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Rimini criminale
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E-book397 pagine5 ore

Rimini criminale

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Info su questo ebook

Una serie di crimini, apparentemente non collegati tra loro, dilaga tra le strade cittadine e le campagne di Rimini. Per il vicequestore Lombardi e la sua squadra è una matassa davvero difficile da sbrogliare. È proprio dietro la figura tranquilla del professor Casagrande, docente di lettere al Liceo, che si nasconde la soluzione: porterà a una banda straniera che coordina un incredibile e efferato traffico di vite umane. E la risposta di tanti misteri che lo coinvolgono nasce dal suo cuore nuovo, un trapianto che avrà risvolti imprevedibili. Un thriller avvincente, dal finale mozzafiato. Monumenti e vie di Rimini fanno da scenario a una storia in cui fino all’ultimo è dubbia la soglia tra coloro che sono vittime e carnefici.
L’Autore: Luca Cafaro, nato a Galatina, è laureato in Scienze Motorie  dove vive e insegna Ha pubblicato i thriller storici: “Un sogno chiamato libertà” (Neftasia Editore, 2011) e “Nel nome della fede. Otranto 1480” (Robin Edizioni - 2017) con il quale ha ricevuto diversi riconoscimenti. Da sempre attratto dal misticismo, i suoi romanzi sono un viaggio tra mistero e realtà.
LinguaItaliano
Data di uscita25 mag 2020
ISBN9788894486513
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    Anteprima del libro

    Rimini criminale - Luca Cafaro

    tracce.

    1

    (Due ore dopo)

    Roberto stava tirando fuori i piatti dalla lavastoviglie. Era distratto, il dialogo di sei mesi prima con il chirurgo gli risuonava in mente, frase per frase:

    «Cardiomiopatia ipertrofica, mi spiace signor Casagrande», gli aveva detto il medico.

    Dai, non sarà grave!, aveva allora pensato Roberto, indurendo il viso.

    «Purtroppo la malattia si è estesa a tal punto da interessare anche il ventricolo destro, di solito a esserne colpito è solo quello sinistro».

    Merda!, esclamò tra sé, a stento tenendo a freno la lingua.

    «È ereditaria, c’è qualche parente che ne soffre o che ne abbia sofferto?».

    «Mio padre, è venuto a mancare dieci anni fa proprio a causa di un arresto cardiaco», aveva risposto Roberto con nostalgia. «Voglio essere chiaro con lei… », aveva fatto una breve pausa che era parsa infinita, «la sua condizione è molto grave. Purtroppo l’unica soluzione in grado di garantirle la sopravvivenza è il trapianto». Il dottor Enzo Righi, durante quella visita di sei mesi prima, era stato diretto, ma anche gentile e umano. Gli aveva spiegato ogni cosa nei dettagli e mostrato i dati relativi alle possibilità di successo, gli aveva assicurato che lo avrebbe operato personalmente e specificato che l’intervento si sarebbe svolto all’ospedale di Bologna, una struttura d’eccellenza nei trapianti cardiaci. Per fare ciò, però, sarebbe stato necessario avere un cuore disponibile, variabile per cui non c’erano statistiche che tenessero.

    Roberto ritornò al presente e ironizzò tra sé e sé, a voce alta e venata di malinconia:

    «Il professor Casagrande, insegnante di Lettere e Storia, dopo appena sei mesi dall’assunzione in ruolo è già in malattia… per sempre!». Ipotizzava già il sarcasmo di qualche collega che, per mancanza di tatto o per cattiveria, si sarebbe beffato della sua sorte. Aveva quarantacinque anni e mai avrebbe immaginato di non aver tempo di gioire per quel contratto a tempo indeterminato che tanto aveva desiderato. Sacrifici su sacrifici, aveva studiato per anni e partecipato a concorsi per ottenere tutte le abilitazioni necessarie, investendo fatica e denaro, spesso spendendo più di quanto guadagnasse. Ma gli sforzi non lo avevano scoraggiato, né distolto dal suo traguardo.

