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Quando vola il falco
Quando vola il falco
Quando vola il falco
E-book803 pagine9 ore

Quando vola il falco

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Info su questo ebook

Tre strade, una sola avventura: la storia affascinante di Mungo St John, uno dei personaggi più enigmatici e complessi mai creati da Wilbur Smith, in una nuova traduzione.

Robyn Ballantyne ha sempre lavorato sodo per raggiungere i suoi obiettivi. Eppure, tornata in Africa dopo vent’anni, sa che ci sono ancora tre uomini che potrebbero impedirle di ottenere ciò che vuole. Zouga, suo fratello, è l’unico parente che abbia mai conosciuto per la maggior parte della sua vita. E benché sia un valoroso soldato apprezzato da tutti, lei sa che non vedranno mai le cose allo stesso modo. Codrington, ambizioso ufficiale della Marina britannica, sogna di regalarle la vita perfetta. Ma Robyn sarà disposta a lasciarsi domare abbastanza da rispondere al suo ideale di perfezione? E poi c’è Mungo St John, famigerato trafficante di schiavi americano: quello che fa la disgusta, eppure non riesce a dimenticare ciò che c’è stato un tempo fra loro. Ora però è arrivato il momento di scegliere quale strada seguire, e sarà una decisione che influenzerà il destino di tutti loro...

LinguaItaliano
Data di uscita28 gen 2021
ISBN9788830524255
Quando vola il falco
Autore

Wilbur Smith

Considerato l’indiscusso maestro dell’avventura, è nato nel 1933 in Africa centrale e si è spento il 13 novembre 2021. Ha pubblicato più di quaranta titoli, tradotti in ventisei lingue, fra cui il ciclo ambientato nell'Antico Egitto e le celebri serie dedicate ai Courtney, ai Ballantyne e a Hector Cross. Nel 2015 ha fondato la Wilbur & Niso Smith Foundation, che promuove la cultura e la narrativa d'avventura. Fiore all'occhiello della fondazione è il prestigioso Wilbur Smith Adventure Writing Prize.

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    Anteprima del libro

    Quando vola il falco - Wilbur Smith

    1860

    Fulva e oro sotto i primi raggi del sole, l’Africa era accovacciata all’orizzonte come un leone in agguato, inaridita dal gelo della corrente del Benguela.

    Robyn Ballantyne la fissava dal parapetto della nave. Se ne stava lì da un’ora prima dell’alba, da molto prima che comparisse la terraferma. Sapeva che il continente era laggiù, percepiva la sua vasta presenza enigmatica nell’oscurità, sentiva il suo respiro caldo, secco e speziato sopra le esalazioni fredde e umidicce della corrente solcata dalla grande nave.

    Fu il suo urlo, non quello che risuonò dal colombiere, a far accorrere il capitano Mungo St John su per la scala di boccaporto dagli alloggi di poppa, mentre il resto della ciurma si affollava lungo la murata a guardare e ciarlare. Mungo St John restò aggrappato al parapetto di tek solo per qualche secondo, con gli occhi puntati sulla terraferma, prima di voltarsi per dare gli ordini con la sua voce, bassa ma tonante, che sembrava raggiungere ogni angolo della nave.

    «Pronti a virare!»

    Agitando i pugni e una corda dall’estremità annodata, Tippoo, il primo ufficiale, disperse gli uomini perché andassero a fare il loro dovere. Da due settimane, venti impetuosi e cieli bassi e cupi negavano loro la vista del sole, della luna o di qualunque altro corpo celeste con cui calcolare la posizione. Secondo la navigazione stimata, l’alto clipper avrebbe dovuto essere cento miglia nautiche più a ovest, lontano da quella costa insidiosa per i suoi pericoli sconosciuti e le sue spiagge selvagge e disabitate.

    Il capitano si era appena svegliato, con i folti capelli scuri arruffati che ondeggiavano nel vento, le guance leggermente arrossate dal sonno e anche dalla rabbia e dalla preoccupazione sotto la pelle liscia e abbronzata. Gli occhi, tuttavia, erano sereni, con il bianco delle sclere che creava un netto contrasto con il giallo screziato d’oro delle iridi. Ancora una volta, anche in quel momento di distrazione e confusione, Robyn si stupì della pura presenza fisica di quell’uomo, una caratteristica pericolosa e inquietante che le suscitava un’intensa sensazione di repulsione e attrazione insieme.

    Mungo St John si era infilato frettolosamente la camicia di lino bianco nei calzoni, lasciandola sbottonata. La pelle del petto era scura e liscia come se fosse cosparsa d’olio, punteggiata di ispidi peli neri i cui ricci crespi fecero avvampare Robyn, ricordandole fin troppo vividamente quella mattina all’inizio della traversata: la prima mattina in cui erano entrati nelle tiepide acque azzurre dell’Atlantico sotto il 35 gradi di latitudine nord, la mattina il cui ricordo per lei era stato oggetto di profondi tormenti e preghiere angosciose.

    Quella mattina, aveva udito lo sciabordio e il gorgoglio dell’acqua sul ponte sopra di sé e il rumore metallico della pompa. Aveva lasciato la scrivania improvvisata nella minuscola cabina, dove stava lavorando al suo diario, si era buttata uno scialle sulle spalle ed era salita in coperta, sbucando senza il minimo sospetto nella luce bianca e splendente del sole e poi fermandosi scioccata.

    Due marinai stavano azionando vigorosamente la pompa, dalla cui gola l’acqua cristallina del mare usciva sibilando in un getto ininterrotto. Lì sotto, nudo, Mungo St John teneva il volto e le braccia girati verso gli zampilli, che gli appiattivano i capelli neri sul viso e sul collo, schiacciandogli anche i peli sul petto e sull’addome muscoloso. Robyn era rimasta impalata a fissarlo, immobile, incapace di staccargli gli occhi di dosso. Girando la testa, i due marinai le avevano fatto un sorriso lascivo mentre continuavano a pompare l’acqua fischiante.

    Naturalmente Robyn aveva già visto il corpo nudo di un uomo, steso sul tavolo da dissezione, con la carne molle e bianca che si scollava dalle ossa, la sacca addominale squarciata e gli organi interni che si riversavano fuori come frattaglie, o tra le coperte luride dell’ospedale per le malattie infettive, sudato, maleodorante e scosso dalle convulsioni della morte imminente, ma mai così, mai così sano, vitale e irresistibile.

    Quella era una meravigliosa simmetria, un equilibrio tra tronco e lunghe gambe possenti, tra spalle larghe e vita stretta. La pelle era lucida persino dove il sole non l’aveva dorata. Quello non era un groviglio caotico di organi maschili, seminascosto da un ciuffo di peli ruvidi, osceno e vagamente disgustoso. Quella era una virilità vibrante e lei era stata sopraffatta dall’improvvisa consapevolezza del peccato originale di Eva, del serpente e delle mele, replicato in quel luogo e in quel momento, e aveva sussultato forte. Udendola, lui era uscito da sotto il getto impetuoso, scostando i capelli dagli occhi. L’aveva vista lì in piedi, incapace di muoversi o di guardare altrove, e aveva sfoderato il suo sorriso pigro e beffardo senza cercare di coprirsi, con le gocce d’acqua che gli scorrevano ancora lungo il corpo, scintillando sulla sua pelle come schegge di diamante.

    «Buongiorno, dottoressa Ballantyne» aveva mormorato. «Forse volete fare di me l’oggetto di uno dei vostri studi scientifici?»

    Solo allora Robyn era riuscita a spezzare l’incantesimo, girandosi di scatto e tornando nella sua piccola cabina puzzolente. Aveva previsto di essere assalita da un profondo turbamento non appena si fosse lasciata cadere sulle assi anguste della cuccetta, in attesa di soccombere a un senso di peccato e di vergogna, ma si era sbagliata. Invece era stata colta da un’inspiegabile contrazione del petto e dei polmoni che l’aveva lasciata senza fiato, e poi da un bruciante calore sulle guance e sul collo, dal formicolio dei sottili peli scuri sulla nuca, e dallo stesso calore in altre parti del corpo, una sensazione che l’aveva allarmata così tanto da costringerla a gettarsi frettolosamente giù dalla cuccetta e a inginocchiarsi, implorando perdono per la sua condotta indegna, per la sua bassezza e irreparabile malvagità. Era un gesto che aveva fatto mille volte nei suoi ventitré anni di vita, ma raramente si era rivelato così vano.

