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Sogni perduti (eLit): eLit
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E-book344 pagine5 ore

Sogni perduti (eLit): eLit

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Info su questo ebook

A causa dei sensi di colpa legata a un marito in coma da anni, Charlotte MacLeod si è rifugiata nel castello di famiglia, nella selvaggia, struggente isola di Skye. Ma la nuova vita che sta faticosamente costruendo per sé e la figlia è turbata dall'arrivo di Brad, un magnate americano che per un cavillo legale si trova a ereditare sia il titolo sia la terra dei suoi antenati. Brad e Charlotte sono stati uniti da un amore giovanile, maturato in una grande amicizia. Ma sembra che non ci sia modo, per loro, di sfuggire al destino...
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2017
ISBN9788858978931
Sogni perduti (eLit): eLit
Autore

Fiona Hood-stewart

Scrittrice di origine scozzese, vive in Svizzera. Ama molto leggere e viaggiare e parla correttamente sette lingue tra cui l'italiano. Nella collana I NUOVI BESTSELLERS ha già pubblicato In viaggio verso casa e Novecento in cui era sempre protagonista la famiglia MacLeod.

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    Anteprima del libro

    Sogni perduti (eLit) - Fiona Hood-stewart

    successivo.

    1

    Sentiva qualcosa? Charlotte Drummond se lo chiedeva, fissando il cereo corpo immobile sotto il lenzuolo inamidato. Era possibile che, malgrado il parere dei medici, quell'uomo apparentemente privo di vita avvertisse in qualche modo la sua presenza?

    Rabbrividì e in fretta spostò lo sguardo sull'anonimo muro d'ospedale, poi attirò a sé la sedia di plastica grigia e vi si sedette stancamente. Il viaggio fino all'ospedale di Glasgow era estenuante sia sotto l'aspetto fisico sia sotto quello mentale. Ma da un anno a quella parte lei si costringeva a compierlo ogni due settimane. Tornò a guardare l'uomo in modo più distaccato. Il sorriso che dal grande schermo aveva toccato il cuore di milioni di ammiratrici ora era nascosto dai tubi del respiratore, ma i suoi lineamenti erano ancora belli come un tempo.

    Un'altra immagine le passò davanti agli occhi. Meno piacevole, ma altrettanto vivida. Si irrigidì istintivamente, portandosi le dita alla guancia, dove più di una volta aveva sentito l'impatto della mano di lui. Fu scossa da un tremito involontario e per un terribile attimo si augurò che non si risvegliasse più.

    Si alzò nervosamente, allontanandosi in fretta dal letto. Alla finestra, fissò il traffico che scorreva lento sotto la pioggerellina estiva. Non sarebbe mai riuscita a sfuggire ai ricordi, capì, passandosi una mano sugli occhi. Mai avrebbe dimenticato le notti insonni e la paura ossessiva che, nel corso degli anni, l'avevano ridotta in ginocchio. Solo quando aveva toccato il fondo si era resa conto che qualunque cosa, perfino la morte, sarebbe stata migliore della vita che stava conducendo. Che per sopravvivere doveva risalire la china a qualunque costo. Le ci erano voluti mesi, ma alla fine aveva trovato il coraggio di lasciarlo. Poi era arrivata quell'ultima, terribile lite, e la rabbiosa umiliazione che aveva provato quando lui aveva riso alla sua minaccia di metter fine al matrimonio. Ricordò il viso di John, bianco di furia mentre sbatteva la porta, e il moto di soddisfazione che aveva provato lei perché finalmente gli aveva tenuto testa. Poi, ore dopo, la telefonata che aveva distrutto tutte le sue speranze e la folle corsa per le strade di Londra fino al pronto soccorso del St Thomas.

    Il resto di quella terribile giornata era confuso nella sua mente. Le restava solo la vaga impressione delle facce stravolte del regista e del produttore, e il ricordo delle parole con cui il medico le aveva spiegato che la caduta dal tetto, durante una ripresa per cui di solito avrebbe usato una controfigura, lo aveva ridotto in coma. Per quanto tempo?, aveva chiesto lei, disperata. Nessuno aveva saputo dirglielo.

    La cosa peggiore era stata il rimorso. La vergogna per l'inaspettato senso di libertà, per il sollievo di sapere che lui non poteva più farle male, né mentalmente né fisicamente.

