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I corvi di Londra
I corvi di Londra
I corvi di Londra
E-book226 pagine3 ore

I corvi di Londra

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Info su questo ebook

José e Maria sono in fuga.
Braccati dagli Erjes, in cerca di vendetta, e guardati a vista dalle Sentinelle, che ancora non si fidano di loro. Di lei. Un’umana refrattaria al virus o forse un piano segreto dei demoni per annientare la razza umana?
Nell’attesa di capire cos’è davvero Maria, chi è, il Concilio dei Dodici li invia a Londra, dove una brillante scienziata effettua esperimenti su di lei. Una cavia, così si sente la ragazza, un ibrido incapace di comprendere il proprio ruolo nel mondo, incapace di prendere posizione nella guerra tra demoni e protettori dell’umanità.
Basterà l’amore di Josè a salvarla? O il fascino di Galen la porterà verso un destino diverso?
La guerra per l’evoluzione giunge a un punto di svolta.

Da quando era stata contagiata, il suo mondo era stato rivoluzionato. Aveva scoperto l’esistenza di demoni che di notte si aggirano per le strade, aggredendo esseri umani per ridurli a marionette nelle loro mani, e di coraggiosi Soldati che li combattono per difendere gli uomini.
Poi c’era lei. Non del tutto umana, perché infettata dagli Erjes, ma non ancora assuefatta al virus.
Quanto avrebbe resistito? Quanto sarebbe riuscita a trattenere la bestia?
LinguaItaliano
Data di uscita26 giu 2020
ISBN9788831910286
I corvi di Londra

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    Anteprima del libro

    I corvi di Londra - Elena Covani

    casuale.

    PROLOGO

    Londra, 4 maggio

    Aprì gli occhi e si guardò intorno. Sbatté le palpebre più volte, mentre le immagini si mettevano a fuoco nella penombra. La stanza era piccola, pochi metri quadrati, le pareti coperte da macchie di umido, simili a ragnatele che salivano verso l’alto. Davanti a lei una porta e, più in alto sulla destra, una finestrella con sbarre di ferro, da cui filtrava la luce di un lampione. Era buio e c’era odore di nafta, dall’esterno provenivano i rumori della sera, lo sciabordio dell’acqua, le sirene delle navi da carico, il verso dei gabbiani. Un uomo stava urlando qualcosa in una lingua straniera.

    Era sdraiata sulla schiena, su una branda con un vecchio materasso e un cuscino, le uniche cose presenti nella stanza oltre a lei. Inspirò a fondo per portare aria ai polmoni, ma il puzzo di muffa e petrolio le fece venire la nausea.

    Sentiva il cuore battere forte, nelle orecchie, attraverso le vene e lungo tutti i muscoli del corpo. Aveva un cerchio alla testa come quando, a Capodanno, aveva bevuto troppa sangria; si girò di lato e, con movimenti lenti e controllati, si mise seduta sul bordo del letto: la vecchia branda scricchiolò e rimbombò nel silenzio.

    Si guardò una mano e non riuscì a trattenere un sussulto, era come vederla per la prima volta: le unghie erano mangiate e sporche, aveva dei graffi sui palmi, come se fosse caduta, ma non riusciva a ricordare in che modo. Riusciva a vedere i pori della pelle, la peluria bionda e sottile sulle falangi, il pulsare delle vene sotto pelle. Era più nitida, più definita.

    Si girò di scatto verso la finestra: una campana stava suonando in lontananza. Ma quanto, in lontananza? pensò. Scosse la testa e tornò a concentrarsi sui suoi sensi.

    Sembravano acuiti, poteva quasi sentire i pesci nuotare nel canale vicino, i colori non erano scuri, bensì vividi. Rabbrividì al fresco della notte e si strinse nelle spalle. Con un sospiro si mise le mani sulle tempie per cercare di ricordare dove si trovasse e, soprattutto, come fosse arrivata lì, ma era tutto confuso e sfocato… L’unica certezza era di non essere in pericolo, si sentiva inspiegabilmente al sicuro in quel posto.

    Nella sua mente c’erano immagini spezzate, sensazioni che riaffioravano come sogni al primo mattino. C’era del fuoco, ma non era pericoloso, era bello… Un ragazzo dai capelli biondi, un laboratorio pieno di luce. Un lago, un parco con prati verdi. E poi due occhi azzurri, profondi e sorridenti…

    In quel momento arrivò un dolore che la lasciò senza fiato, una lama le trafisse il cranio e lei si strinse la testa tra la mani: ebbe paura che stesse per esplodere. Poi, così come era arrivato, svanì.

    Rimase ancora qualche minuto seduta sul bordo della branda, ansimando, gli occhi serrati e le mani strette sulla testa. Alla fine riuscì a riprendere il controllo e si lasciò cadere.

