie condizioni sono metà ora e il resto quando ritirerà il dipinto completo la settimana prossima».

    «Pretende molta fiducia». Prese un portafogli di pelle dalla tasca e contò con attenzione centocinquanta franchi in banconote e monete. Olivia non poté fare a meno di notare che il portafogli sembrava molto sottile una volta preso il denaro. Si chiese se ne fosse rimasto altro.

    «È sicuro di volerlo fare?»

    «Sicuro come i sassi sotto i nostri piedi».

    «Allora, per favore, stia fermo». Olivia stava già schizzando svelta mentre fissava la figura snella del giovanotto, il viso barbuto, cercando di catturare la noncuranza con cui le si rivolgeva.

    Una volta disegnato il profilo con poche pennellate rapide, Olivia iniziò a dipingere lo schizzo con i colori a olio dalla tavolozza. Li diluiva con trementina e cobalto, non solo per risparmiare, ma per assicurarsi che asciugassero in fretta.

    Il soggetto indossava un abito che doveva essere stato costoso, ma era sbiadito con il tempo. Probabilmente l’aveva preso in un banco dei pegni, pensò. Aveva il naso aquilino e la fronte alta. Aveva i capelli troppo lunghi per i suoi gusti, arricciati sul colletto, come un eroe greco. Se si fosse rasato la barba, che pure era molto virile, sarebbe stato ancora più bello, visto che aveva una bellissima bocca che sembrava sempre essere sul punto di sorridere ma non lo faceva mai.

    Lui la stava esaminando con uguale concentrazione. «Si tinge i capelli?», le domandò.

    «Assolutamente no», rispose lei con tono secco.

    «Lo chiedo perché molte ragazze americane lo fanno».

    «Lo dice in base alla sua vasta esperienza?», gli domandò, ancor più indispettita dal fatto che l’avesse identificata come americana così in fretta. Era molto fiera del suo ottimo francese.

    «E perché le sue ciglia e sopracciglia sono molto scure», continuò, senza badare al suo disappunto. «Non che sia in alcun modo un difetto. Al contrario. Il contrasto è notevole, e rende impossibile non accorgersi della sua bellezza».

    Il complimento non la addolcì. «Le spiace stare in silenzio mentre mi concentro?»

    «Il suo francese non è male. Da quanto si trova a Parigi?»

    «Dal dicembre scorso», ammise con riluttanza.

    «E si trova ancora in difficoltà?»

    «Fa molte domande indiscrete», rispose Olivia.

    «Non venderebbe dipinti sul lungofiume se avesse la fila di contesse a chiederle ritratti per i loro figli. Eppure, si vede che ha un certo talento».

    «Molto gentile».

    «Naturalmente sta facendo soltanto un pastiche di Monet e Renoir».

    «Ah, davvero?»

    «Ho molto occhio per l’arte».

    «Di certo ha un’alta opinione di sé».

    «Mi valuto per quello che sono. Dovremmo farlo tutti».

    «Se tutti fossero insopportabili come lei, le strade sarebbero un bagno di sangue».

    «In realtà la strada su cui siamo è stata davvero un bagno di sangue, non troppo tempo fa. Nei paraggi c’era la ghigliottina». Gli brillarono gli occhi. «E grazie a lei la Francia era in uno stato migliore».

    «Quindi lei spera in un’altra rivoluzione», replicò Olivia, colpendo la tela con il pennello.

    «Spero di vivere abbastanza a lungo, sì».

    «È un marxista, per caso?»

    «Sono un uomo con un cervello».

    «E aspettando la rivoluzione passa le domeniche a bighellonare e infastidire la gente che lavora onestamente».

    «Come sta venendo il dipinto?»

    «Mi sorprende che io stia riuscendo a lavorare, visto quanto mi sta disturbando». Studiò il dipinto con occhio critico. Stava in effetti venendo meglio di quanto si aspettasse. «Riuscirebbe a star zitto per la prossima ora? Non ho mai conosciuto qualcuno che parlasse così tanto».

    Il sorriso in agguato sulle sue labbra quasi si materializzò. «Non le piace parlare?»