    Charlotte abbassò la testa. Chiuse gli occhi e si passò le mani tra i lunghi capelli rosso tiziano. Era stata colpa sua se John era uscito di casa furente, quel giorno. Quel coma era il suo modo di punirla? Perché così l'aveva punita, tenendola prigioniera, forzandola silenziosamente a quel quindicinale pellegrinaggio di penitenza, tenendo vivo se stesso e il senso di colpa di lei per tutto il tempo che restava attaccato alle macchine.

    No, quello era un pensiero ingiusto. Finché c'era un filo di speranza, lei non poteva permettere che i medici gli staccassero la spina. Così come non poteva divorziare da lui ora, nonostante tutte le insistenze di sua madre e di Moira. Qualunque cosa John avesse fatto in passato, era pur sempre suo marito e lei doveva restare al suo fianco.

    Alzando la testa dolorante, fissò lo sguardo oltre il corpo immobile e si costrinse a pensare ad altro.

    A qualunque altra cosa.

    Bradley Ward. Si concentrò sull'imminente arrivo di lui e si sentì meglio. Il meraviglioso, leale Brad, il suo più caro amico e lontano cugino... Ma anche l'uomo che la stava costringendo a lasciare Strathaird, l'indomito castello che lei amava tanto. In inverno, l'implacabile Mare del Nord si frangeva sulle scogliere sotto la sua cupa facciata. In estate, la schiuma delle onde le lambiva dolcemente. Era casa sua. La sua dimora ancestrale. L'unico luogo che non l'aveva mai delusa. Dentro quelle spesse mura di pietra che per secoli avevano resistito agli assalti dei vichinghi e di clan rivali, nel caldo abbraccio del divanetto di camera sua o rannicchiata sotto il vecchio plaid davanti al camino della biblioteca, mentre guardava la pioggia battere contro le losanghe di vetro delle finestre, si sentiva al sicuro.

    Ma ora Strathaird non sarebbe stato più suo.

    Non che Brad avesse voluto diventarne proprietario. Al contrario, lui aveva fatto di tutto per far annullare il vincolo della discendenza maschile, ma a quanto pareva la legge non teneva in alcun conto un'intera generazione di pura dedizione alla terra.

    E a lei s'era spezzato il cuore.

    Charlotte deglutì il nodo che aveva in gola. Anche se era contenta che il castello e la tenuta passassero nelle capaci mani di Brad, non credeva di poter sopportare i cambiamenti che sicuramente la nuova gestione avrebbe introdotto.

    Perché ora Brad sarebbe arrivato con una promessa sposa.

    Il suo fidanzamento con Sylvia l'aveva colta di sorpresa, una sorpresa che stava ancora cercando di accettare. Avrebbe dovuto prevedere che un giorno sarebbe successo. Non che avesse obiezioni, ovviamente. Tutt'altro. Solo, le sembrava strano pensare al suo Brad legato a un'altra donna, lui che era stato sempre disponibile quando lei aveva avuto bisogno. Ora, si disse con riluttanza, avrebbe dovuto imparare a condividere la forza di lui con un'altra.

    A un tratto, l'immagine di Brad si materializzò davanti ai suoi occhi. Non com'era ora, ma com'era stato quella notte in Chester Square, tanti anni prima, quando l'aveva presa tra le braccia e lei aveva sentito le sue labbra sulle proprie. Erano secoli che non ripensava più a quell'episodio. Perché le tornava in mente adesso? Che assurdità. Da dieci anni erano buoni amici e niente più.

    Il mare era di un blu pavone, i gabbiani lanciavano grida nel cielo e il tiepido vento che spirava da ovest, radunando le nubi come pecore, annunciava la pioggia. Ma non sarebbe arrivata prima di sera, pensò Penelope MacLeod, affacciandosi alla finestra della nuova casa della figlia. Scrollò vigorosamente lo straccio e guardò distratta la polvere posarsi sul roseto. Anche quello era pieno di erbacce, rifletté, raddrizzando la schiena indolenzita da ore di faccende domestiche. Scosse la testa, divertita. Se si fosse resa conto di quanto olio di gomito ci voleva per rendere abitabile Rose Cottage, forse non avrebbe offerto i suoi servigi a Charlotte con tanto entusiasmo. Le si strinse la gola alla vista della sagoma di Strathaird in distanza. Eppure, sentiva che Charlotte aveva preso la decisione giusta andandosene dal castello prima dell'arrivo di Brad.