    Era esausta, completamente priva di forze, nonostante si fosse svegliata da poco. Ma per quanto aveva dormito? Poi successe tutto in un attimo: ogni cosa iniziò a girare vorticosamente, il suo stomaco brontolava, chissà da quanto tempo non metteva qualcosa sotto i denti, ma l’idea del cibo non fece altro che aumentare la nausea e si mise rannicchiata per cercare di resistere ai crampi.

    Perché stava così male? Mentre si stringeva su se stessa, qualcosa di caldo e salato le bagnò le labbra e si rese conto che le lacrime avevano cominciato a rigarle le guance, senza volerlo, senza che se ne fosse nemmeno accorta. Era come se il suo corpo non le rispondesse più. Provava a inspirare, ma i suoi polmoni non si espandevano se non per brevi spasmi.

    Toccati le punte dei piedi! Pensò. Le sue mani però non risposero, rimasero attaccate al torace come fossero catene. Provò a urlare, ma non le uscì alcun suono. Aveva la gola in fiamme, la salivazione azzerata. Maria chiuse gli occhi, il che peggiorò la nausea. Con uno sforzo immane si sporse con la faccia fuori dal letto e vomitò bile amara e acida. Le mancava l’aria e a ogni respiro che faceva era come se inspirasse del fuoco.

    Sarebbe morta così, da sola, senza sapere perché? Non le importava fino in fondo, voleva solo smettere di stare male, smettere di soffrire in quel modo assurdo. Dopo un tempo che le sembrò interminabile, i suoi respiri si fecero più profondi, l’aria fece passare piano il senso di nausea, così come la vertigine. Infine le sembrò di aver ripreso il controllo di sé.

    Devo uscire di qui, devo capire dove sono! Appena formulò il pensiero, fu come se migliaia di aghi le trafiggessero la schiena, e Maria s’inarcò dal dolore. Il suo grido esplose nel silenzio, ma non ci fu nessuno che venne ad aiutarla.

    Cominciò a singhiozzare e a scalciare, in preda alle convulsioni, e con le unghie strappò la fodera del materasso. Il dolore era insopportabile e lei non era abbastanza forte, eppure l’idea di morire così, senza neanche ricordare qualcuno che le volesse bene, a cui sarebbe mancata…

    Alla fine si arrese, si lasciò andare al dolore e fu avvolta dal buio.

    1

    Murcia, 1 gennaio

    L’odore di disinfettante impregnava l’aria, ma ormai Maria ci aveva fatto l’abitudine e non lo sentiva quasi più. Quella volta, però, era stata svegliata da un odore diverso, mai sentito prima. Acre, nauseabondo.

    Con una smorfia, aprì gli occhi e vide il bianco familiare delle lenzuola dell’ospedale. Si era di nuovo addormentata sulla sedia, con la testa appoggiata sul letto di sua madre. Si raddrizzò allungando le braccia, stiracchiò la schiena e sbadigliò. La luce che entrava dalla finestra era fioca, non era ancora l’alba.

    D’istinto guardò l’orologio sulla parete, segnava le sette e venti. Si stropicciò gli occhi, aveva bisogno di un caffè; allungò la mano verso la borsa per cercare degli spiccioli per la macchinetta: non era un granché, ma era senz’altro meglio di quello della mensa. Come tutte le mattine, si chinò sul volto di sua madre e le diede un rapido bacio sulla guancia, ma si ritrasse di scatto.

    Era fredda, freddissima.

    Il cuore di Maria iniziò a battere all’impazzata: i medici l’avevano avvisata che non mancava molto, ma non poteva essere successo così, senza che lei se ne fosse neanche accorta! Si passò le mani sul viso, poi tra i capelli. Sua madre, l’unica persona che aveva al mondo. Sentì il pavimento che si disintegrava sotto i suoi piedi, mentre veniva avvolta da una sensazione di vuoto, come se i suoi sensi si fossero spenti tutti insieme.

    Erano mesi che Amparo stava male: carcinoma mammario all’ultimo stadio. Da quando, dopo un controllo di routine, le avevano fatto la diagnosi, era stato un susseguirsi di ospedali, visite e chemioterapie, ma non erano servite a nulla, solo a renderla l’ombra della donna forte che era sempre stata. Giorno dopo giorno, Maria l’aveva vista spegnersi, ma era rimasta sempre al suo fianco.

    Amparo non aveva mai smesso di lottare, ogni giorno la aspettava nel letto e, quando la vedeva entrare nella stanza, esplodeva in un sorriso raggiante, come se con lei fosse entrato il sole. La sera prima avevano aspettato la mezzanotte sveglie, Maria l’aveva baciata augurandole buon anno. Lei aveva risposto con il suo solito sorriso, poi si era addormentata.