    Nei trentotto giorni trascorsi da quell’episodio aveva cercato di evitare quegli occhi screziati e quel sorriso provocatorio, preferendo mangiare quasi sempre in cabina nonostante il caldo insopportabile dell’equatore, quando l’ombra del secchio dietro il paravento di tela nell’angolo non era certo servito a stuzzicarle l’appetito. Solo quando era certa che il brutto tempo l’avrebbe trattenuto in coperta aveva raggiunto suo fratello e gli altri nel piccolo salone della nave.

    Guardandolo ora, mentre allontanava il clipper dalla costa ostile, sentì di nuovo quel fastidioso formicolio e si affrettò a girarsi verso la terraferma che stava dondolando oltre la prua. Il paranco ruggì tra i bozzelli e i pennoni scricchiolarono e crepitarono, con la vela che garriva e poi tornava a riempirsi con un rombo simile a quello di un cannone.

    Vedendo la costa, Robyn quasi riuscì ad accantonare i ricordi, sentendosi pervadere da uno stupore così forte che si domandò se fosse possibile che la terra natale lanciasse un richiamo così chiaro e innegabile al sangue dei propri figli.

    Sembrava incredibile che fossero passati diciannove anni da quando era una bambina aggrappata alle lunghe gonne di sua madre e aveva visto per l’ultima volta scomparire lentamente sotto l’orizzonte la grande montagna dalla sommità piatta che faceva la guardia all’estrema punta meridionale del continente. Era uno dei pochi ricordi vividi che aveva conservato di quella terra. Quasi sentiva ancora la dozzinale stoffa ruvida che le mogli dei missionari dovevano indossare e udiva i singhiozzi che sua madre si sforzava di reprimere, benché fossero così potenti da farle tremare le gambe. Rammentava chiaramente la paura e la confusione che aveva provato vedendo sua madre così angosciata e intuendo, grazie al sesto senso infantile, che la loro vita era precipitata nel caos. La sua unica certezza era l’assenza dell’alta figura che fino ad allora era stata il centro della sua breve esistenza.

    «Non piangere, tesoro» aveva sussurrato sua madre. «Rivedremo presto papà. Non piangere, piccola mia.» Ma quelle parole le avevano fatto dubitare che avrebbe mai più rivisto suo padre, perciò aveva affondato il viso nella gonna ruvida, già troppo orgogliosa per permettere agli altri di sentirla piangere.

    Come sempre era stato suo fratello Morris a consolarla, tre anni più grande di lei, un uomo di sette anni, nato come lei in Africa, sulle sponde di un remoto fiume selvaggio dal curioso nome esotico, Zouga, che gli aveva dato il suo secondo nome. Morris Zouga Ballantyne: Robyn preferiva Zouga e lo chiamava sempre così. Le ricordava l’Africa.

    Girò la testa verso il cassero di poppa ed eccolo lì, alto ma non come Mungo St John, con cui stava parlando entusiasticamente, indicando la terra color leone. I lineamenti che aveva ereditato dal padre erano marcati ma volitivi, il naso ossuto e adunco, la linea della bocca determinata, forse dura.

    Zouga guardò di nuovo nel cannocchiale e studiò il basso profilo della costa, scrutandolo con l’attenzione che dedicava a qualunque progetto, dal più piccolo al più grande, prima di abbassare lo strumento e voltarsi di nuovo verso Mungo St John. Parlavano piano. Tra i due uomini era nato un legame improbabile, un rispetto reciproco benché cauto per i pregi e i successi dell’altro. A dire il vero, era Zouga a cercare più spesso un contatto. Sempre incline ad approfittare di qualunque opportunità, aveva spremuto Mungo St John come un limone, carpendogli informazioni e resoconti. L’aveva fatto con garbo ma, da quando erano salpati dal porto di Bristol, l’aveva indotto a rivelargli quasi tutto ciò che aveva imparato in anni di commerci e viaggi lungo le coste di quel vasto continente selvaggio, annotando ogni cosa in uno dei suoi quaderni rilegati in vitello, immagazzinando conoscenze per ogni evenienza.

    Inoltre il capitano si era con cordialità impegnato a istruirlo sui misteri e sull’arte della navigazione astronomica. Il loro appuntamento quotidiano era il mezzogiorno apparente che li ritrovava sul lato soleggiato del cassero di poppa, con i sestanti d’ottone sollevati in attesa che il globo infuocato facesse capolino tra le nubi oppure, quando il cielo era terso, con gli occhi ansiosamente puntati nella sua direzione, dondolando al ritmo della nave, per tenere il sole nel campo della lente mentre calcolavano la sua altezza rispetto all’orizzonte.

    In altre occasioni interrompevano la monotonia di una lunga bordata con una sfida di tiro al bersaglio, sparando a turno a una bottiglia vuota e tappata di brandy, lanciata oltre la prua da un membro dell’equipaggio, usando una magnifica coppia di pistole da duello a percussione che Mungo St John andava a prendere nella sua cabina, ancora chiuse nella custodia foderata di velluto e caricate con cura sul tavolo da carteggio.

    Scoppiavano in risate fragorose, complimentandosi a vicenda quando le bottiglie esplodevano a mezz’aria in una pioggia di frammenti, luccicanti come schegge di diamante sotto il sole.

    Altre volte Zouga andava a prendere il nuovo fucile Sharps a retrocarica, regalo di uno dei finanziatori di quell’avventura, la Spedizione africana Ballantyne, come l’aveva denominata lo Standard, un quotidiano autorevole.

    Lo Sharps era un’arma magnifica, accurata fino all’incredibile portata di ottocento iarde, con una potenza sufficiente per abbattere un bisonte a una distanza di mille. Gli uomini che in quello stesso momento stavano eliminando le grandi mandrie di quegli animali dalla prateria americana avevano preso il nome di Sharpshooters proprio perché usavano quell’arma.

    Mungo St John legava un barile all’estremità di un cavo da ottocento iarde a mo’ di bersaglio, e lui e Zouga sparavano scommettendo uno scellino a colpo. Zouga era un tiratore provetto, il migliore del suo reggimento, ma aveva già perso più di cinque ghinee.

    Gli americani non solo fabbricavano le armi da fuoco più efficaci del mondo (John Browning aveva già brevettato un fucile a ripetizione a retrocarica, che Winchester stava trasformando nell’arma più formidabile nota all’uomo), ma erano di gran lunga anche i tiratori più abili. Questo evidenziava la differenza tra la tradizione del pioniere con il suo lungo fucile e quella della fanteria britannica ammassata, che sparava con moschetti a canna liscia in raffiche rigorosamente controllate. Mungo St John, che era americano, maneggiava sia la pistola da duello a canna lunga sia lo Sharps come se fossero un prolungamento del suo corpo.

    Dando le spalle ai due uomini, Robyn tornò a guardare la terraferma e provò una punta di sgomento vedendola già scomparire sotto la linea del freddo mare verde.

    La agognava con una disperazione silenziosa, come faceva dal giorno della sua partenza tanto tempo addietro. Tutta la sua vita in quegli anni pareva essere stata una lunga preparazione a quell’istante, così tanti ostacoli superati, ostacoli ingigantiti dal fatto di essere una donna; aveva lottato con tutte le sue forze contro la tentazione di arrendersi all’afflizione, una lotta che gli altri avevano interpretato come caparbietà e superbia, come testardaggine e impudenza.

    Aveva faticosamente acquisito un’istruzione nella biblioteca dello zio William, benché lui ce l’avesse messa tutta per scoraggiarla. «L’eccesso di studio ti darà il tormento, mia cara. Non tocca alle donne interessarsi a certe cose. Faresti meglio ad aiutare tua madre in cucina e a imparare a cucire e a lavorare a maglia.»

    «So già fare entrambe le cose, zio William.»

    In seguito, l’aiuto riluttante e contrariato di William aveva ceduto il passo solo poco per volta a un sostegno attivo, quando finalmente aveva compreso la profondità dell’intelligenza e determinazione della nipote.