    «Lei è qui per divertirsi, ma io sto lavorando. O lavoro o parlo. Non mi piace fare le due cose insieme».

    «Be’, e quale preferisce?».

    Olivia sospirò e appoggiò il pennello. «Quello che vorrei davvero adesso è una sigaretta».

    «Perché non l’ha detto prima?». Tirò fuori una scatola d’argento e gliene offrì una.

    Olivia la prese con gratitudine e la riparò con la mano mentre lui gliela accendeva con un malandato accendino d’argento. «Grazie». Soffiò un pennacchio di fumo e lo guardò salire contro il sole luminoso. Si sentì girare la testa, e si portò una mano alla fronte.

    «Sta bene?», le domandò.

    «Sono solo un po’ intontita. È la prima sigaretta che fumo in tre giorni».

    «Ha smesso?»

    «No. Non potevo permettermele». Aspirò di nuovo, sentendo la nicotina propagarsi nelle vene, un veleno piacevole. «Non mi fa compagnia?».

    Le mostrò la scatola vuota. «Era l’ultima».

    «Mi spiace». Gli porse la sigaretta. «Dividiamo?».

    Lui accettò con grazia la proposta democratica, aspirando e poi ripassandola a lei. Fumarono in un silenzio amichevole finché quel lusso stranamente intimo ma troppo breve non fu finito. Lui spense il mozzicone e lo rimise con attenzione nella scatola, dove senza dubbio sarebbe stato ripreso per una seconda fumata, più tardi. A Olivia quel gesto non sfuggì.

    «Che sciocchezza», sospirò. «È evidente che non ha un soldo e neppure io. Perché sta sprecando trecento franchi per un dipinto?».

    Lui spalancò gli occhi. «Sprecando? Niente affatto», rispose serio. «Trecento franchi per avere il privilegio della sua attenzione esclusiva per due ore è un prezzo molto economico».

    Suo malgrado Olivia sorrise. «Be’, spero che ne stia valendo la pena».

    «Finora l’esperienza ha avuto degli alti e bassi», disse sarcastico.

    «Mi scusi se sono stata scontrosa. Stavo morendo dalla voglia di fumare». Prese la tavolozza e riprese a dipingere.

    «L’ho già vista qui».

    «Vengo tutti i fine settimana».

    «Sì, lo so. Ha molto successo con i turisti americani. Specie con le madri».

    «Mi pare», disse Olivia, pennellando di blu oltremare le ombre della sua giacca, «che lei sappia molte cose su di me. Ma per favore, basta parlare, sto lavorando al suo viso».

    Con sua sorpresa lui ammutolì, anche se Olivia riusciva a scorgere il divertimento malcelato nei suoi lineamenti, che gli faceva brillare gli occhi. Quell’uomo sicuro di sé era irritante, decise, ma piacevole. E aveva condiviso con lei la sua ultima sigaretta. «Che pace quando smette di parlare», disse infine. «Bene. Ho quasi finito. Per ora lo lascio così e lo finirò più tardi a casa. Può venire mercoledì?»

    «Ci sarò».

    Gli diede il suo indirizzo. In cambio lui prese una scatolina e le porse un biglietto da visita. Lei lo esaminò. C’era stampato semplicemente il nome Fabrice Darnell e il profilo di una penna d’oca. Olivia alzò lo sguardo. «È uno scrittore?».

    Lui fece un piccolo inchino. «Sono un saggista. Non scrivo opere di fantasia. Cerco di ottenere giustizia sociale e libertà per l’individuo nella società moderna».

    «Mi sembra proprio fantasia», disse beffarda Olivia.

    «Posso vedere il dipinto?». Lo studiò. «È molto brava. Ha catturato in pochi gesti qualcosa di me. Vorrei solo che avesse prestato più attenzione ai dettagli».

    «Il mio stile è impressionista».

    «Ovvero per lei la trascuratezza è una virtù».

    «Aveva appena smesso di infastidirmi. Ora sta ricominciando».

    «Spesso la verità è scomoda».

