Clelia, il governo dei preti: Romanzo storico politico
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Clelia, il governo dei preti - Giuseppe Garibaldi
Informazioni
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Clelia, il governo dei preti: romanzo storico politico
AUTORE: Garibaldi, Giuseppe
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE: Realizzato in collaborazione con il Project Gutenberg tramite Distributed Proofreaders.
CODICE ISBN E-BOOK: 9788828102175
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/
COPERTINA: Triste_presentimento, noto anche col titolo La fidanzata del garibaldino
di Gerolamo Induno. - Pinacoteca di Brera, Milano. - https://it.wikipedia.org/wiki/Triste_presentimento. - Pubblico Dominio.
TRATTO DA: Clelia, il governo dei preti: romanzo storico politico. - Torino : MEB, 1982. - 312 p. : Ill. ; 22 cm
CODICE ISBN FONTE: n. d.
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 12 marzo 2003
2a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 23 giugno 2020
INDICE DI AFFIDABILITÀ: 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità standard
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
SOGGETTO:
FIC014000 FICTION / Storico
DIGITALIZZAZIONE:
Distributed Proofreaders, https://www.pgdp.net/
REVISIONE:
Claudio Paganelli, [email protected]
Ugo Santamaria
IMPAGINAZIONE:
Federico Ranieri (ODT, ePub)
Carlo F. Traverso (revisione ePub)
PUBBLICAZIONE:
Claudio Paganelli, [email protected]
Stefania Ronci, [email protected]
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Indice
Copertina
Colophon
Liber Liber
CLELIA, IL GOVERNO DEI PRETI: ROMANZO STORICO POLITICO
PREFAZIONE DELL’EDITORE
PREFAZIONE
CAPITOLO I - CLELIA
CAPITOLO II - ATTILIO
CAPITOLO III - LA CONGIURA
CAPITOLO IV - I TRECENTO
CAPITOLO V - L’INFANTICIDIO
CAPITOLO VI - L’ARRESTO
CAPITOLO VII - IL LEGATO
CAPITOLO VIII - IL MENDICO
CAPITOLO IX - LA LIBERAZIONE
CAPITOLO X - L’ORFANA
CAPITOLO XI - IL RICOVERO
CAPITOLO XII - LA SUPPLICA
CAPITOLO XIII - L’ESILIO
CAPITOLO XIV - SICCIO
CAPITOLO XV - IL PALAZZO CORSINI
CAPITOLO XVI - LA TRIADE
CAPITOLO XVII - LA GIUSTIZIA
CAPITOLO XVIII - L’ESILIO
CAPITOLO XIX - LE TERME DI CARACALLA
CAPITOLO XX - ALLE TERME
CAPITOLO XXI - IL TRADITORE
CAPITOLO XXII - LA TORTURA
CAPITOLO XXIII - I BRIGANTI
CAPITOLO XXIV - IL LIBERATORE
CAPITOLO XXV - LO YACHT
CAPITOLO XXVI - LA TEMPESTA
CAPITOLO XXVII - IL DESERTO
CAPITOLO XXVIII - LA RITIRATA
CAPITOLO XXIX - LA FORESTA
CAPITOLO XXX - IL CASTELLO
CAPITOLO XXXI - LA BELLA IRENE
CAPITOLO XXXII - GASPARO
CAPITOLO XXXIII - LA SCOPERTA
CAPITOLO XXXIV - L’ASSALTO
CAPITOLO XXXV - UN ACQUISTO PREZIOSO
CAPITOLO XXXVI - IL MIGLIORAMENTO UMANO
CAPITOLO XXXVII - I SOTTERRANEI
CAPITOLO XXXVIII - L’ANTIQUARIO
CAPITOLO XXXIX - L’ESERCITO ROMANO
CAPITOLO XL - IL MATRIMONIO
CAPITOLO XLI - IL BATTESIMO
CAPITOLO XLII - LA SOLITARIA
CAPITOLO XLIII - IL SOLITARIO
CAPITOLO XLIV - IL 30 APRILE
CAPITOLO XLV - LA PUGNA
CAPITOLO XLVI - LA QUERCIA ANTICA
CAPITOLO XLVII - L’ONORE DELLA BANDIERA
CAPITOLO XLVIII - LA CENA CAMPESTRE
CAPITOLO XLIX - IL PARRICIDA
CAPITOLO L - IMBOSCATA
CAPITOLO LI - L’INSEGUIMENTO
PARTE SECONDA
CAPITOLO LII - LA PEREGRINAZIONE
CAPITOLO LIII - VENEZIA
CAPITOLO LIV - ROMA IN VENEZIA
CAPITOLO LV - IL GOVERNO RIPARATORE
CAPITOLO LVI - DECRETO DI MORTE
CAPITOLO LVII - MORTE AI PRETI
CAPITOLO LVIII - IL PRINCIPE T...