    Era il fratello maggiore della madre di Robyn e l’aveva accolta con i due figli quando, quasi indigenti, erano rientrati tutti e tre insieme da quella terra lontana e selvaggia. Avevano soltanto la congrua del padre, versata dalla London Missionary Society pari a cinquanta sterline l’anno, e William Moffat non era un uomo facoltoso, bensì un medico con un piccolo ambulatorio a King’s Lynn, insufficiente per la famiglia bell’e pronta che si era ritrovato a dover mantenere.

    Naturalmente, più tardi – molti anni dopo – era arrivato il denaro, molto denaro, a detta di alcuni ben tremila sterline, dei diritti d’autore dei libri paterni, ma era stato lo zio William a proteggerli e a garantire il loro sostentamento nei periodi di magra.

    In qualche modo aveva racimolato i soldi per comprare la nomina di Zouga a ufficiale nel suo reggimento, vendendo addirittura due orologi preziosi e affrontando l’umiliante viaggio dagli strozzini di Cheapside.

    Con la somma che aveva raccolto, non poteva certo essere un reggimento prestigioso, e neppure l’esercito regolare, bensì il tredicesimo fanteria indigena Madras della Compagnia delle Indie Orientali.

    Era stato lo zio William a istruire Robyn finché non aveva raggiunto il suo stesso livello di cultura, e poi ad aiutarla e appoggiarla nel grande inganno di cui non si sarebbe mai vergognata. Nel 1854 nessun ospedale inglese avrebbe accettato una donna tra gli studenti della propria facoltà di Medicina.

    Con l’aiuto e la connivenza attiva dello zio, Robyn si era iscritta al St Matthew’s Hospital, nell’East End di Londra, sfruttando il suo patrocinio e spacciandosi per suo nipote.

    Il trucco aveva funzionato anche perché aveva dovuto cambiare nome solo da Robyn a Robin, perché era alta e aveva i seni piccoli e la voce rauca e profonda, facile da accentuare. Si era tagliata i folti capelli scuri e aveva imparato a indossare i pantaloni con tanta disinvoltura che da allora il groviglio di sottovesti e crinoline intorno alle gambe la irritava.

    I responsabili dell’ospedale avevano scoperto che era una donna solo dopo che aveva ottenuto l’abilitazione al Royal College of Surgeons all’età di ventun anni. Avevano immediatamente chiesto alla scuola di annullare il conferimento, ma la vicenda aveva fatto scandalo in tutta l’Inghilterra ed era stata resa ancora più affascinante dal fatto che si trattava della figlia del dottor Fuller Ballantyne, il famoso esploratore, viaggiatore, missionario, medico e scrittore africano. Alla fine i responsabili del St Matthew’s erano stati costretti ad arrendersi, perché Robyn Ballantyne e lo zio William avevano trovato un paladino nel piccolo e grassoccio Oliver Wicks, direttore dello Standard.

    Con l’esperienza del vero giornalista, Wicks aveva fiutato uno scoop e, in un feroce editoriale, aveva fatto appello alla tradizionale correttezza britannica, mettendo in ridicolo le sinistre insinuazioni sulle orge sessuali nelle sale operatorie e sottolineando i considerevoli risultati raggiunti da quella giovane donna brillante e sensibile nonostante gli ostacoli quasi insormontabili. La conferma dell’abilitazione, però, era stata solo un breve passo lungo la strada del ritorno in Africa, che Robyn aveva deciso di imboccare molto tempo prima.

    I venerabili amministratori della London Missionary Society si erano allarmati quando avevano ricevuto l’offerta dei servigi di una donna. Le mogli dei missionari erano una cosa, anzi erano auspicabili per proteggere i loro mariti dalle blandizie e dalle tentazioni fisiche tra i pagani svestiti, ma una missionaria era un altro paio di maniche.

    C’era un’altra complicazione che giocava pesantemente contro la domanda della dottoressa Robyn Ballantyne. Suo padre era lo stesso Fuller Ballantyne che sei anni addietro si era dimesso dalla Society prima di svanire ancora una volta nell’entroterra africano, screditandosi totalmente agli occhi degli amministratori. Questi ultimi avevano concluso che era più interessato all’esplorazione e all’affermazione personale piuttosto che a guidare i pagani ottenebrati nel seno di Gesù Cristo. In effetti, a quanto ne sapevano, in tutte le migliaia di miglia percorse durante i viaggi in Africa, Fuller Ballantyne aveva convertito una sola persona: il suo portatore di fucile.

    Anziché un emissario di Cristo, sembrava essere diventato un crociato contro la tratta degli schiavi in Africa. Aveva trasformato rapidamente la sua prima missione africana in un rifugio per schiavi fuggitivi. La missione di Koloberg sorgeva sul bordo meridionale del grande deserto del Kalahari, una piccola oasi nella natura selvaggia, con una sorgente d’acqua limpida e abbondante che sgorgava dal terreno, fondata con un enorme esborso di fondi della Society.

    Una volta che Fuller l’aveva tramutata in un rifugio per schiavi, era successo l’inevitabile. Gli originari proprietari di quei fuggitivi erano i boeri delle piccole repubbliche autonome che circondavano la missione a sud, e si erano rivolti al Commando, l’organismo responsabile della giustizia di frontiera. I suoi uomini erano arrivati a Koloberg un’ora prima dell’alba, cavalieri bruni e svelti, un centinaio, coperti di ruvidi vestiti fatti in casa, barbuti e bruciati dal sole fino ad avere il colore scuro della terra africana. I lampi abbaglianti dei loro fucili ad avancarica avevano rischiarato l’aurora e poi la paglia incendiata del tetto della missione aveva illuminato a giorno la semioscurità.

    Avevano legato schiavi, domestici e affrancati in lunghe file e li avevano condotti verso sud, lasciando Fuller Ballantyne e i suoi familiari stretti l’uno all’altro, con i pochi averi patetici che erano riusciti a salvare dalle fiamme sparpagliati ai loro piedi, e con il fumo che si alzava in mulinelli dagli edifici scoperchiati.

    Quell’episodio aveva rafforzato l’odio di Fuller Ballantyne per la schiavitù e gli aveva dato il pretesto che inconsapevolmente stava cercando, il pretesto per sbarazzarsi degli intralci che fino ad allora gli avevano impedito di rispondere al richiamo dello sconfinato territorio deserto a nord.

    La moglie e i due figlioletti erano stati rispediti in Inghilterra con una lettera per gli amministratori della London Missionary Society. Dio aveva rivelato la sua volontà a Fuller Ballantyne, ordinandogli di dirigersi verso nord, portando la parola del Signore in tutta l’Africa e diventando un missionario nomade, non più legato a una piccola stazione, bensì con tutto il continente come parrocchia.

    Gli amministratori erano rimasti molto delusi per la perdita della missione, ma erano ancora più sbigottiti all’idea di dover organizzare quella che sembrava una costosa spedizione esplorativa in una regione che, come tutto il mondo sapeva, era solo un vasto deserto, disabitato e arido a eccezione del litorale, un deserto di sabbia bruciante che si allungava verso nord per quattromila miglia fino al Mediterraneo.

    Non avevano esitato a scrivere a Fuller Ballantyne, senza sapere esattamente a quale indirizzo spedire la lettera, ma sentendo il bisogno di declinare ogni responsabilità e di esprimere una profonda preoccupazione; alla fine della missiva avevano precisato che, in seguito a una votazione, non avevano potuto concedergli più di cinquanta sterline l’anno per quelle attività altamente irregolari. Avrebbero anche potuto risparmiare le energie e l’irritazione, perché Fuller Ballantyne era partito scomparendo con un manipolo di facchini, il portatore di fucile cristiano, una Colt, un fucile a percussione, due casse di farmaci, i suoi diari e gli strumenti di navigazione.

    Era ricomparso otto anni dopo, lungo lo Zambesi, materializzandosi nell’insediamento portoghese vicino alla foce del fiume, con grande disappunto dei coloni che, dopo due secoli di occupazione, non si erano mai spinti per più di cento miglia a monte.