    Sospirando, fissò le mura scure e le torri di quella che era sempre stata casa loro, e pensò al passato e al futuro. Erano successe tante cose in quegli ultimi anni, c'erano state tante rivelazioni, tanti capricci del fato che avevano cambiato la loro vita. Chi avrebbe mai immaginato, per esempio, che Charlotte avrebbe lasciato la vita brillante e convulsa che aveva condotto col marito attore, per tornare con la figlioletta Genny prima a Strathaird e poi al minuscolo cottage dal tetto di paglia che le era stato lasciato dalla nonna Flora?

    Come cambiano i figli, pensò Penelope, ricordando l'irrequieta adolescente dalle gambe lunghe che era stata Charlotte.

    Forse quel trasferimento era un altro segno che sua figlia stava finalmente cominciando a lasciarsi alle spalle i sensi di colpa e le insicurezze con cui aveva vissuto in quegli ultimi anni.

    Il primo segnale positivo era stato l'improvvisa decisione di Charlotte di aprire al villaggio una galleria per esporre i gioielli che disegnava. Era stata una piacevole sorpresa, la prova che ricominciava ad avere fiducia in se stessa.

    Penelope riprese in mano lo straccio e ammirò le pareti color terra di Siena che Charlotte aveva amorosamente dipinto da sola. Costituivano un caldo sfondo per i tanti quadri, per le lampade e per i due voluminosi divani scoperti un pomeriggio di pioggia nella soffitta di Strathaird.

    Il raid in solaio aveva prodotto altri tesori. Un antico baule indiano intagliato in avorio, forse appartenuto al prozio Dougal MacLeod che aveva sposato la figlia di un maharajah, era diventato un bellissimo tavolino carico di libri d'arte e di candele in cera d'api. Penelope era strabiliata dalla capacità della figlia di creare un'atmosfera che sembrava uscita dalle pagine di House & Garden con delle cianfrusaglie. Da chi aveva preso tanto gusto e tutta quella fantasia? Né lei né il suo defunto marito, David, erano tipi particolarmente artistici.

    Sorridendo, si avvicinò alla mensola del camino e spostò la tazza da battesimo d'argento del trisnonno Hamish MacLeod, traboccante di fresie, perché fosse esattamente al centro dello specchio Chippendale. Il suo sguardo si indurì quando cadde sul bel viso arrogante di John Drummond, nella foto scattata pochi giorni prima della bravata che lo aveva ridotto in coma. Ma perché non era morto?, si chiese amaramente, e non per la prima volta. Era un pensiero cattivo, lo sapeva, ma non le importava. Quell'uomo aveva rovinato la vita di sua figlia. Anche adesso, che era immobile in un letto d'ospedale, continuava a esercitare il suo potere su di lei. Charlotte non era né una moglie né una vedova. Lei aveva tentato in tutti i modi di convincerla a mandare avanti la pratica di divorzio che aveva avviato il giorno dell'incidente. Era stato inutile. A dispetto di tutti i maltrattamenti che quell'uomo le aveva inflitto, o forse proprio a causa di essi, Charlotte si rifiutava di lasciarlo.

    Penelope sospirò e spostò in fretta lo sguardo su un'immagine di Genny e Charlotte, abbracciate a bordo di uno yacht a Ibiza, poi indugiò sulla foto di suo marito, David, e del loro amato figlio, Colin. Le si riempirono gli occhi di lacrime. Avrebbe mai superato il dolore per l'improvvisa perdita del figlio sotto una valanga, e per l'attacco di cuore di David poco dopo? Nell'arco di un anno era stata privata dei due uomini che più amava. E ora Brad era il nuovo lord MacLeod. Entro un paio di giorni avrebbe preso possesso di Strathaird e la loro vita sarebbe cambiata per sempre.

    Voltò le spalle al camino, determinata a non ripiombare nella depressione. David e Colin avrebbero continuato a vivere per sempre nel suo cuore, ma ora lei doveva affrontare il futuro da sola. E doveva aiutare suo nipote. Brad avrebbe avuto bisogno di tutta l'assistenza possibile per assumere il suo nuovo ruolo. Non era una posizione facile per nessuno, ma lo era ancor meno se si era nati e vissuti in un paese straniero.