    Negli ultimi due anni, però, una serie di eventi negativi lo aveva fatto cedere, tanto che la scuola, la sua vera passione, era passata in secondo piano. Inizialmente si sentiva stanco, affaticato, e pensava che questo malessere fosse dovuto ai ritmi serrati degli appuntamenti scolastici, alla difficoltà di gestire classi sempre più affollate, ai ragazzi sempre meno interessati allo studio. Poi, aveva iniziato a respirare male: fare le scale per raggiungere il primo piano dell’istituto in cui lavorava gli sembrava un’impresa simile allo scalare l’Everest.

    Presto comparvero i primi dolori al torace, soprattutto dopo i pasti. A farlo definitivamente preoccupare era stata una tachicardia, che lo aveva colpito un tardo pomeriggio mentre rientrava a casa dopo un consiglio di classe. Aveva dovuto accostare la sua Ford Fiesta del 2000 per cercare di tranquillizzarsi e, lentamente, far sì che i battiti si potessero ristabilire. Finché una sera, come un fulmine improvviso, lo colse un dolore forte al torace e la paralisi del braccio sinistro. Il cuore sembrava essersi fermato o, al contrario, battere troppo forte: non riusciva a capire. Ansimava, gli mancava l’aria, lo spazio, il mondo sembrava implodergli dentro.

    Aveva un infarto in corso. Da quel triste episodio, erano passati due anni segnati da visite di ogni tipo: analisi del sangue, risonanze magnetiche, tac, elettrocardiogrammi, ecocardiogrammi e test da sforzo; tutto questo l’aveva portato alla conquista del suo primo pacemaker. Ma non bastava, il suo cuore voleva di più. Quando il dottor Righi gli aveva spiegato con molta professionalità e, soprattutto, senza troppi giri di parole, in cosa consisteva la malattia, la sua mente era altrove, lontana; si sentiva scorato. Ciò che aveva fatto trasalire fu, però, la frase:

    «Un paziente affetto da cardiomiopatia non può guarire, ma, se trattato in maniera adeguata, può avere un’aspettativa di vita migliore». Se la sua aspettativa di vita migliore era quella di non poter più insegnare, allora desiderava qualcosa di più. Per questo si trovava ora in lista d’attesa per un trapianto di cuore, senza il quale gli sarebbero rimasti pochi anni. Dopo aver sistemato l’ultimo bicchiere nella credenza, Roberto sfogliò in tutta fretta il giornale locale, quel mattino non aveva tanta voglia di leggere, si sentiva apatico.

    Via i Rom dalla città! Era il titolo che troneggiava in prima pagina di Rimini Inside, che si schierava contro le comunità sempre crescenti di extracomunitari. Odiava dover leggere quelle affermazioni, così come quelle di tutti i politici che si vantavano di voler spazzare via gli invasori. Gli sembravano paragonabili ai piloti improvvisati di Independence Day, persone comuni e inesperte costrette a condurre aerei super equipaggiati per sconfiggere gli alieni. Infastidito, lasciò il giornale e si diresse nella stanza dove amava perdersi, il suo studio. L’appartamento in cui viveva non era grande, appena settanta metri quadri distribuiti tra camera matrimoniale, bagno, cucina con soggiorno e una stanzetta che aveva allestito, appunto, a mo’ di studio.

    Quel piccolo spazio rappresentava il suo rifugio. Era arredato con poco: una scrivania sulla quale adagiare il portatile e una piccola colonna di legno per i libri. Lì la moglie poteva metterci piede solo in casi eccezionali, così scherzava Roberto; in realtà era lei stessa a non esserne per nulla attratta. Il loro era un tacito accordo che andava bene a entrambi, uno dei piccoli, normali compromessi su cui si fonda il matrimonio. Accese il pc, e fece accesso a un software online per le presentazioni. Doveva prepararne una sui primi anni del Novecento e la storia dell’Europa negli anni della Grande Guerra. Aveva scelto di usare l’immagine di un giovane serbo con una pistola in mano vicino all’indicazione Sarajevo 1914, poi foto di monumenti in onore ai caduti in guerra, di Mussolini, di Hitler che aizzava la folla verso il delirio. Il suono del citofono lo distolse dal suo lavoro. Pigramente si diresse verso la porta. «Sì, chi è?».