    «Ora può andare», ordinò Olivia, coprendo la tela con un panno.

    «È tutto?»

    «Credo che abbia avuto quello per cui ha pagato».

    Sembrò abbattuto. «Posso restare e continuare la nostra conversazione?»

    «No», disse secca. «Mi terrebbe lontani i clienti. Ho bisogno di catturare un’altra mosca nella ragnatela».

    Aveva un tono deciso, e lui sembrò accettare il congedo. Ma finalmente il sorriso che aveva aleggiato sulle sue labbra arrivò. Era un sorriso molto dolce, venato di malinconia, che gli illuminò il viso. «Molto bene. Ci vediamo tra tre giorni. Arrivederci, signorina Olivia Olsen».

    «Arrivederci, signor Fabrice Darnell».

    Sollevò il cappello e si allontanò senza voltarsi. Lei lo seguì con lo sguardo finché non sparì nella folla che passeggiava sulla riva della Senna.

    Capitolo due

    A un paio di chilometri di distanza da dove Olivia aveva piazzato il cavalletto, Antoinette d’Harcourt stava guardando la sua amica che si svestiva. Arletty, con le lunghe braccia dietro la schiena a slacciare il reggiseno, si accorse dello sguardo di Antoinette.

    «Perché mi guardi così?», le chiese.

    «Non ti posso guardare?»

    «Sì, ma sei tutta corrucciata. A cosa stai pensando?»

    «Stavo pensando che sei molto poco aggraziata».

    «Ah, be’, grazie. Sono lusingata». Arletty appese il reggiseno sulla sedia e si massaggiò i segni che aveva lasciato sui suoi seni piccoli, dai capezzoli scuri ed eretti. «Ho fatto proprio bene a chiedertelo».

    «Non fare l’offesa. Lo sai che sei bellissima».

    «Ma sono solo una figlia del popolo. E tu, come sanno tutti, sei una duchessa».

    «E come tutti sanno una stella del cinema di questi tempi è molto più importante di una duchessa».

    «Anche una stella sgraziata?».

    Antoinette si stiracchiò sul letto, sorridendo. «Non mi fraintendere. Sei un miracolo della natura. Sei ossuta…».

    «Grazie ancora».

    «Allampanata…».

    «Sempre meglio».

    «Goffa, vorrei ribadire…».

    «Ti prego, ribadisci pure, mia cara».

    «…e con tutta Parigi ai tuoi piedi».

    Arletty calciò via le scarpe ed esaminò i suoi piedi sottili. «Non vedo tutta Parigi».

    «Io però sono ai tuoi piedi».

    «Sono confusa. Un attimo fa mi stavi alla giugulare».

    «Ti adoro».

    «Dopo tutti quegli insulti? Permettimi di dubitare della tua sincerità, signora d’Harcourt».

    «Illumini le stanze in cui entri. Il film più banale diventa affascinante quando tu entri in scena. Sei la donna più intelligente, spiritosa e bella di Parigi. E io ti amo da morire».

    Arletty inclinò la testa. «E ora ti aspetti che ti perdoni?»

    «Ti imploro di perdonarmi». Antoinette tese le braccia.

    Arletty salì sull’enorme letto accanto ad Antoinette. La suite era arredata in toni di crema con accenti dorati, stanze raffinate pensate per soddisfare il gusto femminile. Da alcuni mesi si incontravano al Ritz per essere discrete; potevano pranzare insieme sotto gli occhi del bel mondo e poi sgattaiolare di sopra nella loro stanza senza farsi notare. Dividevano il conto.

    Antoinette avvolse Arletty tra le braccia. «Mi fai impazzire».

    Arletty distolse il viso dalla bocca affamata di Antoinette. «Anche se sono scheletrica?»

    «Non ho detto che sei scheletrica. Ho detto che sei allampanata. E sai bene che è vero».

    «Credo che tu ti stia stufando di me».

    Antoinette fece una smorfia. «Oh, tesoro, come puoi dire una cosa simile? Il mio terrore più grande è che sia tu a stufarti di me. Non lo sopporterei. Preferirei morire».