    Era tornato in Inghilterra e il suo libro, Un missionario nell’Africa più misteriosa, aveva suscitato enorme clamore. Ecco un uomo che aveva portato a termine la Transversa, l’attraversamento del continente via terra dalla costa occidentale a quella orientale, e che, dove avrebbe dovuto esserci il deserto, aveva invece trovato grandi fiumi e laghi, freschi e ameni altipiani erbosi, folte mandrie di animali e popoli sconosciuti. Ma soprattutto aveva visto le terribili razzie dei predoni di schiavi, e le sue rivelazioni avevano riacceso nel cuore del popolo britannico l’ardore antischiavista di Wilberforce.

    In imbarazzo per la fama istantanea del suo figliol prodigo, la London Missionary Society si era affrettata a fare ammenda. Fuller Ballantyne aveva scelto le sedi delle future missioni nell’entroterra e, spendendo migliaia di sterline, la Society aveva messo insieme gruppi di uomini e donne devoti e li aveva mandati nei luoghi selezionati.

    Il governo britannico, convinto dalla descrizione dello Zambesi come un’ampia via verso il ricco territorio interno dell’Africa, aveva nominato Fuller Ballantyne console di Sua Maestà e finanziato un’elaborata spedizione per aprire quell’arteria di commercio e civilizzazione verso l’entroterra.

    Fuller era tornato in Inghilterra per la stesura del suo libro ma, in quel periodo di ricongiungimento con la famiglia, la moglie e i figli l’avevano visto raramente, quasi come quando era nel cuore dell’Africa. Quando non era chiuso nello studio dello zio William a scrivere l’epopea dei suoi viaggi, era a Londra a dare il tormento al ministero degli Esteri o agli amministratori della London Missionary Society. E quando aveva ottenuto da queste fonti ciò di cui aveva bisogno per tornare in Africa, aveva cominciato a viaggiare per l’Inghilterra tenendo conferenze a Oxford o pronunciando sermoni dal pulpito della cattedrale di Canterbury.

    Poi all’improvviso se n’era andato di nuovo, portando con sé la loro madre. Robyn avrebbe ricordato per sempre la sensazione dei suoi baffi ispidi quando si era chinato a salutarla per la seconda volta. Nella sua mente, suo padre e Dio erano più o meno la stessa persona, onnipotenti e infallibili, e il suo dovere verso entrambi era una cieca e rassegnata adorazione.

    Anni dopo, quando le missioni indicate da Fuller Ballantyne si erano rivelate trappole mortali, quando i missionari sopravvissuti erano tornati alla civiltà dopo aver perso colleghi e consorti a causa della febbre, della carestia, degli animali selvatici e degli uomini selvaggi che erano andati a salvare, l’astro di Fuller Ballantyne aveva iniziato a tramontare.

    La spedizione del ministero degli Esteri sullo Zambesi, guidata da Ballantyne, aveva vacillato e fallito sulle terribili rapide e sulle vertiginose cascate della gola di Cabora Bassa, attraverso la quale il fiume scorreva fragoroso, scendendo di mille piedi in venti miglia. Gli uomini si domandavano come Ballantyne, che si era vantato di aver seguito lo Zambesi dalla sorgente al mare, avesse potuto ignorare l’esistenza di un ostacolo così formidabile alla realizzazione dei suoi sogni. Avevano iniziato a dubitare delle altre sue affermazioni, mentre il ministero degli Esteri, avaro come sempre, si era molto arrabbiato per lo spreco di fondi e gli aveva revocato la carica di console.

    La London Missionary Society gli aveva spedito un’altra delle sue verbose lettere, pregandolo di limitare in futuro le sue attività alla conversione dei pagani e alla diffusione della parola di Dio.

    Per tutta risposta, Fuller Ballantyne aveva dato le dimissioni, facendo così risparmiare alla Society cinquanta sterline l’anno. Allo stesso tempo aveva scritto una lettera di incoraggiamento ai suoi due figli, esortandoli ad avere fede e forza d’animo, e inviato al suo editore il manoscritto in cui rivendicava la sua gestione della spedizione. Poi aveva preso le poche ghinee rimaste dagli ingenti diritti d’autore degli altri libri ed era svanito di nuovo nell’entroterra africano. Era accaduto otto anni prima, e da allora nessuno aveva più avuto sue notizie.

    E ora ecco la figlia di quell’uomo, già quasi famigerata quanto suo padre, che pretendeva di essere ammessa nella Society come missionaria attiva.

    Ancora una volta era stato lo zio William ad aiutare la nipote, il caro, mite e borbottante zio William con i suoi occhialini e la sua massa grigia e spettinata di capelli indomabili. Si era presentato con lei davanti al consiglio d’amministrazione e aveva ricordato a quei signori che il nonno di Robyn, Robert Moffat, era uno dei missionari di maggiore successo in Africa, con decine di migliaia di conversioni al suo attivo. Anzi, lavorava ancora a Kuruman e di recente aveva pubblicato un dizionario della lingua tswana. Anche Robyn era coscienziosa e devota, con un’ottima formazione medica e una buona conoscenza delle lingue africane, che le erano state insegnate dalla compianta madre, figlia dello stesso Robert Moffat. Inoltre, grazie alla riverenza riservata al suddetto Robert Moffat persino dal più bellicoso dei re africani, Mzilikazi dei ndebele – o, come li chiamavano alcuni, matabele – la nipote sarebbe stata accolta senza problemi dalle tribù.

    Gli amministratori non avevano battuto ciglio.

    Poi lo zio William aveva osservato che Oliver Wicks, il direttore dello Standard che aveva difeso la ragazza dal tentativo dei responsabili del St Matthew’s Hospital di privarla della sua abilitazione in medicina, sarebbe stato interessato a sondare anche le ragioni della Society nel rifiutare la richiesta di ammissione della dottoressa.

    I membri del consiglio avevano raddrizzato la schiena e ascoltato con grande attenzione, parlottando e accettando la domanda di Robyn. Infine l’avevano assegnata a un altro movimento missionario, che a sua volta l’aveva spedita nelle degradate zone industriali dell’Inghilterra settentrionale.

    * * *

    Era stato Zouga a trovare il modo di tornare in Africa.

    Era rientrato dall’India in congedo, un uomo dalla carriera sfolgorante, già un maggiore dell’esercito indiano, promozione che aveva conquistato sul campo, con la reputazione di essere – per la sua età – un abile soldato e amministratore militare.

    Tuttavia era insoddisfatto del proprio destino quanto Robyn. Come il padre, erano entrambi lupi solitari che mal sopportavano l’autorità e l’irreggimentazione. Nonostante il promettente esordio della sua carriera militare, Zouga era consapevole di essersi già fatto dei nemici potenti in India e aveva cominciato a dubitare che il suo futuro sarebbe stato laggiù. Come Robyn, era ancora in cerca di qualcosa e, dopo la lunga separazione, si erano salutati con un calore che raramente avevano dimostrato durante l’infanzia.

    Zouga aveva portato la sorella a cena al Golden Boar. L’ambiente era così diverso da quelli che Robyn frequentava di solito da indurla ad accettare un secondo bicchiere di chiaretto e a diventare allegra e frizzante.

    «Perdio, sorellina, sei davvero graziosa, sai?» aveva detto Zouga alla fine. Aveva preso la brutta abitudine di bestemmiare ma, nonostante lo sgomento iniziale, poi Robyn si era abituata abbastanza in fretta. Aveva sentito di molto peggio nei quartieri malfamati dove lavorava. «Sei troppo in gamba per passare la vita con quelle vecchie befane» aveva proseguito suo fratello.

    L’atmosfera era cambiata all’improvviso, e finalmente Robyn era riuscita a chinarsi verso di lui e a dar voce a tutte le sue frustrazioni. Zouga l’aveva ascoltata pazientemente, posando la mano sulla sua e spingendola a continuare, a voce bassa ma con determinazione incrollabile.

    «Devo tornare in Africa. Altrimenti muoio. Ne sono certa. Appassisco e muoio.»

    «Buon Dio, sorellina, perché proprio l’Africa?»

    «Perché ci sono nata, perché il mio destino è laggiù… e perché il papà è lì da qualche parte.»

    «Ci sono nato anch’io.» Zouga aveva sorriso, addolcendo la linea dura della bocca. «Ma non so quale sarà il mio destino. Non mi dispiacerebbe tornare per andare a caccia, naturalmente, ma quanto a nostro padre… Non credi che abbia sempre e solo pensato a se stesso? Non riesco a capire come tu possa provare ancora tutto questo affetto per lui.»