    Il ricordo della costernazione di Brad quando aveva saputo dell'eredità la fece sorridere. Poveretto. Era un uomo cosmopolita, eppure allo stesso tempo tanto americano da essere totalmente estraneo all'idea di un titolo aristocratico.

    Lei non poteva fare a meno di chiedersi se fosse pronto a sobbarcarsi quella nuova responsabilità quando suo nonno gliene aveva lasciate già tante.

    Com'era contenta che finalmente lui avesse incontrato una donna con cui dividere la vita. Non che Sylvia le paresse il tipo giusto per Brad. Ma, del resto, lei cosa ne sapeva? Ricordò l'americana esageratamente elegante che aveva incontrato brevemente a un pranzo al Savoy Grill alcuni mesi prima e si augurò che riuscisse a inserirsi in un ambiente per lei così estraneo come l'isola di Skye. Trattenne un sospiro. Come avrebbe fatto la povera Sylvia a capire in poche settimane quello che veniva tramandato di generazione in generazione?

    A un tratto, inspiegabilmente, le passò davanti agli occhi l'immagine di Brad e Charlotte da ragazzi mentre giocavano a tennis a La Renardière, la casa di famiglia a Limoges. Erano stati legatissimi, a quel tempo. Inseparabili. Ma era cambiato tutto quando Charlotte era rimasta incinta e aveva sposato John Drummond quattordici anni prima.

    A quel tempo Penelope si era chiesta se il sentimento di Brad per sua figlia non fosse più profondo di quanto lui stesso non volesse ammettere. C'era stata un'espressione nei suoi occhi, allora... Ma erano anni, ormai, che tra loro c'era solo amicizia.

    Con un sospiro, portò lo straccio in cucina, si lavò le mani e posò sul tavolo lo sformato d'agnello che aveva preparato per Charlotte, prima di infilarsi il suo vecchio giaccone. Ci volevano ore di macchina da Glasgow, e sua figlia sarebbe rientrata tardi. Se solo avesse smesso di starsene seduta per intere giornate nell'atmosfera orribilmente sterile di quell'obitorio pieno di cadaveri viventi. Ma era inutile cercare di dissuadere Charlotte quando s'era messa in testa una cosa.

    Guardò l'orologio. Presto Armand sarebbe rientrato per la cena. Stilista parigino, il cugino francese del suo defunto marito non era il più accomodante degli ospiti. Eppure, lei gli era grata dell'interesse che mostrava per i gioielli disegnati da Charlotte. Sua figlia sembrava rifiorita grazie ai suoi elogi. La vita era davvero piena di sorprese. A volte l'aiuto giungeva dalle fonti più inaspettate.

    Uscendo, prese il cesto che aveva lasciato sugli scalini. Se lo infilò al braccio e alzò gli occhi dubbiosa verso il cielo grigio prima di incamminarsi a passo spedito verso il castello. Sperava che non si mettesse a piovere, perché aveva dimenticato l'ombrello.

    Sylvia Hansen lanciò un'occhiata a Brad. Stava appoggiato all'indietro sulla poltrona girevole di pelle, le mani allacciate sulla nuca e gli occhi fissi alla vetrata dell'ufficio. Era tarda sera e le luci di Manhattan punteggiavano il cielo scuro. Sylvia sorrise. Bradley Harcourt Ward era bello, vincente e ambizioso: tutte qualità che aveva anche lei.

    Insieme, formavano una squadra fenomenale e presto loro due sarebbero diventati una delle coppie più potenti della città. Finalmente Sylvia stava per ottenere quello che sarebbe parso impossibile fino a poco tempo prima. Aveva fatto bene a prendere l'iniziativa. Era stata lei a chiedergli di sposarla, ricordò trattenendo una risatina. Ora sfoggiava l'enorme diamante che un tempo era appartenuto alla bisnonna Ward e aveva prenotato un favoloso ricevimento nuziale al St Regis per il prossimo inverno. Niente male, per una ragazza nata nei quartieri sbagliati di Little Rock!

    Respingendo il ricordo della sua infanzia, cercò di concentrarsi su quello che diceva Brad e trattenne un sospiro stanco quando si rese conto che lui stava parlando di nuovo di Strathaird. Ormai le veniva la nausea solo a sentir nominare il derelitto castello scozzese che Brad aveva ereditato per un malaugurato capriccio della sorte. Ma come faceva a non rendersi conto che non era poi così importante? Non poteva limitarsi ad assumere delle persone che lo gestissero? Una tenuta in Scozia non poteva richiedere il tipo di impegno che lui lasciava intendere.

