Proposta greca (eLit): eLit
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Margaret Mayo
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Proposta greca (eLit) - Margaret Mayo
successivo.
1
Udì lo stridio dei freni prima ancora di vedere la macchina. Ma ormai era troppo tardi. Rhianne, persa nel suo mondo di infelicità, non si era guardata intorno prima di scendere dal marciapiede. Spinta in avanti dal paraurti della vettura, volò sull'altro lato della strada, l'impressione di essere ammantata da un profondo silenzio. Sembrava che il mondo si fosse fermato. Nessun frastuono del traffico, nessuna voce, nessun canto di uccelli. Niente, se non una calma innaturale. Non sentiva neanche dolore.
Poi una voce. Una voce maschile, roca e sgarbata. «Perché diavolo non guarda dove va?»
Perché diavolo non aveva guardato? A fatica Rhianne voltò il capo e intravide il proprietario della voce. Era, evidentemente, l'uomo che l'aveva investita. Dietro di lui, la macchina aveva la portiera aperta e il motore acceso. «Perché io non ho guardato?» Il tono era sgarbato quanto quello dell'uomo. E perché mai avrebbe dovuto controllarsi quando quell'individuo le addossava tutta la colpa? «Perché diavolo lei non ha guardato? Dovrebbe andare sul monopattino. Questa è una strada molto trafficata. Avrebbe dovuto avere riflessi più pronti.»
«Si è fatta male?»
La domanda tardiva la infuriò ancora di più. Chiuse gli occhi per escludere quel viso fantastico che si era avvicinato un po' troppo. L'uomo adesso era accovacciato e la studiava, facendola sentire come un insetto sotto la lente del microscopio.
«Salve. Riesce a sentirmi?»
Così pensa che sia già nell'aldilà! Rhianne spalancò gli occhi e, barcollando, si alzò. Si sentiva debole, ma non c'era niente di rotto. O, almeno, così le sembrava. Le gambe la sorreggevano e poteva muovere le braccia. Sentiva un dolore al fianco, ma per il resto stava bene.
Certo non grazie al Guidatore Folle.
Si guardò intorno e vide che si era radunato un piccolo assembramento, i visi preoccupati e incuriositi. Ma l'unico volto che vedeva con chiarezza era quello dell'uomo che le porgeva la mano per aiutarla ad alzarsi... mano che lei ignorò. L'uomo che, in quel momento, la guardava con la fronte corrugata.
«È stata colpa mia. Mi scuso.» Occhi di una tonalità tra il grigio e il marrone erano intenti su di lei. Occhi che, in altre circostanze, avrebbe trovato attraenti. Ma in quel momento vide soltanto gli occhi di un uomo che le aveva fatto fare la figura della sciocca.
Non era del tutto colpa sua, ma non intendeva ammetterlo.
Udiva il mormorio della folla che si disperdeva; soddisfatti che non fosse successo niente di grave, i presenti si accingevano a riprendere la loro vita come se non fosse successo nulla.
Anche lei avrebbe voluto che non fosse successo niente. Invece era stata costretta a lasciare un lavoro che amava, e ad assistere a quella terribile scena con Angus come protagonista.
«Accetto le sue scuse» borbottò, rendendosi conto solo in quel momento che l'uomo la stava fissando.
«Ho commesso un errore di valutazione. Mi dispiace. Se c'è qualcosa che posso fare...»
Rhianne per la prima volta notò che l'uomo non era inglese. Aveva la carnagione olivastra e capelli scuri, che tendevano ad arricciarsi sul collo, e un accento armonioso che non riusciva a identificare. «No, grazie. Non mi sono fatta niente. Può andare...» All'improvviso il mondo roteò impazzito e lei si portò una mano alla fronte.
Immediatamente braccia forti la sorressero. Anche nello stato confusionale in cui si trovava, riconobbe che quell'uomo teneva molto al proprio aspetto. Trasse un profondo respiro e subito si pentì, perché inalò l'aroma del suo dopobarba. Ogni volta che avesse sentito quello stesso profumo, si sarebbe ricordata di quel momento.