    «Posta, c’è da firmare».

    «Okay, arrivo. Abbia un po’ di pazienza, scendo dal terzo piano!».

    Che diavolo avrà ordinato Barbara questa volta? Maledetto shopping online!, pensò. Aveva appena chiamato l’ascensore quando sentì squillare anche il cellulare.

    Mentre stava per rientrare in casa, la porta dell’ascensore si aprì. Secondo squillo. Si fermò un attimo, indeciso sul da farsi. Terzo squillo. Poi decise di scendere. La porta si chiuse mentre echeggiava il quarto.

    2

    Barbara prese un modulo per l’iscrizione e lo consegnò all’uomo davanti a sé.

    «Lo compili con i suoi dati, non si preoccupi del resto», disse con tono cordiale e tranquillo la donna della reception del centro sportivo, tirando fuori dalla borsa un elastico con il quale raccolse in una coda i lunghi capelli color seppia. Intanto dalla rampa delle scale di fronte alla reception vide arrivare un ragazzo poco più che ventenne, biondo e dallo sguardo furbetto.

    «Barbara, appena hai terminato con il signore, potresti venire a darmi una mano in piscina? Oggi sono solo, Claudia è ammalata, e fra un po’ arriveranno i ragazzini della scuola». «Okay, Giorgio, cinque minuti e sono da te», sbuffò piegando il capo.

    L’Olimpia Sporting Center di Rimini contava oltre diecimila iscritti, la maggior parte dei quali pronti a scaricare lo stress accumulato tra piscina, palestra, campetti di calcio, beach volley e tennis. Barbara indossava una maglietta rossa con la scritta Staff sulla schiena, aderente quanto bastava a far immaginare un seno voluttuoso, e un paio di pantaloncini bianchi adagiati sensualmente sui fianchi. Aveva da poco compiuto quarant’anni, ed era una donna non solo attraente, ma anche molto seduttiva. E questo lei lo sapeva bene, nonostante il recondito timore di non essere desiderata.

    «Eccomi, Barbara, scusami per il ritardo ma via Flaminia era del tutto bloccata. Pare ci sia stato un incidente e il traffico si è totalmente congestionato», in tutta fretta Simona prese posto al suo fianco.

    «Tranquilla, puoi continuare con il tesseramento del signor Gabriele?», domandò, poi rivolgendosi al nuovo cliente aggiunse:

    «La lascio in ottime mani, Simona è dolcissima e ha anche dieci anni in meno di me» e sorrise con malizia strizzandole l’occhio. La collega arrossì per l’imbarazzo, e con il dorso della mano destra si sollevò una ciocca di capelli che le copriva la guancia, in un gesto che sembrava voler mascherare il suo disagio. Barbara le sorrise con affetto, le accarezzò il viso e si allontanò. Le piaceva lavorare in quel centro: amava essere a contatto con le persone, socializzare, ascoltare i problemi dei suoi clienti, sentirsi utile al prossimo. Si recò spedita dove Giorgio l’aveva richiesta e, uscita dagli spogliatoi, intravide il ragazzo nuotare a stile libero.

    Avrà già macinato una ventina di vasche!, sorrise tra sé, mentre si sistemava in attesa a bordo piscina.

    Giorgio intanto, giunto in prossimità della pedana su cui si era seduta, balzò fuori dall’acqua mettendo in mostra il suo bel fisico atletico.

    Ah, rimpiango i miei vent’anni!, rifletté Barbara guardandolo di sottecchi.

    «Forse arriverà solo una classe, dovrebbero essere venticinque ragazzi intorno ai tredici anni che non hanno per niente voglia di imparare né di ascoltare», la punzecchiò Giorgio, divertito dall’idea di metterla in difficoltà, pur sapendola più esperta.