    Sylvia si lisciò la gonna sulle ginocchia e incrociò le gambe, conscia di una nuova inflessione nel tono di lui. «Puoi ripetere?» chiese, aggrottando le sopracciglia.

    «Be'...» Brad giocherellava pensosamente con la sua penna stilografica. «Come ti ho già spiegato, Strathaird richiederà la mia attenzione personale. All'inizio, almeno. Per questo stavo pensando di precederti di qualche giorno.» Le lanciò una rapida occhiata sopra la scrivania. «Avrò un sacco di cose da fare, a Skye... O piuttosto, da imparare. La verità, Syl, è che non so un bel niente sulla gestione di una tenuta scozzese. È come se dalla sera alla mattina fossi diventato allenatore dei New York Mets.» Alzò una mano e sorrise. «Ritiro quanto ho detto. Almeno, del baseball conosco le regole. Se parto solo, comincerò ad avere una mezza idea di come funzionano le cose prima che arrivi tu.»

    Sylvia trasalì. «Vuoi partire da solo?»

    «Perché no? Si tratterà solo di pochi giorni. Una settimana al massimo. Così tu potresti finire quello che hai da fare qui, invece di startene seduta da sola al castello mentre io incontro i fittavoli.»

    Sylvia annuì dubbiosa. La prospettiva di chiudersi in un vecchio castello che puzzava di muffa, su una sperduta isola della Scozia, non la allettava, soprattutto se Brad avrebbe passato le sue giornate altrove. In altre circostanze, avrebbe sfruttato il tempo libero per lavorare, ma Brad l'aveva già informata ridendo che i cellulari funzionavano malissimo, a Strathaird.

    «Forse hai ragione. Devo definire quei contratti australiani e mi ci vorranno ancora due settimane.» Lo guardò. «Okay. Vai pure. Uno di noi deve pur restare al timone.»

    «Perfetto.» Lui sorrise di nuovo e si piegò in avanti per prenderle una mano. «Sei una brava ragazza, Syl. Posso sempre contare su di te.»

    «Grazie.» Lei riuscì a fargli un sorrisetto, sapendo che lui aveva inteso quella frase come un complimento. Peccato che l'avesse fatta sentire scialba come una vecchia giacca di tweed.

    «Bene.» Brad posò le mani sulla scrivania con fermezza. «Ora che è tutto deciso, pensiamo alla cena. Vuoi uscire o ci facciamo portare qualcosa a casa?»

    «Avevamo una prenotazione al Town, ma l'ho annullata un'ora fa. Dimmi, quando hai intenzione di partire, esattamente?»

    «Alla fine della settimana, direi.» Brad cominciò a riordinare i documenti. «Se tutto va bene a Seattle e Chicago, ovviamente. Sono contento che tu approvi il fatto che io vada avanti da solo» riprese, alzandosi. «Questo mi darà anche l'opportunità di stare un po' con la famiglia.» Andò alla finestra per fissare il traffico che scorreva cinquantadue piani più sotto. «Sai? Sono due anni che non faccio una bella chiacchierata con Charlotte. Il tempo passa così in fretta. Ormai riusciamo a malapena a salutarci al telefono.» Si voltò e prese la giacca.

    Sylvia si mise in spalla la grande borsa che conteneva praticamente la sua vita e aggrottò la fronte. «Ho incontrato Charlotte a Londra quella volta che siamo andati al Chelsea Flower Show» mormorò, lanciandogli un'occhiata. «Non mi ero resa conto che foste tanto amici. Vi sentite regolarmente?»

    «Non più. Ma un tempo passavamo ore e ore al telefono. Le ho dato una mano a risolvere qualche problema. Ha avuto un matrimonio sfortunato. Allora, cosa ti va?» chiese, cambiando argomento e passandole un braccio attorno alle spalle. «Cinese, o mi prepari una delle tue famose omelette? Se chiedi il mio parere, io voto per l'omelette.»

    «Affare fatto. Sono troppo stanca per uscire.»

    Sylvia si appoggiò a lui.

    «Omelette, allora. Ti faccio perfino un massaggio alla schiena, che ne dici?» Le diede un rapido abbraccio mentre si avviavano verso la porta.

    «Cosa avrò fatto per meritarmelo?» Lei alzò il viso verso di lui.