    «Non essere sciocca».

    «Io sono così ordinaria e banale, e tu sei così bella».

    Arletty sentì il sincero dolore nella voce di Antoinette. Socchiuse gli occhi e represse un mezzo sorriso di trionfo. Era gratificante avere una duchessa così infatuata ai propri piedi, anche in un’epoca in cui, come aveva appena detto Antoinette, aver recitato in qualche film valeva più di un titolo nobiliare centenario. E poi a quarantun anni era una bella conquista essere desiderati in modo così appassionato da qualcuno. Arletty sapeva che, anche se era ancora bella, iniziavano a comparire le zampe di gallina intorno ai suoi celebri occhi e le linee d’espressione le circondavano la bocca generosa; e il suo corpo, che non era mai stato voluttuoso, ora iniziava ad apparire decisamente scarno.

    Era impassibile e distante durante l’intimità. Antoinette arrossiva, le labbra e le palpebre gonfie, il respiro affannato, mentre Arletty era quasi silenziosa, il viso una maschera immobile, come a voler tenere per sé qualsiasi piacere provasse.

    Dopo l’amore si misero a sedere sui cuscini di piume e mangiarono un dolce al cioccolato. Il sole stava calando dietro place Vendôme, lasciando entrare nelle bellissime stanze degli spettri color miele.

    «Lascio mio marito», disse Antoinette.

    Arletty le lanciò un’occhiata. «C’è qualcosa che non va?».

    Antoinette la guardò. «Sai bene qual è il problema, mia cara».

    «Non farlo per me», disse secca Arletty.

    «Non posso continuare questa farsa. Ho dato a François dodici anni della mia vita. Ora basta. Tanto il matrimonio è sempre stato comunque una formalità».

    «Hai due figli piccoli. Non sono una formalità».

    «François non mi ama. Io non amo lui. Non c’è altro da dire». Portò alla bocca un altro pezzo di dolce con la forchetta d’argento. «Non parlo di divorzio, certo, né di una separazione pubblica. Semplicemente dobbiamo andarcene per la nostra strada. I ragazzi resteranno con lui. Hanno più bisogno del padre che di me. Non dici niente?»

    «Ho già detto quello che penso».

    «Sono innamorata di te, Arletty». Antoinette guardò l’amica in attesa di una risposta che non arrivò. «A volte hai un’espressione così dura».

    «E sono allampanata e magra e tutto il resto, sì. Me l’hai detto».

    «L’ho detto con amore».

    Arletty non aveva mangiato che due bocconi di dolce. Gestire con ferrea disciplina i suoi appetiti era stata un’abitudine sin da piccola, un’infanzia dura e segnata dalla povertà. La donna accanto a lei, nata nella ricchezza e tra i privilegi, non poteva neppure immaginare una vita simile. E Arletty non gliene aveva mai parlato. Aveva conquistato le attenzioni di gente come Antoinette d’Harcourt solo quando era diventata famosa; e la fama era arrivata tardi, quando era già una donna oltre i trent’anni.

    Com’era viziata quella gente! Si lamentavano sempre di non sentirsi liberi, loro che non avevano mai sofferto la fame!

    Era troppo tardi per diventare come loro. Non sarebbe mai stata così. Anche se ora era la prediletta dei potenti e dei nobili, lei non era né potente né nobile. La chiamavano tutti con il suo nome d’arte, Arletty. Un regista l’aveva battezzata così, dicendo che il suo vero nome sembrava quello di una cameriera.

    Ma lei era, e lo sarebbe sempre stata, Léonie Bathiat, nata a Courbevoie sulla riva sinistra del fiume, tra la ferrovia e le fabbriche; una monella di strada, un’ambiziosa, una arrampicatrice sociale, una gatta randagia, magra e allampanata. Quando Antoinette scherzava sulla sua mancanza di grazia la feriva, anche se continuava a indossare la sua maschera ed evitava di sfoderare gli artigli.

    Antoinette era nata ricca e aristocratica. E suo marito, François-Charles d’Harcourt, discendeva da una famiglia che aveva guidato la conquista normanna dell’Inghilterra. Non lo si poteva abbandonare senza uno scandalo.