    Era così che finiva una vita? In silenzio, senza disturbare nessuno, se ne era andata così. Maria rimase ferma, immobile di fronte al letto. Fissava il corpo di sua madre in cerca qualche segno, un movimento del petto, un battito di ciglia, ma non ci fu nulla. Sembrava dormire, serena. Un singhiozzo fu tutto ciò che si concesse. Si avvicinò e le carezzò il viso, la sua mano tremava; si soffermò un attimo sull’angolo della bocca, aspettando che esplodesse nel suo meraviglioso sorriso.

    Adiós, mama. Te quiero, por siempre.

    Poi chiamò l’infermiera.

    Il funerale si svolse il giorno dopo, in una cappella del cimitero cittadino. Maria volle una cerimonia semplice e sbrigativa, sua madre non era mai stata un tipo da grandi manifestazioni. Vennero in tanti: gli abitanti del quartiere, il suo datore di lavoro e le colleghe, le amiche con le quali il mercoledì sera andava a ballare la Sevillana. Erano sempre state solo loro due a casa, ma Amparo era una donna buona, amata e ammirata da tutti.

    Il prete pronunciò le solite frasi di circostanza, che alle orecchie di Maria risuonarono vuote e prive di significato. La cappella era gremita e l’aria viziata; seduta nella prima fila accanto al feretro, Maria si sentì soffocare dall’odore dei fiori e dell’incenso, che il prete continuava a spargere nell’aria pronunciando orazioni in latino. Alla fine della funzione in tanti vennero per abbracciarla e per dirle quanto era stata speciale sua madre.

    Per qualsiasi cosa tu abbia bisogno, conta su di noi!, sentì pronunciare quelle parole decine di volte in un’ora, ma mai nei mesi passati. Per tutto il tempo combatté con la voglia di urlare, ma si limitò ad annuire e a ringraziare quella marea di visi indefiniti che le si mettevano davanti.

    Quando tutti se ne furono andati, si avvicinò alla bara e ci appoggiò una mano sopra. La superficie era liscia e fredda: non riusciva a credere che sua madre fosse lì dentro, che non l’avrebbe rivista mai più. Poi fece un passo indietro e le girò le spalle, uscendo dal cancello senza voltarsi indietro.

    Quando aprì la porta di casa, trovò odore di chiuso. Erano tre settimane che non tornava, se non per un cambio veloce. Dei fiori erano appassiti in un vaso, delle gerbere che un tempo erano state di un bel rosa acceso; sua madre le aveva comprate prima di essere ricoverata.

    «I fiori portano allegria» aveva detto, sistemandoli dentro al vaso di vetro verde. Maria li prese e li gettò nella spazzatura.

    Salì in camera sua, il letto era sfatto e c’erano dei vestiti buttati a caso sul gomitolo di coperte. Non ricordava l’ultima volta che ci aveva dormito, era come se nelle ultime settimane avesse vissuto in una dimensione parallela, anestetizzata da chissà quale sostanza. Scosse la testa, prese un borsone dall’armadio e iniziò a riempirlo: vestiti, beauty case, libri. Poi chiuse tutto e scese in salotto.

    C’era un’ultima cosa che le rimaneva da fare: scegliere dove sarebbe andata. Nei lunghi mesi della malattia, quando si era messa a pensare alla sua vita dopo, si era resa conto che non aveva niente che la legasse a Murcia, solo brutti ricordi.

    Si avvicinò alla libreria, dove sua madre teneva una vecchia scatola di latta, la chiamava la scatola dei viaggi. Prima che lei nascesse, aveva girato la Spagna e conservato tutte le mappe, opuscoli e guide turistiche dei posti che aveva visitato. Spesso la sera tirava fuori i suoi tesori per raccontarle degli Alcazares di Siviglia, dei comignoli della Casa Pedrera a Barcellona e di tutte le altre meraviglie che aveva visto nei suoi viaggi. Da quando era rimasta sola a prendersi cura di lei, non si era più potuta permettere di muoversi da Murcia, perché tutto quello che guadagnava veniva speso per non fare mancare nulla alla piccola Maria. Lei era il centro del suo mondo. Ma viaggiare le mancava molto, Maria lo sapeva.

    Vuotò la scatola sul tavolo e si mise ad analizzarne il contenuto: mappe di città, pubblicità di ristoranti, biglietti di musei e spettacoli teatrali, opuscoli di monumenti e locali. Maria dispose tutto con ordine sul tavolo, poi iniziò a scartare tutto quello che le ricordava troppo sua madre. Mentre buttava da parte il biglietto del museo Guggenheim di Bilbao, si ritrovò tra le mani una cartolina sbiadita: la didascalia recitava Plaza de l’Ajuntamento de Valencia.