    «È diverso dagli altri uomini, Zouga. Non puoi giudicarlo in base ai soliti criteri.»

    «Ci sono molte persone che potrebbero concordare su questo punto» aveva mormorato Zouga, asciutto. «I signori della LMS e del ministero degli Esteri… Ma come padre?»

    «Io gli voglio bene!» aveva insistito Robyn in tono di sfida. «Dopo Dio, è la persona che amo di più.»

    «Ha ucciso nostra madre, lo sai.» Zouga aveva stretto le labbra nella consueta linea truce. «L’ha condotta sullo Zambesi nella stagione della febbre spingendola verso una morte certa, come se le avesse puntato una pistola alla testa.»

    Dopo un breve silenzio risentito, Robyn aveva ammesso: «Non è mai stato un padre né un marito. Ma come visionario, come apripista, come guida…».

    Ridendo, Zouga le aveva stretto la mano.

    «Hai ragione, sorellina!»

    «Ho letto i suoi libri e tutte le sue lettere, quelle che ha scritto alla mamma o a noi, e so che il mio posto è laggiù. In Africa, con papà.»

    Sollevando la mano dalla sua, Zouga si era accarezzato con cura le folte basette. «Sei sempre riuscita a trasmettermi entusiasmo…» Poi, partendo per la tangente: «Hai sentito che hanno trovato i diamanti nel fiume Orange?». Alzando il bicchiere, aveva esaminato attentamente il sedimento sul fondo. «Siamo molto diversi, noi due, ma per certi aspetti molto simili.» Si era versato dell’altro vino, continuando distrattamente: «Ho accumulato dei debiti, sorellina».

    Quella parola la raggelò. Le avevano insegnato a temerla fin da piccola.

    «Quanti?» aveva mormorato.

    «Duecento sterline.» Zouga aveva scrollato le spalle.

    «Così tante?» si era allarmata Robyn. «Non hai giocato d’azzardo, vero?»

    Un’altra parola di cui avere paura.

    «Non hai giocato d’azzardo, vero?» aveva ripetuto.

    «A essere sincero, sì.» Zouga aveva riso. «E meno male, altrimenti sarei sotto di mille ghinee.»

    «Vuoi dire che giochi e… che vinci?» Robyn, affascinata, aveva sentito l’orrore affievolirsi leggermente.

    «Non sempre, ma quasi.»

    Robyn l’aveva studiato attentamente, forse per la prima volta. Zouga aveva solo ventisei anni, ma possedeva la presenza e l’aplomb di un uomo di dieci anni più vecchio. Era già un tenace soldato professionista, temprato dalle schermaglie sul confine dell’Afghanistan, dove il suo reggimento aveva passato quattro anni. Robyn sapeva che c’erano stati scontri crudeli contro le agguerrite tribù delle colline e che Zouga si era distinto. La rapidità della sua promozione ne era la prova.

    «Allora, come ti sei indebitato?»

    «Quasi tutti i miei colleghi ufficiali, persino i miei sottoposti, hanno dei beni personali. Ormai sono un maggiore, devo avere un certo stile. Le battute di caccia, il tiro a segno, i conti della mensa, i pony per il polo…» Un’altra scrollata di spalle.

    «Riuscirai mai a saldare il debito?»

    «Potrei sposare una donna ricca.» Zouga aveva sorriso. «Oppure trovare i diamanti.»

    Aveva sorseggiato il vino e, scivolando sulla sedia senza guardarla, aveva continuato in tono sommesso.

    «L’altro giorno stavo leggendo il libro di Cornwallis Harris. Ti ricordi i grossi animali selvatici che vedevamo quando vivevamo a Koloberg?»

    Robyn aveva fatto cenno di no con la testa.

    «Certo, eri solo una bambina. Ma io sì. Ricordo le mandrie di antilopi e di gnu sulla pista che scendeva verso il Capo di Buona Speranza. Una notte c’era un leone, l’ho visto chiaramente nella luce del fuoco da campo. Harris descrive le sue spedizioni di caccia fino al Limpopo. Nessuno si è mai avventurato oltre, tranne papà, naturalmente. Molto meglio che cacciare fagiani o antilopi cervicapra, maledizione. Sapevi che grazie al libro Harris ha guadagnato quasi cinquemila sterline?»

    Zouga aveva spinto via il bicchiere, raddrizzandosi sulla sedia e prendendo un sigaro dalla custodia d’argento. Mentre lo preparava e lo accendeva, aveva corrugato pensosamente la fronte.

    «Tu vuoi andare in Africa per ragioni spirituali. Probabilmente io ho bisogno di andarci per ragioni molto più valide, per il sangue e per il denaro. Ti faccio una proposta. La Spedizione Ballantyne!» Aveva sollevato il bicchiere verso di lei.

    Robyn era scoppiata in una risata incerta, pensando che scherzasse, ma aveva alzato a sua volta il bicchiere, che era ancora quasi pieno. «Ci sto. Ma come? Zouga, come arriviamo fin là?»

    «Come si chiama quel giornalista?»

    «Wicks. Oliver Wicks. Ma perché dovrebbe aiutarci?»

    «Mi farò venire in mente qualcosa.»

    Robyn ricordava bene che anche da bambino aveva sempre perorato le sue cause con eloquenza e capacità di persuasione.

    «Potresti farcela.»

    Avevano bevuto e, quando Robyn aveva abbassato il bicchiere, si era sentita felice come non ricordava di esserlo mai stata in vita sua.

    * * *

    Erano trascorse altre sei settimane prima che rivedesse Zouga, che si era materializzato tra la ressa della stazione di London Bridge mentre Robyn scendeva dal vagone. Torreggiava sopra la folla, con il grande cappello a cilindro in testa e la giacca a tre quarti che gli si allargava sulle spalle.

    «Sorellina!» l’aveva chiamata, ridendo e prendendola in braccio. «Partiamo… Partiamo davvero.»

    Aveva chiesto al vetturino della sua carrozza di aspettarli, e l’uomo aveva frustato i cavalli non appena i passeggeri erano saliti.

    «La London Missionary Society non ci darà nemmeno un centesimo» aveva detto Zouga, ancora con il braccio intorno alle spalle della sorella mentre il veicolo sobbalzava rumorosamente sull’acciottolato. «Ho chiesto loro cinquecento ghinee, e per poco non gli è venuto un colpo. Ho avuto l’impressione che preferiscano che papà resti smarrito nell’Africa più nera e che sarebbero disposti a sborsare la stessa cifra affinché rimanga dov’è.»

    «Sei andato dagli amministratori?» aveva domandato Robyn.

    «Ho giocato prima la mano perdente.» Zouga aveva sorriso. «La successiva era Whitehall. Sono riuscito addirittura a parlare con il primo segretario. È stato gentilissimo, mi ha invitato a pranzo al Travellers ed era sinceramente dispiaciuto di non poterci offrire un aiuto economico. Si ricordano fin troppo bene il fiasco di papà sullo Zambesi, ma mi ha dato delle lettere di referenze. Una decina, indirizzate a ogni persona possibile e immaginabile: al governatore di Cape Colony, a Kemp, l’ammiraglio di Cape Town, e a tutti gli altri.»

    «Con le lettere non andremo lontano.»

    «Poi ho fatto un salto dal tuo amico giornalista. Ometto straordinario. Furbo come una volpe. Gli ho detto che vogliamo andare in Africa a cercare papà, ed è saltato su battendo le mani come un bambino a uno spettacolo di burattini.» Zouga l’aveva abbracciata più forte. «A dire il vero, ho usato spudoratamente il tuo nome… e ha funzionato. Wicks avrà tutti i diritti di esclusiva sui nostri diari e i diritti di pubblicazione di entrambi i libri.»

    «Entrambi i libri?» Staccandosi, Robyn l’aveva guardato in faccia.

    «Entrambi.» Zouga aveva sorriso. «Il tuo e il mio.»

    «Devo scrivere un libro?»

    «Certo. Il resoconto della spedizione dal punto di vista di una donna. Ho già firmato il contratto per tuo conto.»

    Robyn aveva riso, ma era incredula. «Stai correndo troppo.»