    «Vedremo chi dei due cederà!», ribatté lei, divertita dalla sfida.

    «Se preferisci non entrare in vasca ti lascio gli esperti, la volta scorsa ho iniziato con alcuni esercizi propedeutici per il dorso».

    «Perfetto. Mi stai per caso dicendo che sono troppo anziana per nuotare in vasca?», finse un broncio complice.

    «Sto solo evitando la possibilità di farti chiamare zia!».

    «Tu vuoi solo che le ragazzine ti sbavino dietro affascinate dal tuo fisico».

    «A dire il vero vorrei evitare che qualche ragazzino si ecciti vedendoti in costume!».

    Risero di cuore, ormai tra i due era un continuo gioco di battute. Allestirono l’attrezzatura che avrebbero utilizzato durante l’ora di lezione, poi un vociare chiassoso li avvisò dell’arrivo della scolaresca. I ragazzi si prepararono e si recarono nelle rispettive corsie. Si dividevano tra principianti ed esperti. Questi ultimi, tutti maschi, si posizionarono davanti a una lunga vetrata, un finestrone che li separava dall’esterno, dove si stagliava un campetto di calcio a cinque.

    Il loro sguardo sembrava malinconico, come se qualcuno li avesse puniti, segregandoli in piscina invece di farli stare all’aria aperta a calpestare l’erba, calciando un pallone. Fu solo in un secondo momento che Barbara notò la presenza di un alunno con disabilità. Il ragazzino autistico entrò nella corsia di Giorgio. Lo aveva visto arrivare con le sue ciabattine di Spiderman, l’accappatoio rosso e un costumino a righe.

    Sembrava impacciato, goffo nei movimenti, spaesato. Si guardava intorno quasi adirato, con la testa che scattava un po’ a sinistra, un po’ a destra. Un insegnante gli si avvicinò per infilargli i braccioli, anch’essi rigorosamente del suo supereroe preferito. Mentre pensava che Giorgio avrebbe avuto un gran da fare con lui, Barbara lo vide entrare nell’acqua e iniziare a nuotare con tanta energia e leggerezza. Sembrava diventato un tutt’uno con l’acqua.

    Quando Giorgio gli si avvicinò, il ragazzino lo abbracciò con foga, tanta era la gioia che provava nel rivedere il suo istruttore.

    «Barbara», la voce di Simona la fece tornare in sé.

    «Barbara, c’è una telefonata per te, è urgente!». Quelle ultime due parole erano state pronunciate con voce tremante, lasciando presagire qualcosa di grave. Barbara si precipitò verso Simona che nel frattempo le andava incontro.

    «Cos’è successo?».

    «Ti cercano dal Policlinico di Bologna… ». Non serviva dire altro, aveva già compreso di cosa si trattasse.

    «Vai pure, Barbara, ci penso io ai ragazzi!».

    Rimasero a guardarsi per un tempo che sembrò interminabile, poi senza dire nulla Barbara corse verso la reception. Il cuore, che solo un attimo prima si stava riempiendo di calore, ora invece pulsava forte per la paura. In quel breve tragitto mille domande le affollarono la mente. Poi prese la cornetta, chiuse gli occhi, emise un profondo respiro e rispose.

    «Pronto? Sono Barbara Domenichini».

    «Buongiorno signora Domenichini, sono il dottor Righi, ho provato a mettermi in contatto con suo marito ma non risponde. Abbiamo appena ricevuto un cuore compatibile con quello di Roberto. Dovete recarvi immediatamente in ospedale, stiamo già preparando la sala operatoria».

    La voce del chirurgo penetrò come una saetta nella sua testa: quel giorno, che nessuno credeva sarebbe mai giunto, ora bussava subito alla loro porta.

    «Signora, è fondamentale non perdere tempo. Il cuore del donatore dev’essere trapiantato entro cinque, massimo sei ore dal decesso. Ci vediamo a Bologna».