    Gli occhi ambrati di Arletty si mossero per la stanza luminosa, dove anche i granelli di polvere che fluttuavano nell’aria erano pagliuzze d’oro. «Abbiamo tutto questo. Ci vediamo diverse volte a settimana, mangiamo insieme, facciamo l’amore, andiamo nei posti che contano. Cos’altro vuoi?»

    «Voglio essere completamente tua».

    «Non puoi. Non lasciare François per me. Se lo lasci, non mi vedrai più di quanto mi vedi adesso. Anzi, mi vedrai molto meno».

    «Perché?»

    «Perché non posso permettermi uno scandalo».

    Antoinette rise. «Non mi importa di dare scandalo».

    «A me importa. Ho una carriera. Tu no».

    «Che cosa crudele da dire».

    «Sì, hai la tua poesia, ed è molto graziosa. Ma se non riuscissi più a pubblicare i tuoi volumetti non ne avresti il minimo inconveniente. Possiedi una fortuna. Io non posso permettermi di perdere la mia fonte di sussistenza». L’espressione di Arletty poteva essere davvero cupa, e ora lo era. «E se ci fosse uno scandalo sessuale e venissi dilaniata dalla stampa, sarebbe molto difficile per me continuare a lavorare».

    Antoinette, sempre emotiva, arrossì. Gli occhi le si riempirono di lacrime. «Non sapevo che pensassi a me come qualcosa di cui vergognarsi».

    «Non è quello che ho detto».

    «Sai essere davvero piccolo-borghese a volte, Arletty».

    Arletty si voltò con aria stanca. «Be’, aggiungilo a tutti gli altri miei difetti».

    «Davvero, hai uno strano umore oggi. Mi stai turbando molto. Non avevo idea che ti vergognassi di me».

    «Non mi vergogno, ma sono vulnerabile. È già successo in passato che delle attrici compromettessero dei duchi. Oggigiorno sono le duchesse a compromettere le attrici».

    «Credi che ai nostri amici importi cosa facciamo?»

    «Ai tuoi amici no», disse Arletty con impazienza. «Ma del resto, tutte le tue amiche sono lesbiche».

    «E tu cosa sei?»

    «Io non sono lesbica».

    Antoinette fece una risatina breve e dolorosa. «Dici proprio delle assurdità».

    «Mia cara Antoinette, ti assicuro che il codice del popolino è molto più rigido e spietato di quello della tua classe. Ed è il popolino che compra i biglietti per i miei film».

    Antoinette si chinò e prese il polso di Arletty nel suo pugno caldo e sudato. «Ascoltami. Possiedo una fortuna, come sai bene. Se dovessi perdere qualsiasi cosa per causa mia sono pronta a ripagarti profumatamente. Il doppio. Il triplo. Non devi temere, tesoro. Ti aiuterò io».

    Antoinette era tanto sciocca da pensare che quella fosse una prospettiva attraente per qualcuno che si era fatto da solo. Arletty si divincolò dalla sua presa e guardò l’orologio. «È tardi. Devo andare». Lanciò le lunghe gambe sottili giù dal letto e iniziò a indossare le calze.

    Antoinette la guardava con gli occhi gonfi. «Mi hai dato un dolore. Pensavo che saresti stata felice del fatto che lascerò François».

    «Mi dispiace, non lo sono».

    «Comunque lo lascerò, qualsiasi cosa tu dica. Ho deciso. Non posso continuare a vivere nella menzogna. Devo farlo per me».

    Arletty non disse nulla ma finì di vestirsi e poi andò allo specchio a spazzolarsi i capelli. Il viso che la osservava dal riflesso era freddo, quasi perfettamente simmetrico e quasi perfettamente indisturbato dalle emozioni di quel pomeriggio. Le avversità in cui era cresciuta le avevano insegnato la disciplina, e a badare a sé stessa innanzitutto. Nessun altro si sarebbe occupato di lei, a prescindere dalle promesse.