    «Sei la migliore» scherzò Brad, chiamando l'ascensore.

    «Bugiardo!»

    «Giuro. Capisci tutto e non sei mai bisbetica. Cos'altro può chiedere un uomo alla sua donna?» Storse la bocca in un sorriso e le pizzicò una guancia. «Rammentami di mandare una e-mail alla zia Penn, per favore. Mi sono appena ricordato che venerdì sarà il compleanno di Charlie. Potrei farle una sorpresa e arrivare in tempo.»

    «Ma abbiamo la cena dai Walsh, sabato sera!» protestò Sylvia, sconcertata. Jake Walsh era uno dei leggendari guru di Wall Street, e lei aveva passato l'ultimo anno a coltivare l'amicizia della sua giovane moglie, Karen, una delle più note presidentesse di comitati di beneficenza della città.

    «Sul serio?» Brad fece una smorfia. «Non è importante, vero? Non si può rimandare?»

    Avevano raggiunto l'atrio della Harcourt e si stavano avviando verso la macchina ferma nel piazzale. Sylvia ingoiò la frustrazione. «Be', non è essenziale, ma mi dispiacerebbe perdere l'occasione di vedere il loro nuovo attico. Dicono che sia favoloso.»

    «Allora vacci, cara, e divertiti» rispose lui, infilandosi in macchina con un sorriso assente e facendo cenno a Ramon, l'autista, di partire.

    «Non è questo il pun...» Lei si rimangiò le parole, per paura di suonare infantile e petulante. Per qualche motivo, quella improvvisa fretta di arrivare in Scozia l'aveva turbata e la preoccupava il fatto che lui volesse andarci da solo.

    Era buio quando finalmente Charlotte entrò a Rose Cottage e attraversò il minuscolo ingresso diretta in cucina. Il profumo delle erbe aromatiche appese alle basse travi lucidate a cera le diede il benvenuto mentre lanciava la borsa sul tavolo. La casa era immacolata, notò sorpresa. Poi vide la teglia con lo sformato e capì. Che cara la mamma a venire a darle una mano quando aveva tante cose di cui occuparsi prima dell'arrivo di Brad.

    Squillò il telefono e lei rispose.

    «Ciao, Genny.» Charlotte sorrise sentendo il chiacchierio eccitato della figlia tredicenne. «Sì, certo che puoi dormire da lei. Ma cerca di non disturbare la signora Morison. Salutala da parte mia.»

    Riappese, lieta che Genny avesse una nuova amica. Era stata una bambina troppo timida e solitaria quando erano tornate sull'isola dopo che John era entrato in coma. Il trasferimento da Londra non era stato semplice. Gli altri ragazzi avevano faticato ad accettarla e, ovviamente, il fatto che zoppicasse non aveva agevolato le cose.

    Charlotte accese il bollitore per il tè, mise lo sformato a scaldare in forno, e ripensò con uno straziante senso di colpa alla notte in cui s'era addormentata al volante. Era stata Genny a pagarne il prezzo. L'incidente stradale le aveva lasciato un handicap che Charlotte pregava potesse diminuire col tempo. In fretta, prima che i rimorsi la travolgessero, riportò il pensiero al presente.

    S'era trasferita a neanche mezzo miglio dal castello, eppure psicologicamente era lontanissima. Strathaird, con i suoi spifferi, con l'ascensore che si inceppava sempre e coi gradini sconnessi che per qualche motivo non venivano mai riparati, era ormai parte del suo passato. Ma nel suo cuore era ancora casa sua.

    Prese una tazza in preda a un'improvvisa nostalgia, poi ricordò le gigantesche casse piene di attrezzature da palestra che erano state recapitate tre giorni prima e che ora incombevano minacciose nell'atrio. Lasciare il castello era stato decisamente la cosa più giusta, si disse con un brivido, immaginandosi Sylvia, biondissima e snella, alle prese con tutte quelle diavolerie per tenersi in forma.