    Era impietrita, si rese conto che la mano che impugnava la cornetta tremava. Poi si destò dal torpore in cui era piombata e con tono risoluto rispose al chirurgo. «Perfetto, dottore, partiamo subito!».

    3

    Il motore della Ford Fiesta rombava come quello di un aereo, divorando chilometri sull’A14. Non aveva mai corso così tanto. Roberto era al fianco di Barbara, l’espressione del volto lasciava trapelare una comprensibile preoccupazione per l’intervento che di lì a poco avrebbe dovuto subire. In quel frangente non riusciva a pensare a nulla di concreto, nemmeno ipotizzare ciò che sarebbe potuto accadere. Come si sarebbe sentito dopo il trapianto? Metteva anche in discussione l’effettiva esistenza di un dopo.

    Barbara, impegnata alla guida, non dava segni di angoscia; solo il modo in cui teneva le mani sul volante la tradiva.

    «Mi spieghi a cosa ci serve una lampada?».

    «Non è una lampada!», rispose quasi scocciata, «è un diffusore di aromi che si illumina quando è acceso e cambia perfino colore».

    «Come una lampada… », sottolineò Roberto con un sorriso.

    «Pensala come vuoi! Piuttosto non hai mangiato nulla, vero?». Il suo tono duro palesava timore.

    «Certo, ho bevuto solo un caffè stamattina, e dell’acqua. Mi sono attenuto alle regole».

    «Fra un paio d’ore verrai operato… ».

    La frase le uscì piano, leggera e tenera. Non riuscì nemmeno a concluderla. Roberto le poggiò la mano sulla coscia accarezzandola con dolcezza.

    «Tranquilla, Barby, andrà tutto bene!».

    Presero l’uscita per Bologna San Lazzaro, mancava poco per il Policlinico Sant’Orsola-Malpighi. Le indicazioni del chirurgo erano state precise:

    «Appena arrivati, passate dall’accettazione e poi dirigetevi direttamente in cardiologia, per una radiografia del torace. Andranno effettuati diversi esami prima dell’intervento».

    La coppia ripiombò nel silenzio, ognuno avvolto nelle proprie paure. Nessuno dei due voleva pensare al post trapianto. Roberto temeva di lasciare la moglie sola ad affrontare le spese del mutuo; l’insegnamento, invece, era sparito dai suoi pensieri. Barbara, dal canto suo, non accettava l’idea di poter rimanere vedova a quarant’anni. Giunti in ospedale, notarono fin da subito di essere attesi con impazienza: i moduli da firmare erano già stati preparati, e un’infermiera li accompagnò nel reparto dove l’équipe medica li stava aspettando. Fu presto chiaro che tutto si sarebbe svolto in tempi brevissimi.

    Il dottor Righi li accolse con un sorriso che trasmetteva tranquillità e protezione.

    «Salve Roberto, il grande giorno è giunto. E buongiorno anche a lei signora, fra qualche ora le restituiremo suo marito, tornerà come nuovo!».

    Il chirurgo posò una mano sulla spalla dell’esile Roberto, rispetto al quale mostrava un fisico possente e molto più robusto.

    «Bene, signori, procediamo con gli esami senza perdere tempo», continuò il dottore. «Il cuore del donatore è perfettamente compatibile con il suo. Ora, Roberto, l’affido ai miei assistenti che provvederanno a sottoporla a ogni accertamento. Oltre alla radiografia del torace dovrà fare un prelievo del sangue, poi un elettrocardiogramma, una visita con il cardiologo e con l’anestesista. Se i parametri si riveleranno nella norma, procederemo con l’intervento. Io, nel frattempo, esaminerò ancora una volta il cuore del donatore per essere sicuro che ogni cosa vada per il meglio».