CAPITOLO LIX - IL DUELLO
CAPITOLO LX - ROMA
CAPITOLO LXI - VENEZIA ED IL BUCCINTORO
CAPITOLO LXII - LA SEPOLTURA
CAPITOLO LXIII - IL RACCONTO
CAPITOLO LXIV - SEGUITO DEL RACCONTO DI MARZIO
CAPITOLO LXV - SEGUITO DEL RACCONTO DI MARZIO
CAPITOLO LXVI - SEGUITO DEL RACCONTO DI MARZIO
CAPITOLO LXVII - SEGUITO DEL RACCONTO DI MARZIO
CAPITOLO LXVIII - PREDICAZIONE DEL SOLITARIO
CAPITOLO LXIX - CAIROLI COI SETTANTA COMPAGNI
CAPITOLO LXX - CUCCHI E COMPAGNI
CAPITOLO LXXI - LE TRE EROINE
CAPITOLO LXXII - I MONTIGIANI
CAPITOLO LXXIII - CORRUZIONE DELLE GENTI
CAPITOLO LXXIV - IL ROVESCIO
CAPITOLO LXXV - ULTIMA CATASTROFE
CAPITOLO LXXVI - IL SOTTERRANEO
APPENDICE - GLI ULTIMI EPISODI DEI VOLONTARI
FATTI ISTORICI
ACQUAPENDENTE - MONTE LIBRETTI - VEROLA MONTEROTONDO - MENTANA
RIEPILOGO
IL PANDEMONIO
I DUE TRADIMENTI
NOTE
Giuseppe Garibaldi
CLELIA, IL GOVERNO DEI PRETI:
ROMANZO STORICO POLITICO
PREFAZIONE DELL’EDITORE
Il titolo del presente lavoro, secondo le prime idee del Generale Garibaldi, doveva essere Clelia
ovvero il governo dei preti, ma sul manoscritto non ve n'era tracciato alcuno.
L'originale italiano passò in Inghilterra, dove noi lo abbiamo acquistato; e colà il titolo principale sotto cui si stava pubblicando la traduzione, era Il governo del monaco
(The rule of the Monck) e noi l'abbiamo seguito.
Quando non eravamo più in tempo per rimediare, ci accorgemmo che Il governo dei preti
era titolo più acconcio e meglio in armonia colle idee del Generale. Ne scrivemmo a lui stesso ed egli si contentò di risponderci: «A Londra qualche prete senza dubbio ha creduto meglio intitolarlo Il governo del monaco
» e siccome comprendeva che non c'era più riparo essendo il libro in corso di stampa, non aggiunse altro.
Noi, per riparare quant'è possibile all'equivoco, abbiamo premesso il primo dei due titoli originari Clelia
al titolo della traduzione inglese; e di più facciamo ammenda dell'errore come fosse nostro, confessandolo.
GLI EDITORI
Fratelli Rechiedei
Milano 1870
PREFAZIONE
1. Ricordare all’Italia tutti quei valorosi che lasciaron la vita sui campi di battaglia per essa. Perché se molti sono conosciuti, e forse i più cospicui, molti tuttavia sono ignorati. A ciò mi accinsi come dovere sacro.
2. Trattenermi colla gioventù Italiana sui fatti da lei compiuti e sul debito sacrosanto di compire il resto accennando colla coscienza del vero le turpitudini ed i tradimenti dei governi e dei preti.
3. Infine campare un po’ anche col mio guadagno.
Ecco i motivi che mi spinsero a farla da letterato, in una lacuna lasciatami dalle circostanze, in cui ho creduto meglio: far niente, che far male.
Ne’ miei scritti, quasi esclusivamente parlerò dei morti. Dei vivi meno che mi sia possibile, attenendomi al vecchio adagionota_1: gli uomini si giudicano bene dopo morti.
Stanco della realtà della vita, io stesso ho creduto bene di adottare il genere, romanzo storico.
Di ciò che appartiene alla storia, credo essere stato interprete fedele, almeno quanto sia possibile d’esserlo poiché particolarmente negli avvenimenti di guerra, si sa, quanto sia difficile il poterli narrare con esattezza.
