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Parole Arse
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E-book89 pagine1 ora

Parole Arse

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Parole arse è un viaggio, o vagabondaggio, attraverso la memoria di una storia che si è fatta vita; dalla giovinezza fino all’età adulta. In questo cammino, segnato dalla malattia, Alessandro Ciammetti si racconta forse prima di tutto a se stesso cercando nelle parole il luogo della possibilità al perduto, o al mai avuto.

E così nonostante il travaglio del dolore la vita avviene: amicizie, amori, passioni, musica soprattutto, si rincorrono e ci lasciano ammirare la tenacia degli altri da noi, insegnandoci a guardare oltre i confini dello stereotipo di perfezione imposto dalla società.

Un libro che ci parla anche di ciò che perdiamo tutti noi se guardiamo alla diversità come forma di debolezza, perdendo invece la possibile conoscenza di storie e vite che celano una incredibile forza e bellezza.
LinguaItaliano
Data di uscita27 nov 2020
ISBN9791220301794
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    Anteprima del libro

    Parole Arse - Alessandro Ciammetti

    @istintomaximo

    1

    Lasagne a Colazione

    Sono le 18.00 circa, dieci anni fa, più o meno a quest’ora, aprivo gli occhi sotto un cielo di luci artificiali, luci da rianimazione, dopo più di nove ore di sonno operatorio. Il meno era fatto, lo avevano fatto mentre dormivo di un sonno costretto, su un letto di metallo.

    Stretto e freddo.

    Mi ero solo affidato, abbandonato con fede in mani esperte e sicure, grazie anche ai tifosi che erano con me, chi in trasferta, chi no, ma c’erano e li sentivo tutti attorno, vicini.

    Risveglio che non sembrava tale: alla mia destra lasagne a colazione! Aspettavo flebo o frullati vari, la famosa mela cotta ospedaliera, non una lasagna.

    Bona assai.

    Dopo questa culinaria distrazione… mi apparve il lato sinistro, il lato sinistro del mio corpo in paresi totale. Emiparesi, è questo il termine esatto. Temporanea ma totale. Questa condizione me la aspettavo, ero pronto; il neurochirurgo lo aveva preannunciato con professionale serenità, spiegandomi che sarebbe stata una delle naturali conseguenze dell’intervento chirurgico e che nel tempo avrei recuperato. Le sue parole, la sua sicurezza, quel suo modo quasi volto a semplificare il momento, avevano rasserenato anche me.

    Avrei recuperato, non tutto, ma avrei recuperato.

    Poi l’ora delle visite. La prima fu mia madre con poi gli occhi pieni di tenerezza con un contorno di rosso consumato. Dopo il verde degli occhi di mia cugina Michela, la Peste, che passava da direttore d’orchestra a battitore libero, che mi guardavano in modo strano, erano curiosi, quasi non mi riconoscevano. Dietro l’armatura verde fatta di camice, mascherina, cuffia e calzari, stava ridendo. Capimmo giorni dopo che era per la mia testa gonfia, grande come un televisore da 42 pollici e la pelle del viso ben tirata. Un lifting da gonfiore post craniotomia. Poi gli occhi dei grandi, Daniela per prima, del colore mobile che dalla preoccupazione passa alla serenità.

    Dieci anni fa, a quest’ora, lasagne a colazione e una parte del cancro via dal mio cervello. Con esso andava via anche un pezzo di me, ma ne ero ancora inconsapevole.

    Di lì a poco, di fronte a me in quella sala di terapia intensiva, stava per nascere una storia d’amore tra altri due ricoverati. Amore da rianimazione.

    Ma come ero finito in quella terapia intensiva dove gli occhi portavano a spasso camici verdi?

    Questo scrivevo a dieci anni dalla mia prima craniotomia con resezione parziale del mio oligodendroglioma, questo per ricordare la data di una nuova vita e la fine di un primo passato.

    Da quel giorno è cambiato tutto senza che si vedesse.

    Ma lo sentivo.

    È cambiato scivolando in silenzio, aumentando pian piano le distanze senza che nessuno, nel mentre, se ne rendesse conto.

    Avevo un passato ma non vivevo più lì.

    Come ero finito lì dentro e dentro una nuova casistica medica?

    2

    Che brutta fine. Per iniziare

    Sono svenuto tra la sabbia e il cielo, nell’acqua.

    Sento ancora oggi le urla di Manuela, la fidanzata da giovani, quella con cui programmi la vita. Tutta la vita, tutti i momenti. Finché non si cresce entrambi, ci si lascia, ma non ci si perde mai. Manuela che mi teneva a galla con la forza della disperazione. Sconvolta. Sento ancora quella Spinta, di cui forse racconterò, che mi ha riportato in questa Vita, mentre con l’occhio sinistro all’acqua e l’altro – come un periscopio – al cielo, colpito dal sole che spuntava da dietro il suo corpo e rimbalzava sull’acqua come un sasso appuntito. A farmi male. Ero per metà paralizzato e pensavo circolarmente: che brutta fine, che brutta fine che sto facendo, sto morendo. Che brutta fine che ho fatto . Stavo morendo tra le sue braccia, ma troppi anni prima dei giovanili programmi.

    Sono stati momenti interminabili, di ristagno, senza poter reagire e senza la voglia di reagire. Un abbandono, una rassegnazione agli eventi, alla morte che sentivo salire nell’acqua e che aveva già preso il mio braccio e la mia gamba sinistra, adesso mi invadeva i polmoni mentre le onde mi accarezzavano il corpo. Una parte di me attiva, l’altra paralizzata e un lasciarsi scivolare verso la notte. Anche il sole diventava buio, nero. Forse è questo che si vive nel trapasso: una voglia di reagire, poi la coscienza dell’impossibilità a farlo, fino all’abbandono, all’accettazione, alla serenità. In un tempo dilatato, con pensieri stretti, fatti d’immagini.

    Forse, ma non lo so perché tanto oltre non sono andato.

    Fino a sentire l’acqua ribollire dal fondo e un vortice grigio acqua di mare. Da quel vortice saliva una forza, una spinta concentrica, sofferta.

    Verso l’alto. In alto.

    Un inno alla vita, con le lacrime agli occhi.

    Al centro di quel vortice ho visto mio padre.

    C’era mio padre.

    Che mi spingeva in alto. Prima le mani ad afferrare il mio corpo poi la spinta, forte e decisa.

    Un Capitano Achab che salva Moby Dick da altri, perché era solo sua. Suo. Mi scagliava fuori da quell’imbuto che mi stava vorticosamente risucchiando a morte. Confesso che questo non l’ho mai rivelato, è stato sempre il mio segreto; l’ho solo scritto. L’ho scritto adesso. Io che ti ho capito tardi e conosciuto meglio solo quando non c’eri più.

    Poi il risveglio sulla spiaggia, con davanti agli occhi il volto barbuto di un medico che mi rassicurava; saltare in piedi come un pugile suonato, sentire "Calmo

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