    «Il piccolo Wicks mi ha dato cinquecento ghinee, e la voce successiva della lista era la Società per l’abolizione della tratta degli schiavi. Con loro è stato un gioco da ragazzi. Sono finanziati da Sua Altezza Reale, che ha letto i libri di papà. Dovremo informarli sulla situazione della tratta all’interno del continente, a nord del tropico del Capricorno, e ci hanno offerto altre cinquecento ghinee.»

    «Sei un genio.»

    «Poi è stato il turno della Worshipful Company of London Merchants Trading into Africa. Negli ultimi cent’anni hanno concentrato tutte le loro attività sulla costa occidentale, così li ho convinti che necessitano di una prospezione di quella orientale. Mi hanno nominato loro agente, incaricandomi di esaminare il mercato dell’olio di palma, del copale, del rame e dell’avorio, e mi hanno dato le terze e ultime cinquecento ghinee, più un fucile Sharps in omaggio.»

    «Millecinquecento ghinee» aveva sussurrato Robyn.

    Zouga aveva annuito. «Torneremo a casa in grande stile.»

    «Quando?»

    «Ho prenotato il passaggio su un clipper mercantile americano. Salpiamo da Bristol tra sei settimane, per il Capo di Buona Speranza e Quelimane, nel Mozambico. Ho scritto per chiedere un’aspettativa di due anni al reggimento. Tu dovrai fare la stessa cosa con la LMS.»

    * * *

    Poi era successo tutto con una rapidità incredibile. Gli amministratori della LMS, forse sollevati all’idea di non dover pagare la traversata a Robyn né le spese per il suo trasferimento nell’entroterra africano, erano stati così generosi da decidere di continuare a pagarle lo stipendio durante la sua assenza e avevano accennato alla promessa di rivedere la sua posizione al termine di quel periodo. Se Robyn si fosse dimostrata capace, avrebbe ottenuto un posto permanente in Africa. Era più di quanto la giovane si fosse mai aspettata, e si era dedicata anima e corpo ad aiutare Zouga con i preparativi per la partenza.

    C’erano così tante cose da fare che sei settimane erano bastate a malapena, ed era sembrato che fosse passato solo qualche giorno prima che l’enorme quantità di attrezzature per la spedizione venisse trasferita nelle stive del grande ed elegante clipper di Baltimora.

    La Huron si era rivelata veloce come sembrava, l’ennesima scelta azzeccata di Zouga Ballantyne, e con l’esperta navigazione di Mungo St John aveva proceduto spedita in direzione ovest prima di provare ad attraversare la zona delle calme equatoriali nel suo punto più stretto. Non erano rimasti in bonaccia nemmeno un giorno e, non appena superato il ventinovesimo di longitudine ovest, il capitano aveva virato a babordo per sfruttare gli alisei sudorientali. La Huron aveva proseguito verso sud, preceduta dai pesci volanti e sferzata dalle raffiche, che le avevano dato tregua solo quando l’Ilha da Trindade si era profilata all’orizzonte. Il vento nordoccidentale li aveva aggrediti ululando e il clipper era fuggito, sotto cieli bassi, cupi e nuvolosi che giorno dopo giorno avevano nascosto il sole, la luna e le stelle, finché non si era quasi scagliato sulla costa occidentale dell’Africa a duecento miglia dalla sua destinazione, il Capo di Buona Speranza.

    «Secondo!» chiamò Mungo St John con la sua voce chiara ed echeggiante quando la Huron virò per sfruttare il vento, allontanandosi velocemente dalla terraferma.

    «Capitano!» urlò Tippoo ai piedi dell’albero maestro, una grande esplosione di suono dal petto taurino.

    «Prendete il nome della vedetta nel colombiere.»

    Tippoo chinò la grossa testa sul collo robusto, come un lottatore che incassa un pugno, e alzò lo sguardo verso l’albero infossando gli occhi nelle pesanti pieghe di carne.

    «Ancora venti minuti, e ci avrebbe fatto finire sulla spiaggia.» Mungo St John parlò con voce fredda, micidiale. «Lo farò mettere sulla grata prima di sera e daremo un’occhiata alla sua spina dorsale.»

    Tippoo si leccò le labbra carnose senza volerlo e Robyn, lì accanto, fu assalita dalla nausea. C’erano già state tre fustigazioni durante la traversata, e sapeva cosa aspettarsi. Tippoo era mezzo arabo e mezzo africano, un gigante color miele con la testa rasata e coperta da una ragnatela di minuscole e pallide cicatrici, riportate durante mille scontri violenti. Indossava una morbida tunica ricamata a collo alto, ma gli avambracci che sporgevano dalle maniche ampie avevano il diametro delle cosce di una donna.

    Robyn si affrettò a girarsi verso Zouga mentre suo fratello percorreva il ponte nella sua direzione.

    «Abbiamo dato una bella occhiata alla terraferma, sorellina. Se questo vento tiene, raggiungeremo la baia di Table tra cinque giorni.»

    «Zouga, non puoi intercedere con il capitano?» domandò Robyn, cogliendolo di sorpresa. «Vuole frustare quel povero diavolo.»

    «E fa bene, maledizione» ringhiò Zouga. «Per poco non ci ha fatti schiantare contro gli scogli.»

    «Non puoi fermarlo?»

    «Non mi sognerei mai di interferire con i suoi metodi disciplinari, né permetterò a te di farlo.»

    «Non hai un briciolo di umanità?» ribatté Robyn gelida, ma con due rabbiose chiazze rosse sulle guance e uno sguardo stizzito nei limpidi occhi verdi. «Dici di essere cristiano.»

    «Ma quando lo dico, parlo sottovoce, mia cara.» Zouga scelse la risposta che, ne era certo, l’avrebbe irritata di più. «E non lo sbandiero in ogni momento della conversazione.»

    I loro litigi erano sempre improvvisi come temporali estivi sul veld africano e altrettanto spettacolari.

    Mungo St John avanzò per appoggiare il gomito sul parapetto del cassero, con un lungo sigaro avana di tabacco nero grezzo tra i denti candidi. La guardò in silenzio con quegli occhi gialli screziati dall’espressione beffarda, mandandola ancora di più su tutte le furie, finché Robyn non sentì la propria voce farsi stridula e, girando le spalle al fratello, si scagliò contro di lui.

    «L’uomo che avete frustato la settimana scorsa potrebbe restare menomato a vita» urlò.

    «Dottoressa Ballantyne, volete che Tippoo vi prenda e vi chiuda nella vostra cabina finché non avrete ritrovato la compostezza e la buona creanza?»

    «Non potete farlo» lo fulminò.

    «Posso eccome, ve lo assicuro. Questo e molto altro.»

    «Ha ragione» bisbigliò Zouga. «Su questa nave può fare quasi tutto ciò che vuole.» Le posò la mano sul braccio. «Ora calmati, sorellina. Quell’uomo se la caverà perdendo solo qualche brandello di pelle.»

    Robyn si accorse di ansimare per la collera e il senso di impotenza.

    «Se siete schizzinosa, dottoressa, vi esonero dal presenziare alla punizione» continuò Mungo St John in tono di scherno. «Dobbiamo tenere in considerazione il fatto che siete una donna.»

    «In vita mia non ho mai chiesto a nessuno di farlo.» Robyn si sforzò di dominare la rabbia, poi si scrollò di dosso la mano del fratello e si allontanò da entrambi.

    Camminò con la schiena rigida e le spalle dritte verso la prua, cercando di ostentare un distacco dignitoso, ma il movimento della nave la faceva barcollare e quelle maledette gonne le svolazzavano intorno alle gambe. Rendendosi conto di aver imprecato mentalmente, si ripromise di chiedere perdono, ma non in quel momento. Anzi, aggravò il suo peccato dicendo: «Maledizione a voi, capitano Mungo St John. Andate all’inferno!».

    Si fermò sulla prua, e il vento le sfilò i capelli dallo chignon sulla nuca e glieli soffiò sul viso. Erano i capelli folti e scuri di sua madre, lisci come seta, con riflessi ruggine e castani, e quando un pallido raggio di luce verdognola riuscì a squarciare le nubi, le formarono un’aureola splendente intorno alla piccola testa proporzionata.