    Così dicendo si allontanò lasciando i due coniugi nelle mani dei colleghi. Roberto fu invitato a seguire un’infermiera e da quel momento la sua strada si divise da quella di Barbara, i cui occhi verdi cercarono ancora una volta quelli castani del marito. Compresero che quella poteva essere l’ultima volta in cui si sarebbero specchiati l’uno nel riflesso dell’altra. Un nodo si strinse nella gola di Barbara, poi la porta le si chiuse davanti. Sola, si sentì libera di lasciare che le lacrime le solcassero il volto. Scesero giù, quasi volessero accarezzarle il viso. Ripensò agli ultimi due anni, a quanto erano stati faticosi. Roberto era cambiato tantissimo, non era più l’uomo del quale si era innamorata. Era diventato scorbutico, egoista, a volte le dava la sensazione che non nutrisse più alcun desiderio per lei, avevano anche smesso di fare l’amore. Sapeva che era colpa della malattia e capiva quanto il mondo di suo marito fosse di colpo mutato, ma faceva fatica ad accettare che tutta quella negatività si riversasse sul loro rapporto. Lo amava, ma nel suo inconscio era nato un sentimento misto a rabbia e odio verso quell’uomo che sembrava averla messa da parte.

    Erano sposati da cinque anni ed erano riusciti a farsi concedere un mutuo dalla banca con non poche difficoltà. Lui era precario a scuola e lei era impiegata, prima solo come istruttrice di nuoto, poi come responsabile amministrativa nel centro sportivo. Ricordava benissimo il giorno in cui il loro paradiso si era trasformato in un incubo senza fine. Quella sera, con Roberto che ansimava steso a terra, lei, ferma in un angolo e paralizzata dalla paura, si era resa conto di quanto fosse impotente. Avevano appena deciso che sarebbe stato bello dare alla luce una nuova vita, stavano brindando alla famiglia che avrebbero costruito. Ma in un istante tutto cambiò. Il suono di un messaggio su WhatsApp la distolse dai suoi pensieri.

    Apparve la scritta Novità?, firmato da Andreina. Quel messaggio la mandò in confusione. I sensi di colpa le riempirono il cuore. Spense per non essere disturbata, ma con la sensazione di essere stata trafitta da una lama. La porta si aprì e vide il medico anestesista spingere un lettino con Roberto, disteso e coperto da un lenzuolo. Non si era resa conto di quanto tempo fosse trascorso.

    «Signora Casagrande, è tutto pronto. Portiamo suo marito in sala operatoria. Prima gli somministreremo l’anestetico per via endovenosa e quindi inizieremo l’intervento».

    Barbara inerme non disse nulla.

    «Tranquilla, Barby, andrà tutto bene!», le ripeté Roberto ancora una volta. Vide le mani del marito armeggiare sotto il lenzuolo senza capire cosa stesse facendo poi, quando le tirò fuori, le fu chiaro.

    «Prendi la mia fede, me la ridarai al mio risveglio!».

    Non riuscì a trattenere le lacrime.

    «Ti aspetto qui!», disse singhiozzando. Il lettino iniziò a muoversi spinto dal medico, e i loro sguardi si cercarono finché fu possibile. Roberto, nel vedere la moglie svanire, fu preso dai rimorsi; si rese conto di quanto fosse stato duro negli ultimi due anni, ma non per colpa sua. Era lui stesso a essere arrabbiato con il destino per come si era preso beffa di lui.

    Avrebbe voluto urlare tutta la sua rabbia, avrebbe voluto incontrare faccia a faccia colui che aveva scritto le sue giornate. Aveva trascorso interi giorni e notti, chiuso nel suo studio, intento a preparare mappe concettuali e presentazioni, qualsiasi cosa impegnasse tutte le sue energie. Tutto ciò che gli ruotava intorno non aveva più senso, non aveva alcuna ragione di esistere, si sentiva schiacciato dalla sua stessa passione per quell’attività scolastica che tanto amava. Ogni tanto, poggiando la mano sul cuore, chiudeva gli occhi lasciando che il battito scandisse il tempo.

    Un battito, un pensiero.

    Un battito, un ricordo.

    Un battito, un sogno infranto.

    Quando aveva deciso di ricorrere al trapianto gli era sembrata la sua ultima occasione per tornare a un’esistenza normale. Si era documentato, aveva addirittura cercato di contattare qualche paziente che aveva subìto il suo stesso intervento. Voleva solo sentirsi dire che sarebbe tornato a vivere la sua vita.