    Mise il rossetto, enfatizzando le curve del labbro superiore, come richiedeva la moda dell’epoca. Chiuse il tubetto dorato e si toccò gli occhi con il mignolo, separando le lunghe ciglia curve che qua e là si erano attaccate tra loro. Sul letto dietro di lei, Antoinette stava piangendo in silenzio.

    «Perché vuoi essere per forza infelice?», domandò piano Arletty. «Hai tutto quello che vuoi, compresa me. Tuo marito ti concede tutta la libertà che desideri. Non c’è bisogno di gesti plateali. Devi solo goderti la vita che hai».

    «Io non sono come te», disse Antoinette, picchiettandosi gli occhi con un fazzoletto di pizzo.

    «No, infatti». Arletty si voltò a guardare la sua amica con un sorriso ironico. «Io sono arrivata dove sono con le mie forze. Accetta il mio consiglio, chérie. Goditi quello che hai e ringrazia».

    Antoinette tese le braccia, implorante. «Torna a letto e guarisci le mie ferite».

    Antoinette in momenti come quelli era come una bambina, pensò Arletty. Era arrivato il momento di andarsene con grazia. Scosse la testa. «Devo andare a studiare la mia parte. Domattina iniziamo a girare alle otto». Prese le sue cose e andò alla porta. «Ricorda di aspettare mezz’ora prima di andartene via».

    «Non sopporto di salutarti in cattivi rapporti».

    «Ci stiamo congedando come sempre, da amiche».

    «Non mi lasciare così!».

    Ma Arletty era irritata con Antoinette e aveva già le dita sulla maniglia. Lanciò un bacio ad Antoinette, non volendo rovinare il rossetto, e uscì.

    Fu un sollievo uscire dalla stanza crema e oro. Non aveva una grande predilezione per i melodrammi. Evitò l’ascensore, dove bisognava per forza aspettare, e poi ritrovarsi con tutta probabilità imprigionata con qualche persona noiosa che faceva domande impertinenti. E poi le piaceva scendere la magnifica scalinata a spirale del Ritz, con le sue balaustre di ferro battuto e la sua tappezzeria illuminata dalla cupola di vetro in alto.

    Il grande albergo brulicava di gente. Le boutique accanto all’ascensore erano affollate di clienti ansiosi di acquistare costosi gingilli parigini da portare a casa: gioielli di diamanti, sciarpe di seta, portagioielli di tartaruga, bigiotteria intarsiata di ogni genere.

    Una folla di nuovi arrivati aspettava alla reception, trascinando dietro di sé set di bagagli con monogramma su carrelli dorati. Risuonavano voci americane, inglesi e tedesche. Arletty si insinuò in mezzo alla folla senza lasciarsi avvicinare dagli ammiratori. Il portiere inclinò il cappello e le sorrise. Lui, come la maggior parte del personale del Ritz, sapeva tutto dei suoi incontri segreti con la duchessa di Harcourt. Non si poteva nascondere nulla al personale degli alberghi. Ma la cosa grandiosa del Ritz era che i segreti venivano religiosamente custoditi, mai venduti, mai traditi. Era la garanzia di un posto di altissimo livello.

    Uscì nel grande spazio di place Vendôme, il luogo pubblico più alla moda di Parigi. Dall’alto della colonna bronzea che torreggiava al centro della piazza, Napoleone guardava giù, con il globo del mondo in una mano, l’altra posata sull’elsa della sua spada. Coprendosi gli occhi con il palmo, Arletty alzò lo sguardo sulla figura lontana e verdastra. Doveva essere bello starsene così in alto, pensò. Ma la caduta poteva essere rovinosa.

    Capitolo tre

    Mentre camminava verso casa a Montmartre, Olivia ripensò al suo unico cliente del giorno e al suo buffo modo di parlare. Era stata una domenica solitaria e lui l’aveva illuminata. Non vedeva l’ora di rivederlo e di incrociare di nuovo la spada della dialettica con lui. E i suoi centocinquanta franchi, al sicuro nella sua tasca, erano la promessa di un pasto decente al ristorante quella sera, e forse un bicchiere consolatorio di vino della casa.