Circa alla parte romantica, se non fosse adorna della storica, in cui mi credo competente, e dal merito di svelare i vizi e le nefandezze del pretismo, io non avrei tediato il pubblico, nel secolo in cui scrivono romanzi i Manzoni, i Guerrazzi ed i Victor Hugo.
GIUSEPPE GARIBALDI
CAPITOLO I
CLELIA
Come era bella la perla del Trastevere!
Le treccie brune, foltissime; e gli occhi! il loro lampo colpiva come folgore chi ardiva affissarla. A sedici anni il suo portamento era maestoso come quello di una matrona antica. Oh! Raffaello in Clelia avrebbe trovato tutte le grazie dell’ideale sua fanciulla colla virile robustezza dell’omonima eroinanota_2 che si precipita nel Tevere per fuggire dal Campo di Porsenna.
Oh sì! era pur bella Clelia! E chi poteva contemplarla senza sentirsi ardere nell’anima la viva fiamma che usciva dalle sue luci?
Ma le Eminenze? Codeste serpi della città santa, i cui cagnotti con ogni più vile arte di corruzione cercavan pascolo alle libidini dei padroni, non sapevan forse che tale tesoro viveva nel recinto di Roma? Lo sapevano. E una fra l’altre agognava da qualche tempo a far sua quella bellezza che discendeva dai Vecchi Quiritinota_3.
«Va Gianni, (diceva un giorno il cardinale Procopio, factotum e favorito di Sua Santità) vanne e m’acquista quella gemma a qualunque costo. Io non posso più vivere se la Clelia non è mia. Essa sola può alleviare le mie noie e bearmi la stupida esistenza che trascino al fianco di quel vecchio imbecille»nota_4.
E Gianni, strisciando sino a terra il suo muso di volpe, colla laconica risposta di «sì Eminenza» moveva senz’altro all’infame missione.
Ma su Clelia vegliava Attilio, suo compagno d’infanzia, ventenne, robusto artista, il coraggioso rappresentante della gioventù romana, non della gioventù effeminata data alle dissipazioni, piegata al servaggio, ma di quella da cui usciva un giorno il nerbo di quelle legioni, davanti alle quali la falange macedone indietreggiava.
Attilio, chiamato da’ compagni di studio l’Antinoo Romanonota_5, per la bellezza delle sue forme, amava la Clelia di quell’amore per cui i rischi della vita sono giuochi, il pericolo della morte, una ventura.
Nella via che dalla Lungara ascende al monte Gianicolo, non lungi dalla fontana di Montorio, era posta la dimora di Clelia. La sua famiglia era di artisti in marmo, professione la quale permette in Roma una certa vita indipendente, se pure indipendenza può esistere, ove padroneggiano preti.
Il padre di Clelia, già prossimo alla cinquantina, era uomo di costituzione robusta, serbata nel suo vigore da una vita laboriosa e sobria. La madre era pure di sana complessione, ma delicata. Essa aveva un cuore d’angiolo e faceva le delizie della sua famiglia non solo, ma era adorata da tutti i vicini.
Si diceva che Clelia accoppiava alle sembianze angeliche della mamma la robusta e maestosa dignità del padre. Si sapeva che in quella santa famiglia tutti si adoravano.
Ora intorno a questa beatitudine si aggirava il vile mandatario del prelato nella sera dell’8 febbraio 1866.
Gianni si era già presentato sulla soglia dell’onesto discepolo di Fidianota_6 che non se n’era accorto, perché si trovava con le spalle voltate; ma vedendo ch’egli avea certe braccia abbronzate e nerborute si sentì preso da un brivido tale che involontariamente indietreggiò sino all’altro lembo della via. Pareva già all’emissario di sentirsi piovere addosso una sfuriata di pugni o di bastonate.
Se non che l’artista si rivolse verso la porta e dimostrando, sulla sua fisionomia virile, cert’aria di benevolenza, il malandrino si sentì rinfrancare e fattosi ardito si presentò nuovamente sulla soglia dello studio.
«Buona sera, sor Manlio», principiò con voce di falsetto il mal capitato messo. «Buona sera» rispose l’artista; ed esaminando uno scalpello che aveva tra le mani poco badava alla presenza di un individuo ch’ei conosceva appartenere a quella numerosa schiera di servi prostituti, che il prete ha sostituito in Roma alla maschia schiatta dei Quiriti.