    «Roberto, ora le farò una flebo per somministrarle l’anestetico, non sentirà nulla e senza accorgersene si addormenterà».

    Il medico con cura infilò l’ago nella vena del braccio destro, ruotò appena la valvola posta in alto e le goccioline di soluzione lentamente iniziarono a scendere.

    «La porto nella sala operatoria, può rilassarsi, andrà tutto bene». Quella frase, che lui stesso aveva ripetuto più volte a Barbara, in quel momento gli suonò meccanica: né falsa e né tanto meno incoraggiante, solo parte di un copione.

    Entrò nella sala operatoria con la sensazione di essere il protagonista del film Il miglio verde. Un uomo innocente condannato alla pena di morte. Si sentiva in trappola, messo con le spalle al muro, nessun avvocato a difenderlo, alcun giudice ad assolverlo, solo una giuria che aveva deciso della sua vita. Ma in fondo cosa voleva? Solo costruire una famiglia con sua moglie, e fare del bene istruendo i suoi alunni. Invece era stato soggiogato dalla crudeltà del destino.

    I suoi occhi furono abbagliati dalla luce intensa delle lampade accese sopra il suo corpo. Vedeva indistintamente figure in camice verde che si muovevano intorno a lui. Non riusciva a comprenderne le parole, sentiva solo suoni che vibravano nell’aria. Le figure iniziarono a distorcersi. I movimenti attorno a lui erano di colpo aumentati. Le voci ovattate si susseguivano con ritmo serrato. Percepiva una forte agitazione attorno a sé. Qualcosa non stava andando secondo il protocollo. Poi si sentì inghiottito dal buio.

    4

    (Sei mesi dopo)

    «Ti va di spiegarmi cosa ti preoccupa?», la voce turbata di Sonia echeggiò nell’abitacolo dell’auto.

    Lui rimase in silenzio, facendo finta di non aver sentito. Lo fissò con tenerezza, sapeva che di sbieco l’avrebbe guardata.

    «Carlo, conosco quell’espressione, è un po’ che ti vedo assente, sei ansioso, non so nemmeno per cosa!».

    L’uomo, direttore del quotidiano Rimini Inside, emise un sospiro. La morte del giornalista Stefano Guglielmi aveva segnato Carlo nel profondo.

    Gli era molto legato, non solo professionalmente — era il miglior giornalista della redazione —, ma anche come amico. Il loro rapporto si era fatto sempre più stretto con il passare del tempo. Spesso, impegni permettendo, andavano al Meazza di Milano a sostenere i loro nerazzurri e, quando non potevano fare trasferta, guardavano le partite di calcio in televisione, con pizza e birra al seguito. Non riusciva a togliersi dalla mente le ultime parole scambiate con Stefano al cellulare, quella maledetta mattina.

    «Ciao Carlo, l’ho terminato. Ora il Pulitzer non me lo toglie nessuno!», era risuonata la voce di Stefano in una risata fragorosa, consapevole dell’ilarità della sua affermazione.

    «Spero che ciò che hai nelle mani sia qualcosa di legale, non voglio rovinarmi la carriera», sottolineò il direttore.

    «Giornalista dell’anno, già mi vedo come notizia in tutti i telegiornali nazionali. Prepara la buona uscita!», continuò a punzecchiarlo.

    «Stefano, fai il serio. Prima mi fai vedere quello che hai scoperto e dopo vediamo».

    Poi aveva percepito il rombo assordante di un motore, seguito da un impatto violento, infine il silenzio. La morte del collega però non era la sola cosa ad angosciarlo. Si voltò a guardare la moglie. I segni del tempo erano chiari sul suo viso, ma i lineamenti le davano ancora un certo fascino. Aveva colorato di rosso mogano i capelli ormai ingrigiti, e le donavano, specie con il taglio che aveva fatto da poco.