Gli odori le facevano quell'effetto. Il profumo di lavanda le ricordava una vacanza che aveva trascorso a Jersey, il tabacco le ricordava il nonno. Quando era piccina, lui aveva l'abitudine di prenderla in braccio, sempre con la pipa in bocca.
«Non si sente bene» insistette l'uomo. «Mi permetta di accompagnarla a casa. È il minimo che possa fare. O forse è meglio che la conduca da un medico...»
«No, non è nulla» ribatté.
«Allora la accompagno a casa.»
«No!» si ribellò Rhianne con voce ferma. Non aveva più una casa; se n'era appena andata. Non sopportava l'idea di tornarvi.
«La conduco a casa mia» dichiarò lui con decisione. «Non posso lasciarla in queste condizioni.»
«Quali condizioni?» ribatté, aspra, spalancando i magnifici occhi azzurri. «Sto bene... qualche graffio, nient'altro.»
«Ha bisogno di una buona tazza di tè forte, non è così che la vedono gli inglesi? Poiché è stata colpa mia, voglio essere certo che non abbia delle ripercussioni tardive.»
Rhianne non ebbe la possibilità di opporsi. Il braccio tenuto stretto sotto il suo, lo sconosciuto la condusse alla macchina. Un altro odore, di pelle questa volta, stabilì salendo sulla lussuosa vettura.
Ma chi è?, si domandò. Apprezzava la sua premura anche se non era necessaria. L'uomo indossava un abito grigio di sartoria, aveva una camicia bianca e una cravatta color mostarda.
«Ce la faccio da sola» obiettò quando lui si sporse per allacciarle la cintura. Ma la protesta fu ignorata e, quando le fu vicino, l'impatto di quell'individuo pericolosamente attraente la colpì con più violenza dell'urto della macchina.
Di nuovo quel dopobarba riempì l'aria intorno a lei. Muschio e legno, un aroma che non aveva mai sentito. Gli si adattava; lasciava intendere un uomo forte e virile, di carattere deciso e con un concetto ben preciso del bene e del male. Strano che le passassero per la mente pensieri del genere. Ma quell'uomo aveva avuto un forte impatto su di lei, questo era certo, e si augurò di non aver commesso un errore permettendogli di condurla a casa sua.
Cosa sapeva di lui? Niente. Neppure il suo nome. Lo sforzo di pensare la sfinì, così chiuse gli occhi finché la macchina non si arrestò, poco dopo.
Si guardò intorno e vide una maestosa costruzione. Ma non era un condominio, era un albergo. Subito un campanello d'allarme le risuonò nella mente. Perché si serviva di un albergo? Aveva l'abitudine di raccogliere ragazze in difficoltà?
«Abita in albergo?» domandò, inconsapevole del tremito nella voce. Il cuore le batteva forte e si sentiva stranamente confusa.
L'uomo sorrise. «Nella suite dell'attico. Venga...» Le porse la mano. «Stia tranquilla. È perfettamente al sicuro. Voglio soltanto assicurarmi che l'incidente non abbia avuto conseguenze. Mi sento responsabile, ovviamente.»
«Non è stata colpa sua» dichiarò Rhianne tutta d'un fiato. «Non guardavo dove andavo.»
Lui arcuò un sopracciglio, ricordandole implicitamente che poco prima gli aveva attribuito la colpa. Comunque, la voce rimase calma. «In ogni caso, avrei dovuto fare più attenzione. Be', non parliamone più. Berremo del tè e lei mi racconterà cosa la preoccupa al punto da non guardarsi intorno quando attraversa una strada.»
D'impulso, Rhianne avrebbe voluto affermare di non avere nessuna preoccupazione, ma subito cambiò idea e rimase in silenzio. Lui, probabilmente, la stava studiando, nel tentativo di capire cosa non andasse in lei. E lei non aveva alcuna intenzione di dividere i propri problemi con un estraneo.