«Buona sera», ripeteva Gianni con voce sommessa e timida e vedendo che finalmente l’altro alzava gli occhi verso lui: «Sua Eminenza il cardinale Procopio, – proseguì, – m’incarica di dire a V. S. che egli desidera avere due statuette di santi per adornare l’entrata del suo oratorio».
«E di qual grandezza vuole S.E. le statuette?» rispose Manlio.
«Io credo sia meglio che V.S. venga in palazzo per intendersi con l’E.S.».
Un torcer di bocca del bravo artista fu chiaro indizio che la proposta gli andava poco a sangue, ma come si può vivere in Roma senza dipendere dai preti?
Tra le malizie gesuitiche dei tonsurati vi è pur quella di fingersi protettori delle belle arti e così hanno fatto che i maggiori ingegni d’Italia prendessero a soggetto dei loro capolavori le favole pretesche, consacrandole per tal guisa al rispetto ed all’ammirazione delle moltitudini.
Torcer la bocca non è una negativa, e veramente bisognava vivere e mantenere decentemente due creature, la moglie e la figlia, per le quali Manlio avrebbe dato la vita cento volte. «Andrò» rispose seccamente dopo qualche momento di riflessione. E Gianni con un profondo saluto si accomiatò.
Il primo passo è fatto, mormorò tra sé il mercurio dell’eminentissimo; «ora è d’uopo cercare un posto di osservazione e di rifugio per Cencio». Il quale Cencio, affinchè il lettore lo sappia, era il subordinato di Gianni, a cui il cardinale Procopio affidava la seconda parte in così fatte imprese.
Gianni si affaccendava ora a trovare per Cencio una stanza qualsiasi d’affitto in vista dello studio di Manlio. Il che gli venne fatto facilmente. In quella parte della capitale del mondo l’affluenza delle genti non è mai strabocchevole, poiché i preti, che curano tanto per sé il bene materiale, non pensano, rispetto agli altri, che al bene spirituale. Ora il secolo è un po’ positivo, bada al tanto per cento più che alla gloria del paradiso, ed è per questo che Roma, per mancanza d’industria e commerci rimane squallida e scarsa d’abitatorinota_7
Gianni adunque dopo di avere preso a fitto una stanza, come dicemmo, se ne tornava a casa cantarellando e colla coscienza tutt’altro che aggravata, sicuro com’era dell’assoluzione che i preti non negano mai alle ribalderie commesse in servizio loro.
CAPITOLO II
ATTILIO
Di faccia allo studio di Manlio ve n’era un altro, quello dove lavorava Attilio. Dalle sue finestre questi aveva potuto vedere la Clelia; appunto così s’era acceso per lei di altissimo affetto.
Clelia vinceva di beltà le più leggiadre donzelle di Roma, e forse era altera e non vaga di amori, ma quando occhio di donna s’era fiso per una volta sola nell’occhio del nostro Attilio ed aveva osservato la sua bella persona, per duro e cinto di triplice acciaio che fosse il cuore di lei, doveva commuoversi di ammirazione e di simpatia.
Un lampo dell’occhio scambiatosi da que’ due era bastato a fissare il loro destino per tutta la vita.
Ora Attilio, avendo il suo santuario davanti allo studio ov’egli passava quasi intera la giornata, molte volte fissava lo sguardo ad una finestra del primo piano ove Clelia lavorava colla madre, e donde la luce elettrica dell’occhio suo incontravasi quasi di concerto con quella del suo prediletto.
Attilio quella sera aveva osservato il barcheggiare dello scherano, lo aveva riconosciuto per manutengolo di qualche pezzo grosso, e l’occhio suo penetrante, dallo indietreggiare, dalla titubanza e dall’irresoluto contegno di lui, istintivamente aveva auguratonota_8 male per la sorte della bella fanciulla. Imperocché i pochi eletti della popolazione romana sanno ciò che si possa aspettare dai settantaduenota_9 tanto più corrotti e lascivi quanto più son ricchi e potenti non mirano alla bellezza ed all’innocenza che per profanarle.
Non aveva Gianni fatto ancora cento passi all’ingiù verso la Lungara che il nostro amico già si trovava sulle sue peste seguendolo con aria sbadata come chi nulla avendo da fare si ferma a contemplare tutte le curosità che scopre sul davanti delle botteghe e sui frontespizi dei templi e dei monumenti, di cui ad ogni passo è ornata la meravigliosa metropoli del mondo.
E lo seguiva Attilio col presentimento di seguire un ribaldo, uno stromento d’infamia la cui meta fosse quella di rovinare la sua donna. Lo seguiva, Attilio, tastando il manico di un pugnale che teneva nascosto in seno.