    Puntò lo sguardo colmo d’ira davanti a sé, senza notare la bellezza diabolica della scena che la circondava. Le fredde acque verdi, velate da banchi di foschia, si aprivano e si chiudevano intorno alla nave come tende perlacee. Fili di bruma si alzavano dalle vele e dai pennoni come se il clipper stesse bruciando.

    Qua e là, il mare sobbolliva e si scuriva, perché quelle acque erano ricche di microrganismi, indispensabili per la sopravvivenza dei vasti banchi di sardine che salivano in superficie per mangiare e, a loro volta, per essere mangiate dagli stormi di urlanti uccelli marini che si avventavano su di loro dall’alto, colpendo l’acqua con vaporose nuvolette di schizzi.

    Un banco di nebbia più fitta strinse la nave nella sua morsa umida e fredda, perciò, quando Robyn lanciò un’occhiata dietro le spalle, a malapena riuscì a distinguere le figure spettrali del capitano e di suo fratello sul cassero.

    Poi, con la stessa repentinità, si trovarono di nuovo in mare aperto, sotto il cielo terso. Le nuvole che li avevano accompagnati per tutte quelle settimane si rincorrevano verso sud mentre il vento rinforzava e iniziava rapidamente a soffiare verso est, sollevando le creste delle onde in aggraziate piume di struzzo fatte di ricci spumosi.

    In quel momento, Robyn vide l’altra nave. Era sorprendentemente vicina, e la giovane aprì la bocca per urlare, ma una decina di altre voci precedette la sua.

    * * *

    «Nave in vista!»

    «Virate a babordo.»

    Robyn era abbastanza vicina per distinguere il fumaiolo alto e sottile tra l’albero maestro e quello di mezzana. Lo scafo era verniciato di nero, con una riga rossa sotto i portelli dei cannoni, cinque su ciascun lato e aveva un’aria sinistra. Le vele non erano di un bianco scintillante come quelle della Huron, bensì imbrattate di un grigio sporco dalle emissioni del fumaiolo.

    Mungo St John puntò il cannocchiale in quella direzione. Le caldaie erano spente, dalla bocca del fumaiolo non usciva il minimo calore. Era sospinta soltanto dalle vele.

    «Tippoo!» chiamò sottovoce, e la massiccia figura del primo ufficiale sembrò comparire all’istante come per magia.

    «L’avete mai vista prima?»

    Tippoo grugnì, girando la testa per sputare oltre il parapetto sottovento. «Inglese» disse. «L’ho vista l’ultima volta alla baia di Table otto anni indietro. Si chiama Black Joke

    «Squadriglia di Cape Colony?»

    Tippoo grugnì di nuovo. In quell’istante la cannoniera poggiò bruscamente e, allo stesso tempo, la bandiera si srotolò dal colombiere. Il bianco abbagliante e lo scarlatto vivace della sua insegna intimavano un alt a cui tutto il mondo aveva imparato a obbedire senza indugio. Solo le navi di un’unica nazione della terra non erano tenute a fermarsi davanti a quel segnale. La Huron era immune. Sarebbe stato sufficiente issare la bandiera a stelle e strisce, e anche quella molesta rappresentante della Royal Navy sarebbe stata costretta a rispettarla.

    Però Mungo St John fece un rapido ragionamento. Sei giorni prima di levare l’ancora a Baltimora, nel maggio del 1860, Abramo Lincoln era stato candidato alla presidenza degli Stati Uniti d’America. Se fosse stato eletto, come sembrava assai probabile, avrebbe ricevuto l’investitura agli inizi dell’anno nuovo, e a quel punto una delle sue prime iniziative sarebbe stata la concessione alla Gran Bretagna dei privilegi pattuiti con il trattato di Bruxelles, compreso il potere di perquisizione delle navi americane in alto mare, che i suoi predecessori avevano regolarmente negato.

    Di lì a poco, forse prima di quanto pensasse, Mungo St John avrebbe dovuto gareggiare seriamente contro una di quelle navi della squadriglia di Cape Colony. Era un’opportunità piovuta dal cielo per misurare le capacità del clipper e di osservare quelle della rivale.

    Si diede un’ultima occhiata intorno, registrando il mare, la spuma sollevata dalle raffiche, i bianchi triangoli di tela e il minaccioso scafo nero sottovento. Subito dopo decidere fu più facile. Insieme al fischio del vento arrivò un colpo sordo, e un lungo pennacchio di fumo uscì da uno dei cannoni di prua, pretendendo immediata obbedienza.

    Mungo St John sorrise. «Bastarda insolente!» Poi, a Tippoo: «Vediamo come se la cavano a veleggiare». E al timoniere, sottovoce: «Orzate». Infine, quando la Huron strapoggiò con il vento in poppa, iniziando ad allontanarsi dall’altra nave: «Mollate tutti i terzaroli, signor primo ufficiale. Spiegate il trinchetto e la vela maestra, issate coltellacci e controvelacci, dateci dentro con lo straglio… sì, e anche con il controfiocco. Perdio, faremo vedere a quella sudicia bagnarola inglese a carbone come si costruiscono le navi a Baltimora!».

    Nonostante la rabbia, Robyn fu ammaliata dal modo in cui l’americano governava la sua nave. Con l’equipaggio che si distribuiva sui pennoni fino alle prese dei terzaroli, le vele di maestra si gonfiarono in tutta la loro estensione, di un bianco accecante sotto la luce del sole, e poi in alto, in apparenza alla base stessa dello struggente cielo azzurro, nuove vele dalle forme sconosciute si aprirono come semi di cotone troppo maturi, e il lungo scafo elegante obbedì agli ordini senza esitazione.

    «Perdio, è una scheggia» esclamò Zouga, ridendo entusiasta mentre la Huron fendeva le creste dei flutti atlantici, e spinse via sua sorella dalla prua al fine di anticipare le prime ondate verdi che si sarebbero abbattute sui ponti.

    Si aprirono altre vele, e altre ancora, e i grossi alberi cominciarono a curvarsi come archi tesi sotto la pressione insopportabile di migliaia di piedi quadrati di tela. Ora il clipper parve volare, decollando dalla cresta di ciascuna onda e precipitando nel ventre della successiva con uno schianto che fece tremare le ordinate e stridere i denti dell’equipaggio.

    «Calate il solcometro, signor primo ufficiale» urlò Mungo St John e, quando Tippoo rispose: «Un po’ più di sedici nodi, capitano», eruppe in una risata fragorosa, dirigendosi verso il parapetto di poppa.

    La cannoniera stava precipitando di poppa come se fosse ferma, anche se aveva spiegato ogni pollice delle vele grigie. I suoi cannoni avrebbero faticato a colpire l’avversaria.

    Ancora una volta, per un attimo, la polvere da sparo sbuffò sulla prua, e ora sembrò che fosse qualcosa di più di un semplice avvertimento, perché Mungo St John vide cadere il proiettile, che centrò la cresta di un’onda due lunghezze a poppavia, rimbalzando sull’acqua e affondando quasi sottobordo dell’alta murata della Huron.

    «Capitano, state mettendo in pericolo la vita dell’equipaggio e dei passeggeri.»

    La voce lo bloccò, inducendolo a voltarsi verso la giovane donna al suo fianco e a inarcare un folto sopracciglio nero con una garbata espressione interrogativa.

    «Quella è una nave da guerra inglese, signore, e noi ci stiamo comportando come criminali. Ora stanno sparando proiettili veri. Non avete altra scelta se non mettervi alla cappa, o almeno issare la bandiera.»

    «Credo che mia sorella abbia ragione, capitano St John.» Zouga aveva affiancato Robyn. «Nemmeno io capisco il vostro comportamento.»

    La Huron vacillò violentemente su un maroso più grande, spinta a tutta forza dall’eccezionale spiegamento di vele. Perdendo l’equilibrio, Robyn cadde contro il petto del capitano, ma si staccò immediatamente, avvampando per il contatto.

    «Questa è la costa dell’Africa, maggiore Ballantyne. Nulla è come sembra. Qui solo uno stupido prenderebbe una nave armata straniera per quello che è. Ora, se voi e la buona dottoressa volete scusarmi, devo occuparmi dei miei doveri.»

