I rifugi della memoria
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Anteprima del libro
I rifugi della memoria - José Luis Cancho
Prefazione
In tempi di autofiction, la civetteria ha adottato forme nuove e impreviste, spesso equivoche. Una di queste, non certo la meno comune, consiste nel bistrattarsi con una sciatteria un po’ spavalda, costruendo un racconto dimesso nelle circostanze ma eroico nella sua essenza, in cui il protagonista non si prende mai la responsabilità diretta dell’infelicità in cui versa, né di quella in cui versano le vite degli altri, e i vizi – quando ci sono – sono di solito amabili e, in fondo, del tutto perdonabili. In questi presunti autoritratti radicali e senza sconti
, per citare le espressioni approssimative che appaiono spesso sulle quarte di copertina, autoritratti che per inciso si rivelano quasi sempre dei regolamenti di conti, il protagonista esce sovente dalla porta grande, con i capelli al vento, elegante e con una rinnovata stima di se stesso. A differenza dello scrittore di cultura protestante, che per norma generale tende al pragmatismo, magari spinto, lo scrittore di cultura cattolica può flagellarsi finché vuole, ma in fin dei conti ciò che importa è venir bene in fotografia, e soprattutto che non si discuta la sua sacrosanta rispettabilità.
Detto questo, che è ciò che penso del 90% della scrittura di autofiction che si pubblica oggigiorno, all’improvviso apro un libro di un autore per me completamente sconosciuto, come José Luis Cancho, e sono costretto a rimangiarmi una per una le parole del paragrafo precedente, stupito e affascinato dalla momentanea perdita della ragione, con quell’allegria che implica sempre l’aver trovato non solo una letteratura che fa il suo dovere – che in questo è essere concisa –, ma anche un nuovo autore, un nuovo compagno di avventure. «Animale mio, epoca mia», scrive Cancho appropriandosi dell’adagio di Mandel’štam, «chi potrà guardarti negli occhi?». Il libro inizia con un’immagine quasi cinematografica: l’autore che precipita dalla finestra di un terzo piano a Valladolid, il 18 gennaio del 1974, dopo essere stato torturato da quattro membri della Brigata Politico-sociale della polizia di Francisco Franco. I rifugi della memoria, tuttavia, non è la confessione politica dell’autore, e neppure – sebbene in questo caso sarebbe stato comprensibile – un regolamento di conti con i suoi aguzzini, né con sua la famiglia, né con le sue amanti. Le memorie di Cancho – che vanno dall’infanzia all’epoca attuale e che ripercorrono gli scenari della dissidenza politica durante la dittatura, il carcere, l’esilio, il vagabondaggio, l’inadattabilità alla vita pratica, le difficoltà nelle relazioni sentimentali, etc. – sono ciò che Simone Weil chiamerebbe un profilo spirituale
, e Broch una autobiografia psichica
. In altre parole, l’esame attento, sagace e onesto di un uomo che, malgrado i suoi sforzi, non riesce a non sentirsi un estraneo nei confronti di se stesso. Sarebbe una boutade dire che Cancho si analizza senza sconti. Eppure, questa frase, che è quasi sempre una frivolezza – per di più menzognera – assume qui una dimensione vera e piena di significato. Non solo perché l’autore è capace di dire cose obiettivamente difficili da articolare senza uscirne a pezzi, ma anche perché dimostra di aver riflettuto con equanimità, distanza e perfino disinteresse su di sé e sulle persone che hanno fatto parte della sua vita. Cancho dice di voler scrivere come un morto, e accipicchia se ci riesce.
Questo libro ha, in fondo, due modelli molto chiari, Édouard Levé e Joe Brainard, con due testi apparentemente poco canonici ma di primissimo piano: Autoportrait nel primo caso e Mi ricordo nel secondo. A tratti mi riporta anche al potente Zorn, con il suo implacabile Marte, e a Thomas Bernhard, ma più per il carattere che per lo stile (che in realtà è il suo esatto contrario). Cancho potrebbe essere, in definitiva, uno di quei misteriosi personaggi di Bernhard, che comprimono in tre parole le osservazioni di tre anni senza spettinarsi. Oppure un taciturno personaggio cechoviano che, all’epilogo dell’opera, fa una scoperta linguistica che ci regala la comprensione della vita di un altro. Senza dubbio, una rarità in questo panorama di logorroici un po’ impostati. Spero che questo piccolo gioiello riceva l’accoglienza che merita.
Andrés Barba
Mi porto dentro i miei
volti precedenti, come un albero
contiene i suoi anelli.
tomas tranströmer
Mentre scrivevo queste memorie, ho pensato a lungo se citare i nomi di quelli che hanno condiviso con me alcune tappe della mia vita. Alla fine, tranne che per i quattro poliziotti e per alcuni scrittori, ho deciso di non menzionare nessuno. Però vorrei dedicarle a quelli con cui ho vissuto l’avventura – così coinvolgente, così istruttiva – della lotta politica e, in qualche caso, della permanenza in carcere. Alcuni di loro sono scomparsi: José Serrano, Jorge León, Fernando Urdiales, Jesule Castro, Nazario Aguado, Agustín Acosta, Ramón Belategui, Juan Huertas, Jesús Reguilón, Antonio Montesino, Javier Palacín… Altri sono ancora vivi: Miguel Casado, Joaquín Castrillón, Florencio Hermosa, Ovidia Vinuesa, Alfredo Gutiérrez (Jarry), Fernando Valiño, Miguel Ángel Verdugo, Juan Carlos Valle (Karlotti), Francisco Herrera, Carmen Bolaños, Benito Hernández, Arantxa Sanz Aguirre, Gerardo Cancho, Miguel y Maribel, Carlos Vadillo,