Vedi presentimento! L’aspetto di uno sconosciuto veduto per la prima volta e per un solo istante, di uno sconosciuto volgare, aveva svegliato in quell’anima di fuoco una sete di sangue, in cui si sarebbe bagnato con voluttà da cannibale.
E ritastava il pugnale: arma proibita, arma italiana che lo straniero condanna, come se la baionetta o la scimitarra bagnate da lui tante volte nel sangue innocente, siano armi più nobili d’un pugnale immerso nel petto d’un assassino o confitto in quello d’un tiranno.
Gianni fu veduto da Attilio entrare nella casa ov’egli contrattava la stanza per Cencio, e quindi fu visto avviarsi e penetrare nel vestibolo del superbo palazzo Corsini, ove abitava il suo padrone.
«È dunque Don Procopio l’uomo» disse tra se il nostro eroe, Don Procopio il favorito ed il più dissoluto della caterva dei masnadieri principi di Roma; e andò innanzi immerso nelle sue riflessioni.
CAPITOLO III
LA CONGIURA
Privilegio dello schiavo è la congiura e pochi sono gli italiani di tutte le epoche del servaggio del loro paese i quali non abbiano congiurato. E poiché il dispotismo dei preti è il più esoso di tutti, il più degradante ed infame, si può tenere per certo che il cospirar dei Romani dati dal dominio di questi impostori.
La notte dell’8 febbraio era in Roma notte di congiura. Convegno il Colosseo; perciò Attilio dopo aver pedinato quel messo di delitti che si chiamava il Gianni, anzi che avviarsi alla sua casa prese la via di Campo Vaccinonota_10.
Era oscura la notte e nuvoloni neri neri si addensavano sulla città santa spinti da violento scirocco: il mendico di Roma avvolto nel suo mantello cencioso cerca ripararsi in qualche aristocratico portone, o sotto il peristilio di qualche chiesa; il prete servito dall’inseparabile Perpetua sta invece rifocillandosi a lauta mensa e si prepara a delizioso riposo, di vivande ripieno e di vini prelibati.
Là nel fondo dell’antico Foro sorge il maestoso gigante delle ruine, tetro, imponente, segnando a questa generazione di schiavi cento passate generazioni e ricordando ai Romani che la loro Roma, sconquassata dal tempo e dalla vendetta delle già oppresse nazioni crollò, non cadde.
Lo straniero suole visitare il Colosseo a lume di luna. Ma bisogna vederlo in una oscura notte di tempesta, illuminato dal lampo, scosso dalla folgore e pieno di cupi e strani rimbombi.
Tale era la notte dell’8 febbraio, quando i congiurati ad uno ad uno per diverse vie si avvicinavano all’anfiteatro dei gladiatori e delle fiere, avvolti in ampi mantelli che nella luce incerta parevano toghe. È privilegio oggi de’ mendichi soltanto quello di andare per le vie di Roma coperti dal tradizionale mantello in guisa da parere togati; e forse non pochi mendichi v’erano tra que’ generosi, perché sulla terra dei Bruti spesso si nasconde sotto cenci l’animo virile di un gladiatore pronto a gittare la sua vita nell’arena, ove si contende la liberazione de’ popoli.
Tra le mille loggie ove soleva adunarsi il popolo-re, ve ne eran varie più spaziose delle altre, forse in antico destinate agli imperanti, alla corte, ai grandi. Il tempo le avea ridotte ad una sola. Non seggioloni, non arazzi adornavano il recinto. (E che importavano gli adornamenti a coloro che s’eran sacrati alla morte?). Le macerie eran per loro pareti, tribune, sedili.
Al fioco lume di una lanterna sorda di cui eran muniti i congiurati si vedevano ascendere per diverse vie quei coraggiosi propugnatori della libertà romana e giunti nel loggione (tale era il nome dato da loro al recinto) ognuno vi prendeva posto senz’altra cerimonia che una stretta di mano tra i vicini, poiché tutti eran conoscenti ed amici.
Quando quasi tutti furono al loro posto una voce sonora si udì nel recinto che gridò: «Le sentinelle sono a posto?» Un’altra voce dall’altro estremo rispose: «A posto». Allora il lume di una torcia accanto alla prima voce illuminò centinaia di fisonomie simpatiche di giovani quasi tutti al disotto dei trenta, ed altre torcie si accesero qua e là per vincere l’oscurità della notte.