Entrarono in albergo, lui che la teneva per il gomito, e Rhianne non poté evitare di domandarsi se stesse facendo la cosa giusta. Quell'uomo non aveva la minima idea di cosa le passasse per la testa. Lei non cercava né una tazza di tè né comprensione. Anzi, non avrebbe dovuto essere lì per niente. Colta dal panico, sfilò la mano dal suo braccio, pronta a fuggire. Ma lui la trattenne.
«Non è in condizioni di andare da sola da nessuna parte» obiettò, il tono deciso. «Se ha paura di me, posso chiamare una cameriera che resti con noi. Le assicuro, tuttavia, che non è necessario.»
Gli occhi erano sinceri e Rhianne si sentì sciocca. Trasse un profondo respiro. «Le credo.» Non riusciva a trovare altre parole che non la facessero apparire ancor più idiota di quanto si sentiva.
Quel giorno era stato il peggiore della sua vita e ricevere gentilezza da un estraneo le faceva salire le lacrime agli occhi. Eppure raramente piangeva. Aveva forza di carattere e si vantava di sapere affrontare qualsiasi evenienza.
E adesso quell'uomo la vedeva nel suo momento peggiore. L'orgoglio ne patì e si sentì a disagio. In ascensore si guardò nello specchio che rifletteva le loro immagini. Rimase di pietra. Aveva i capelli arruffati, gli occhi sbarrati per la paura.
«È questa casa sua?» domandò nel tentativo di spezzare il silenzio. Non capiva perché qualcuno decidesse di abitare in albergo, ma lui l'aveva definita casa sua. E allora? «O si trova qui per affari?»
«Entrambe le cose. Sono qui per affari, e in questa suite mi trovo bene. C'è tutto ciò che posso desiderare.»
Era, evidentemente, molto ricco. Si notava dall'abito, dal totale controllo e dalla sicurezza in sé. Ma c'era di più. Anche nello stato confuso in cui si trovava, Rhianne vedeva il suo fascino. Immaginò che incantasse tutte le donne che avvicinava. Era fantastico, con un bagliore negli occhi che, se non si fosse trovata in quello stato, l'avrebbe colpita fin nel profondo.
Ma in quel momento era immune al fascino maschile. Doveva trascorrere molto tempo prima di accettare un altro uomo nella sua vita.
E allora cosa ci faceva lì? Perché si era lasciata convincere? Stava abbastanza bene e, soprattutto, non conosceva neppure il suo nome. Era in compagnia di uno sconosciuto in una suite d'albergo. Era impazzita?
Come se le avesse letto nella mente, lui porse la mano. «Credo che dovremmo presentarci. Mi chiamo Zarek Diakos. E lei è...?»
Rhianne si produsse in un debole sorriso. Zarek Diakos. Il nome suonava greco e non poté fare a meno di domandarsi che genere di affari lo avesse condotto in Inghilterra. «Sono Rhianne Pickering» disse quietamente.
L'ascensore si fermò e le porte si aprirono. «Bene, Rhianne Pickering. Benvenuta nella mia umile dimora.»
Intimidita, avanzò su un folto tappeto mentre lui le faceva strada in un soggiorno ampio quanto l'appartamento che condivideva con l'amica. Non si rese conto di essere rimasta a bocca aperta. Alle pareti c'erano dipinti di valore, specchi veneziani, candelabri di cristallo. Un lusso sovrabbondante.
«Lo ha affittato?» domandò, inconsapevole che la voce fosse solo un sussurro.
Zarek alzò le spalle. «Ritiene che sia un'ostentazione? Si ha per quel che si paga. Posso permettermelo. Allora perché non circondarmi di cose belle? Lavoro tutto il giorno, ed è un piacere tornare a casa.»
Ecco di nuovo la parola casa. Rhianne non avrebbe mai definito un ambiente del genere casa. Come ci si poteva rilassare? Non c'era una sola cosa fuori posto. Era come un'esposizione. Evidentemente è così che ti rende la troppa ricchezza. Si perde il