    Tolse un biscotto allo zenzero da una lattina e lo posò accanto alla tazza. L'immagine della sofisticata fidanzata di Brad le tornò davanti agli occhi. Una donna moderna, intelligente, superorganizzata, pensò, ricordando l'unica volta in cui si erano incontrate, due anni fa, molto prima che tra Sylvia e Brad si cominciasse a parlare di matrimonio. Versando l'acqua bollente sopra la bustina, addentò malinconicamente il biscotto, sentendosi a un tratto scialba e trasandata. Sylvia doveva avere armadi ordinatissimi, coi capi suddivisi per colore. E forse aveva già pronte valigie piene di abiti firmati per il viaggio a Skye. Oppure, su consiglio di Brad, tutte quelle meraviglie sarebbero rimaste nell'immacolato appartamento di Manhattan?

    Non che le importasse.

    Charlotte raddrizzò le spalle curve. Augurava a Brad ogni bene. Sylvia era una scelta perfetta per lui: precisa, ordinata, efficiente, bella. La compagna ideale per un uomo con tante responsabilità.

    Un acre odore di fumo le fece girare di scatto la testa. Lo sformato! Ecco l'ennesima prova di quanto fosse distratta e disorganizzata lei. Una come Sylvia non avrebbe mai bruciato la cena. Le sembrava quasi di vedere la sua casa: un attico dall'indirizzo prestigioso, mobili di design, modernissimi ovviamente, un'atmosfera minimalista, tutta giocata sui toni dell'avorio con qualche tocco cromato. Mai uno spillo fuori posto...

    Le sfuggì una risatina mentre s'infilava un guantone bruciacchiato, apriva il portello del forno e si immaginava Brad e i gemelli in quell'ipotetica casa. Fece una smorfia alla crosta carbonizzata, guardò la temperatura troppo alta e si sentì in colpa. Non aveva alcun diritto di criticare Sylvia che, a quanto le risultava, era una donna deliziosa e voleva molto bene a Rick e Todd, i fratellastri di Brad che lui aveva preso con sé otto anni prima quando i loro genitori erano morti tragicamente in un incidente aereo.

    Depositando lo sformato a raffreddare nel lavandino, si ripromise di fare una telefonata di ringraziamento a sua madre prima di andare a letto. Omettendo il piccolo incidente col forno, naturalmente. La mamma era una vera roccia. Era stata così gentile a finire le pulizie di casa durante la sua assenza.

    Forse davvero avrebbe dovuto cedere alle sue insistenze e comprarsi dei mobili nuovi in occasione del suo prossimo viaggio a Glasgow. Ma detestava la confusione, i negozi, la gente e le decisioni... Anche piccole decisioni come scegliere delle poltrone o delle tende le sembravano insormontabili in quel momento. E lo stesso valeva per i vestiti, un'altra questione che sua madre sollevava costantemente. Perché avrebbe dovuto preoccuparsi del suo aspetto, lì a Skye, proprio non lo capiva. C'erano solo greggi di pecore e Armand de la Vallière a vederla. E Armand, anche se molto attento alla moda, era gay, perciò non contava.

    Un miagolio la strappò ai suoi pensieri. Hermione era acciambellata sul davanzale esterno, intenta a leccarsi una zampina. Charlotte si alzò, aprì la finestra e lasciò che la gatta entrasse e si avviasse mollemente verso il suo cestino posato accanto alla stufa. Mentre richiudeva i vetri, un movimento attirò la sua attenzione, ma quando si girò non c'era nulla. A un tratto fu scossa da un brivido. Che sciocca. Doveva essere più stanca di quello che credeva. Non c'erano pericoli sull'isola. Guardò la gatta.

    «Dove sei stata?» La prese in braccio e la coccolò dolcemente. «Sono contenta che tu abbia capito dov'è la tua nuova casa. Ti piace?» Fu rassicurata da un ronfare soddisfatto. «Bene» mormorò, depositandola nella sua cuccia. «Almeno una di noi è felice.»

    Stava per lasciare la cucina quando un colpo di tosse soffocato la fece irrigidire. Allora c'era davvero qualcuno, là fuori!

    In punta di piedi andò nell'ingresso, sollevò il coperchio del cassettone antico, prese una mazza da cricket. Aprì la porta con cautela. Mentre usciva, un'ombra si mosse accanto al cancello.

    «Fermo!» gridò, brandendo la mazza. Una figura inciampò sul prato.

    «Non mi picchi, miss Charlotte, no, per favore!»

    Sentendo la voce implorante di Bobby Hewitt, lei fu travolta da un moto di sollievo.

    «Bobby! Cosa ci fai qui?» esplose, irritata. «Mi hai fatto prendere un bello spavento!»

    «Non facevo niente di male.»

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