I preti non mancan di spie e spie famose sono i preti stessi, onde ad alcuno sembrerà strano che una massa di congiurati potesse riunirsi impunemente in Roma. Ma bisogna riflettere che nella santa città vi sono deserti e che il Campo Vaccino, principale di quei deserti, racchiude tante rovine quante forse non sono tutte insieme le rovine del mondo. Poi, in una città come quella, un mercenario, che ama la pelle sopra ogni cosa del mondo e fa servigi più in apparenza che in fatti, non corre ad avventurare la codarda sua vita in quelle macerie, assai men secure delle vie di Roma ove un uomo onesto è già sì poco sicuro.
In una città superstiziosa come è la Metropoli cattolica, non mancano leggende di apparizioni tra le rovine, né manca chi ci crede. Anzi si conta: che in una notte tempestosa come questa, due sgherri più avventati degli altri, avvicinandosi nelle loro ricerche al Colosseo scorsero una certa luce e contenti di tale scoperta, si fecero innanzi per riconoscerla; ma che procedendo verso quella parve loro vedere fantasmi così spaventevoli, che sopraffatti dal terrore se la diedero a gambe, perdendovi uno il cappello e l’altro la sciabola che aveva tentato di sguainare, ma che tremante lasciò cadere e non ebbe il coraggio di fermarsi per raccoglierla, e via.
I fantasmi altro non erano che i nostri giovani, i quali nel ritirarsi inciamparono nel cappello e nella sciabola e siccome le loro sentinelle avevano osservato l’approssimarsi delle spie e la loro fuga, ne venne che la scoperta degli insperati trofei produsse tra loro un’immensa ilarità.
CAPITOLO IV
I TRECENTO
La prima voce che s’udì nel loggione era voce d’uno da noi conosciuto: la voce di Attilio.
Attilio, l’intemerato, a vent’anni era stato con voti unanimi eletto da quei generosi a capitano. Tanto è il prestigio del valore e della virtù e, diciamolo pure, anche dell’avvenenza e robustezza del corpo! E Attilio meritava la fiducia dei suoi compagni. Alla bellezza dell’Antinoo egli aggiungeva il profilo e il cuore del leone.
Dopo aver girato lo sguardo sull’adunanza ed essersi assicurato che tutti erano muniti di un nastro nero al braccio sinistro (segno di lutto per gli schiavi, da non deporsi sino alla liberazione di Roma, e segno di ricognizione dei trecento) Attilio così cominciò:
«Fratelli! Sono ormai due mesi che le soldatesche straniere, unico puntello del papato, devono sgombrare e non lo fanno. Essi lordano ancora le nostre contrade e sotto pretesti futili rioccupano le posizioni che già aveano abbandonate quando dovevano uniformarsi alla Convenzione del settembre 1864. Or tocca a noi. Pazientammo diciotto anni, subimmo il doppio giogo, egualmente esacrato, dello straniero e del prete. Ed in questi ultimi anni, pronti a menar le mani, fummo trattenuti da quella setta ermafrodita che si chiama de’ moderati, e altra moderazione non ha e non usa che quella d’impedire il fare e il far bene: setta infame e divoratrice siccome il prete, pronta sempre a patteggiare collo straniero, a far mercato dell’onor nazionale pur d’impinguare sull’erario dello Stato che trascina a sicura rovina.
Di fuori i nostri amici son pronti e noi accusano di neghittosi. L’esercito, meno la parte legata alla pagnotta, è tutto con noi. Le armi che aspettavamo, per distribuire al popolo, sono giunte e stanno in luogo sicuro. Di munizioni ne abbiamo più del bisogno.
A che dunque tardare più oltre? Oual nuova occasione dobbiamo aspettare? Il nostro grido sia: All’armi
...».
E «All’armi! all’armi!» fu la risposta dei trecento congiurati.
La stanza romita dove forse gli antichi eroi venivano ancora nella notte a meditare sul servaggio delle nazioni, rimbombò al grido dei trecento giovani, che giuravano di voler libera Roma, e l’eco diffuse tra le secolari macerie dello sterminato Colosseo il maschio grido di quella coorte.
Trecento! Trecento come i compagni di Leonida, come gli eroi dell’antica famiglia dei Fabii, erano i giovani nostri amici; i quali non avrebbero ceduto il loro posto, sia di liberatori, sia di martiri per un impero.
«Che Dio vi benedica, anime predilette! – riprese Attilio. – Non ebbi mai dubbio dell’unanime eroica vostra risolutezza per l’opera santa! Noi felici, cui la sorte affidò la redenzione dell’antica padrona