    Il suo appartamento era in cima a un edificio fatiscente in una stradina ripidissima nel quartiere degli artisti. Non era né comoda né economica, ma l’ultimo piano era tutto suo, e offriva la vista di un vero vigneto – che si diceva fosse stato piantato per tenere a bada la città – che scendeva disordinatamente giù per la collina tra file di case pittoresche e sghembe.

    Entrare nel portone però significava affrontare Scilla e Cariddi, la padrona di casa e suo marito, separati da anni, che sbirciavano dalle rispettive porte, una di fronte all’altra, nell’androne. Olivia cercò di sgusciare in silenzio tra loro, ma non era il suo giorno fortunato. Entrambe le porte si spalancarono, e due volti arrabbiati comparvero a babordo e tribordo.

    «Non si può andare avanti così», sibilò madame de la Fay. «Mi deve due settimane di affitto, signorina».

    «Oggi è domenica quindi sono tre settimane», aggiunse il marito dall’altra parte. I de la Fay si odiavano ma erano uniti nel loro odio ancora più forte per gli inquilini morosi. Madame de la Fay aveva il muso di un avvoltoio, l’alito di monsieur de la Fay sapeva di acetilene. «Questo non è un ricovero per poveri, signorina. Non può stare qui gratis».

    «Mi dispiace moltissimo», disse Olivia a disagio. «Dovevo comprare colori e tele…».

    «La sua economia domestica è affar suo», scattò madame de la Fay. «Devo insistere perché lei paghi il suo affitto o domani può fare le valigie. Ho altre persone interessate alla sua stanza».

    Olivia pensò al denaro che aveva in tasca e all’altra metà che l’aspettava mercoledì. «Se solo poteste darmi qualche altro giorno…».

    Madame de la Fay incrociò le braccia robuste. «Niente più giorni».

    Il marito stava esaminando il carico di Olivia con occhi stretti e cerchiati di rosso. Indicò le tele con aria accusatoria. «Ha avuto una commissione oggi».

    «Sì, ma…».

    «Ha lavorato», sputò de la Fay a sua moglie. «Ha i soldi!».

    «Devo insistere». La signora bloccava il passaggio a Olivia con la mano tesa. «Paghi o se ne vada». Era implacabile.

    Olivia si arrese. Capì di non avere scampo. Pescò dalla tasca i soldi di Fabrice Darnell. «Sono solo centocinquanta franchi…».

    La padrona di casa si avventò sul pugno di monete e banconote accartocciate. «Basta per una settimana. Venerdì ci porti il resto o dovrà andarsene».

    Era inutile chiedere ulteriori dilazioni. Le porte si richiusero, lasciandola sola nell’androne buio. Senza un soldo, Olivia si arrampicò su per le scale verso la sua mansarda. Era molto demoralizzata. Il pasto caldo e il bicchiere di vino si erano smaterializzati. E non c’era dubbio che i de la Fay si sarebbero avventati con uguale agilità sulla seconda parte del pagamento di Fabrice Darnell, il mercoledì. Non sarebbe riuscita a nascondere il suo arrivo; non riceveva molte visite. Se non cominciava presto a vendere le proprie opere, il suo soggiorno a Parigi sarebbe finito prematuramente. E anche se gli ultimi mesi erano stati duri, il pensiero di abbandonare la città le spezzava il cuore. Aveva imparato ad amare quella metropoli incantevole dove era tanto difficile sopravvivere.

    Entrò nella sua stanza, uno studio dai soffitti alti affollato di tele su tre pareti. La quarta si apriva su un balconcino stretto, più simile a un davanzale, da cui si godeva di una vista spettacolare sul vigneto, sugli innumerevoli comignoli di Montmartre e sulla cupola distante del Sacré Cœur, la cui sagoma si stagliava ora contro un tramonto dorato.