    Vide un palazzo color crema, con due torri laterali e una centrale su cui spiccava un orologio e la statua di un pipistrello con le ali aperte. Una grande terrazza si affacciava su una piazza con una fontana, delle palme e delle persone intorno a un’enorme costruzione che rappresentava un drago con gli artigli protesi in avanti.

    Non mi ha mai parlato di Valencia.

    Maria mise la cartolina in tasca, prese il borsone e si chiuse la porta alle spalle, senza guardarsi indietro.

    2

    Valencia, 7 aprile

    La piazza della cattedrale brulicava di vita, i taxi arrivavano e ripartivano senza sosta mentre i turisti seduti ai bar si godevano il tramonto davanti a una bevuta e a qualche tapas. Nel vicolo che costeggiava la cattedrale si stavano esibendo degli artisti di strada: un mimo, una donna che disegnava caricature, un ragazzo che suonava The Sound of Silence con la chitarra. Il Miguelete, la torre campanaria della Cattedrale, incombeva protettivo su di loro.

    Plaza de la Virgen si aprì davanti agli occhi di José come un gioiello prezioso: era il luogo di Valencia che più amava, quello di cui non avrebbe mai potuto fare a meno. L’attraversò a passi lenti e arrivò al giardino di La Seu. José si fermò e inspirò il profumo degli aranci in fiore, si lasciò cullare dalle sensazioni che gli dava ogni volta quel piccolo pezzo di paradiso. Ce l’avrebbe fatta a lasciare tutto quello? Sentì una fitta al cuore e per un attimo gli mancò il respiro.

    Si mise seduto su una delle panchine di pietra sotto gli aranci, accanto a un cespuglio di biancospino. Guardare le persone era sempre stato il suo passatempo preferito. Rimaneva per ore a immaginare le loro vite, le gioie e i turbamenti nei loro sguardi, il fuoco della vita vera che ardeva dentro di loro come un immenso falò che avvolgeva tutto. Questo era Valencia, un fuoco perenne alimentato dalla gente, che pulsava in ogni strada, in ogni monumento, dal sottosuolo fino alla cima del Miguelete e gridava al mondo: Io sono qui, sono viva!.

    Forse era proprio quello il motivo per cui gli Erjes continuavano a rimanere lì, nonostante le Sentinelle dessero loro una caccia spietata, ogni notte tornavano in quelle strade, in quei vicoli, tra quei palazzi. Loro, corpi in balia di un virus che ne assorbiva la volontà, non potevano fare a meno di sentire il richiamo della vita che sprigionava la città e la sua gente. José sospirò e chiuse gli occhi, ripensando agli avvenimenti che lo avevano portato lì, a dire addio a tutto quello che aveva conosciuto fino a quel momento.

    Baptista bussò alla porta della stanza dell’Edificio Protetto dove Maria e José passavano quasi tutta la giornata, per chiedergli di accompagnarlo al laboratorio. Dalla notte dell’attacco da parte del clan di Galen, era sempre rimasto con i due ragazzi, sembrava che non avesse il coraggio di affrontare la devastazione che gli Erjes avevano portato in quello che era stato lo scopo della sua intera vita: la sua casa, il suo laboratorio, la sua ricerca di una cura contro quella piaga. Ma dopo quasi due settimane era giunto il momento di rimettere in sesto la sua vita, così chiese a José se avesse potuto accompagnarlo.

    José rimase in silenzio per un attimo, si grattò la testa e abbassò lo sguardo, imbarazzato. Lasciare Maria da sola lo metteva a disagio. Dopo tutto quello che era successo, non si fidava dei Caballeros, né di nessun altro, a parte il suo amico Antonio, ma Baptista era un padre per lui e non ebbe il coraggio di dirgli di no. Si girò verso la ragazza e le sorrise. Lei lo ricambiò, guardandolo con i suoi occhi verdi, limpidi e chiari. Era giorno, i segni del contagio non erano visibili e appariva come era veramente: bella, dolce, radiosa.

    «Vuelvo muy pronto!» Si chinò su di lei e le dette un rapido bacio sulla guancia, provocando quella scossa diventata a entrambi ormai così familiare.

    Lui era una Sentinella, un Soldato di una specie diversa, il cui solo scopo era proteggere gli esseri umani dagli Erjes, persone infettate da un virus che levava loro ogni volontà. Tutto nelle Sentinelle era stato creato per combatterli, il loro sangue possedeva gli anticorpi con cui venivano create armi che li distruggevano, e anche il solo contatto con loro provocava profonde ustioni a entrambi. Aveva passato la vita a combatterli, fino a una notte di Las Fallas, quando aveva incontrato Maria: contagiata, ma ancora umana, ancora viva. Il suo corpo resisteva all’infezione, era unica, speciale, gli aveva ridato la speranza che tutta la sua vita di battaglie potesse cambiare.

    La salutò, poi seguì Baptista fuori dalla porta. I Caballeros, le persone

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