    «Allora? È tutta la sera che con la testa sei da tutt’altra parte. Se ne sono accorti anche Greta e Antonio. Potevamo benissimo andare a cena senza di te, considerata la tua presenzaassenza».

    «Niente di che, Sonia, sono solo stanco!», sbuffò.

    «E… ?».

    «E niente! Preoccupato per alcune beghe di lavoro, ma nulla di cui allarmarsi o allertare la croce rossa».

    Emise un respiro profondo, da cui si capiva che c’era molto di più di quello che aveva detto alla moglie.

    «Sì, è vero, in questi giorni sono più nervoso del solito, ma è un brutto periodo… ». Fece una breve pausa, quasi per cercare le parole giuste: «Non ho ancora trovato il sostituto di Stefano, e non ho voglia di sistemare tutti i lavori che ha lasciato in sospeso».

    «Scusami, Carlo, perdonami, posso solo immaginare quanto sia dura per te. Accidenti alla mia gelosia!».

    «Perché? Temevi avessi una storia con un’altra donna?», rise di cuore.

    Lei sorrise senza dire nulla, le bastava sapere che quel burbero di suo marito fosse solo suo. Carlo, che era un uomo paffuto, si difendeva spesso:

    «Non ho mai detto che odio mangiare!», dichiarava divertito. Aveva cinquantanove anni e una folta chioma argentata. Giunsero in prossimità della loro casa, una villetta situata nella zona nord di Rimini. Premette il pulsante del telecomando per aprire il cancello, parcheggiò la macchina nel vialetto e scesero.

    «Non la porti in garage?».

    «Sono stanco, Sonia, voglio solo sprofondare a letto».

    Una brezza fresca di fine estate sfiorò i loro volti. Uno spicchio di luna li scrutava dall’alto. Il carro dell’Orsa Maggiore era proprio sopra le loro teste. Poi un cigolio attirò la loro attenzione, e videro il portone aprirsi sospinto dal vento, per poi fermarsi a metà. I due coniugi, spaventati, si scambiarono un’occhiata. Carlo con passo leggero si avvicinò prudente alla porta. La spinse quanto bastava per spalancarla del tutto. Aveva il sentore che ci fosse qualcosa di strano. Accese la luce e inorridì. Le stanze sembravano essere state invase da un tornado, tutto era sottosopra. Avevano subìto un furto e ringraziò Dio che quella sera non fossero rimasti a casa. Quando Sonia ebbe il coraggio di entrare, scoppiò a piangere nel vedere l’assoluto caos.

    «Hanno messo mano dappertutto!», quelle parole le si strozzarono in gola.

    Carlo in silenzio camminava per le stanze attento a scansare i cocci di porcellana, i vetri e alcune stoviglie ancora intatte sparpagliate per terra.

    «Strano, sembra che non abbiano portato via nulla!».

    «La cassaforte, Carlo?».

    Si precipitarono nello studio. Carlo si fermò davanti alla Notte stellata di Van Gogh e tirò a sé la cornice della stampa: la cassaforte era lì, chiusa, come se nessuno l’avesse notata.

    Digitò la combinazione e uno scatto sancì la sua apertura. Tutti i gioielli della moglie e alcuni documenti erano al loro posto.

    «Ma… non capisco!», vibrò la voce tremante di Sonia alle sue spalle.

    Poi Carlo si guardò intorno. La stanza era, in effetti, a posto, rispetto al resto della casa. Solo il suo tavolo di lavoro era in disordine: la poltrona giaceva a terra e una miriade di fogli erano sparpagliati sul pavimento. Tutti i cassetti erano aperti, tutti, anche quello chiuso a chiave. Carlo ebbe uno scatto nevrotico verso lo scrittoio. Scrutò al suo interno, s’incupì nel vederlo vuoto. Imprecò e deglutì nervosamente. Le paure celate negli ultimi sei mesi erano diventate realtà.

    5

    Roberto parcheggiò la macchina non troppo distante dal padiglione venticinque. Un caldo sole di fine estate abbracciava l’ala destra del policlinico. Dopo sei mesi

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