    Quel panorama era la cosa migliore del suo alloggio. Il pavimento di legno era scheggiato, dal lucernario entrava la pioggia (oltre alla luce preziosa che le serviva per lavorare) e il letto fornito da madame de la Fay era di ferro e molto cigolante, ed era stato di sicuro usato come barricata durante la rivoluzione. Aveva un tavolo, un paio di sedie e un lavello – solo acqua fredda – nell’angolo. Il bagno era una rampa di scale più giù, e piuttosto squallido, anche se completo di un’enorme vasca su piedi a sfera.

    Faceva ancora caldo e la vecchia stufa di ferro restava spenta, così Olivia si preparò la cena scaldando una lattina di fagioli sul fornelletto a spirito che usava anche per sciogliere i cristalli di resina con cui verniciava i suoi dipinti.

    Mangiò la sua cena frugale ancora nella padella sul balcone, non solo per godersi il tramonto ma anche per sfuggire all’aria che sapeva di olio di lino, trementina, c’era d’api, vernice e tela che pervadeva la mansarda. I de la Fay non erano certo i proprietari ideali, ma almeno tolleravano gli odori pungenti dei suoi prodotti, e non era da tutti. Erano odori a lei cari, ma pochi altri li sopportavano.

    Olivia mangiò con appetito i suoi fagioli e rifletté, come già le era capitato quella mattina, sul fatto di aver percorso tanta strada da Lindstrom, nel Minnesota. Di certo lì mangiava meglio e con più regolarità. Ma era difficile restare di cattivo umore con tutta Parigi ai suoi piedi.

    Parigi! Quella parola esercitava su di lei un’attrazione quasi mistica da quando era bambina. E la colpa era soprattutto di sua madre, che le aveva riempito la testa (come il resto della famiglia non si stancava mai di rimarcare) di sciocchezze romantiche.

    La maggior parte della famiglia era arrivata nel 1860, quando la Svezia era stata afflitta da cattivi raccolti. Si erano stabiliti in comunità piccole ma solide, che si consideravano profondamente americane e tuttavia restavano fedeli alle proprie radici. I loro valori erano il lavoro duro, la testardaggine, la devozione e una totale assenza di immaginazione.

    Ma lei aveva bisogno d’altro per sentirsi davvero viva. E sua madre era l’unica persona che lo capiva.

    Sua madre Gitte era anche l’unica Olsen a essere mai stata in Francia; ci era andata apposta per visitare il famoso giardino di Monet, con i suoi stagni di ninfee e i ponticelli giapponesi; una visita, fatta prima della nascita di Olivia, commemorata nel singolare secondo nome di Olivia: Giverny.

    Olivia aveva provato a essere una buona Olsen: un’americana allegra e moderna per assimilazione, una campagnola svedese per discendenza. Ma voleva di più, e aveva risparmiato per cercare un’altra vita.

    Il sole calante aveva trasformato la sera parigina in un mare cremisi, lavando tutto ciò che era sordido e tingendo ogni cosa di fascino. Rimase lì a sedere, persa in quella gloria, finché il rosso non sfumò nella notte.

    Mercoledì mattina Olivia si svegliò perché qualcuno bussava alla porta. Anche se non vedeva l’ora di ricevere i suoi centocinquanta franchi, non fu molto felice di trovarsi davanti Fabrice Darnell.

    «Non sono nemmeno le nove», si lamentò, stringendosi nel suo logoro kimono e sporgendosi dalla porta. «Se ne vada e torni tra un’ora».

    «La sua padrona di casa sta aspettando di sotto», rispose Fabrice. «Ha già cercato di prendersi i suoi soldi direttamente da me».

    «Me li dia».

    «Non ho ancora visto il dipinto».

    «Non si fida di me?». Tese la mano in attesa del denaro. Lui glielo contò sul palmo, riluttante. Lei gli restituì dieci franchi. «Vada nel negozio all’angolo e compri un pacchetto di caffè. Torni tra un’ora». Gli chiuse la porta in faccia.

    Quando tornò lei si era resa presentabile e aveva aperto le finestre sul mattino luminoso e morbido. Fabrice non aveva portato solo il caffè come richiesto, ma anche un sacchetto di piccole brioche, con cui si fece presto perdonare il brusco risveglio.

    Olivia aveva messo il suo dipinto su un cavalletto

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