    Avanzò per guardare giù verso il ponte di coperta, valutando l’umore dell’equipaggio e il forte abbrivio del clipper. Sganciò l’anello portachiavi dalla cintura e lo gettò a Tippoo. «All’armadietto delle armi, signor primo ufficiale. Una pistola per voi e una per il secondo ufficiale. Sparate a qualunque marinaio cerchi di intralciare la disposizione delle vele.» Aveva fiutato la paura che aveva assalito l’equipaggio. Quasi nessuno di loro aveva mai visto una nave governata in quel modo, perciò avrebbero benissimo potuto tentare di diminuire la velatura temendo che il clipper colasse a picco.

    In quell’istante, la Huron immerse la prua nell’Atlantico, imbarcando un ruggente e solido muro d’acqua verde. Uno degli uomini sull’albero di gabbia non fu abbastanza veloce ad aggrapparsi alle griselle. L’ondata lo travolse e lo scaraventò lungo il ponte, finché non sbatté contro la murata e si accasciò accanto al parapetto come un mucchietto di alghe sradicate su una spiaggia sferzata dalla tempesta.

    Due dei suoi compagni cercarono di raggiungerlo, ma l’onda successiva li respinse, immergendoli fino alla vita e poi riversandosi in un tonante torrente bianco oltre la murata. Quando si ritirò, il marinaio era scomparso e il ponte era vuoto.

    «Mr Tippoo, attenzione ai controvelacci. Non sono tesati a dovere.»

    Mungo St John tornò a voltarsi verso il parapetto di poppa, ignorando lo sguardo inorridito e accusatore di Robyn Ballantyne.

    Lo scafo della cannoniera britannica era già sparito all’orizzonte e le vele si scorgevano appena tra le barbe grigie delle onde atlantiche, ma d’un tratto Mungo St John si accorse che qualcosa stava cambiando e si affrettò a sfilare il cannocchiale dalla fessura sotto il tavolo da carteggio. C’era una bella linea nera, come tracciata con l’inchiostro di china, che si estendeva per un breve tratto dal minuscolo cono delle vele della nave inglese lungo l’orizzonte irregolare.

    «Fumo! Finalmente hanno acceso la caldaia» borbottò, mentre Tippoo compariva al suo fianco con le pistole infilate nella cintura.

    «Un’elica. Non ci prende.» Il primo ufficiale fece sì con la testa rotonda e rasata.

    «No, non con il vento in poppa durante una burrasca» concesse Mungo St John. «Ma vorrei metterla alla prova nell’andatura di bolina. Ora cazziamo, signor primo ufficiale, di nuovo mure a sinistra. Voglio vedere se riesco a superarla sopravvento tenendomi fuori dalla gittata dei cannoni.»

    La manovra inaspettata prese totalmente alla sprovvista il comandante della cannoniera, che impiegò qualche minuto per cambiare rotta nel tentativo di tagliare il lato più corto del triangolo e impedire alla Huron di trovare il vento a favore.

    Il clipper lo oltrepassò a tutta velocità, con i pennoni alati abbasso, schivando i proiettili e navigando il più possibile di bolina stretta. Il comandante inglese provò a colpire la prua inclinata senza neppure vedere i proiettili che cadevano, quindi si decise a seguirla controvento, e i difetti di progettazione e costruzione della cannoniera diventarono evidenti come quando entrambe le navi si erano mosse con il vento in poppa.

    Per sistemare la pesante caldaia e i macchinari indispensabili per azionare la grande elica di bronzo sotto la volta di poppa, era stato necessario trovare un compromesso con la progettazione degli alberi e la quantità di vele trasportabile.

    Dopo cinque miglia fu chiaro che, con tutte le vele spiegate e le caldaie che vomitavano un denso fumo untuoso sopra la poppa, la Black Joke non era in grado di viaggiare controvento come l’alta e bellissima nave che la precedeva. Scarrocciava costantemente sottovento e, benché la differenza di velocità non fosse palese come quando navigavano con il vento in poppa, la Huron era in netto vantaggio.

    Il comandante della cannoniera strinse sempre di più il vento, cercando disperatamente di tenere il clipper nella rotta della sua prua ma, prima che avesse il tempo di farlo, le vele iniziarono a tremare e a fileggiare.

    Esasperato, le ammainò, lasciando gli alberi nudi e affidandosi solo alla spinta della caldaia a vapore, risalendo il vento molto di più di quanto potesse fare la Huron. Tuttavia la cannoniera rallentò quando l’elica non ricevette più aiuto dalle vele. Anche se gli alberi e il sartiame erano nudi, le raffiche vi fischiavano e vi mugghiavano attraverso, trasformandosi in una grande ancora galleggiante che la rallentava ulteriormente mentre la Huron volava.

    «Un congegno bastardo.» Mungo St John la osservò attentamente, valutando le sue prestazioni a ogni velocità del vento. «Stiamo giocando con lei. Finché c’è anche solo un alito di vento, non ci prenderà.»

    A poppavia, il comandante della cannoniera aveva rinunciato a raggiungere il clipper con la sola energia del vapore e aveva coperto una distanza notevole con tutte le vele spiegate, procedendo caparbiamente nella scia della Huron, finché d’un tratto il clipper non finì in un buco d’aria.

    Il fronte della burrasca si stagliava chiaramente sulla superficie del mare. Da una parte, l’acqua scura era artigliata dall’aria; dall’altra, i dorsi gibbosi delle onde nella bonaccia sembravano fatti di velluto lucido.

    Quando la Huron attraversò quella linea di demarcazione, il mugghio del vento che settimana dopo settimana aveva torturato i loro timpani cedette il passo a un inquietante silenzio innaturale e il movimento della nave passò dalla carica vitale di una creatura marina sotto sforzo all’oscillazione e al dondolio fortuito di un tronco esanime.

    In alto, le vele sbattevano e garrivano nei mulinelli casuali creati dal suo rollio e dal suo beccheggio, e il sartiame si agitava con un fragore tale che il clipper parve sul punto di perdere gli alberi.

    A poppavia, la cannoniera avanzava spedita, riducendo velocemente la distanza, con la colonna di fumo nero che si alzava nell’aria immobile conferendole un aspetto trionfante e minaccioso.

    Mungo St John corse verso il parapetto del cassero e guardò oltre la prua. Due o tre miglia più in là, vide il vento artigliare il mare e incresparlo, tingendolo di una cupa sfumatura di indaco, ma tra le due navi c’era l’ondulata superficie oleosa della bonaccia.

    Si voltò, e la cannoniera era più vicina, sputando fumo verso il cielo azzurro spazzato dal vento, così sicura di sé che i portelli si aprirono e i tozzi fusti dei cannoni da trentadue libbre sporsero dalle murate, con la spuma causata dall’elica che usciva da sotto la volta di poppa e scintillava bianca sotto il sole.

    Senza il minimo controllo della Huron, il timoniere non riusciva a tenere la rotta e il clipper scarrocciò con la fiancata rivolta verso la nave da guerra, la cui prua sfidava i marosi senza timore.

    Ormai si distinguevano le singole figure dei tre ufficiali sul ponte. I cannoni spararono di nuovo e il proiettile sollevò una colonna d’acqua così alta e vicina alla prua della Huron che l’ondata si abbatté sul ponte di coperta e si scaricò attraverso gli ombrinali.

    Mungo St John lanciò un’ultima occhiata disperata all’orizzonte, sperando ancora nel ritorno del vento, ma poi capitolò.

    «Issate la bandiera, Mr Tippoo» urlò e, quando il vistoso pezzo di stoffa si afflosciò sul pennone di maestra nell’aria immobile, osservò con il cannocchiale la reazione costernata dell’equipaggio della cannoniera. Era l’ultima bandiera che si erano augurati di vedere.

    Ora erano abbastanza vicini da scorgere le singole espressioni di disappunto, preoccupazione e indecisione dipinte sui volti degli ufficiali.

    «Niente diritto di preda per voi. Non questa volta» mormorò Mungo St John con truce soddisfazione, chiudendo di scatto il cannocchiale.

    La cannoniera si avvicinò e poi si fermò controvento accanto alla Huron, a portata di voce, mostrando tutta la fiancata da cui si protendevano i lunghi cannoni minacciosi.

    L’ufficiale più alto sul ponte sembrava anche il più vecchio, perché i suoi capelli bianchi brillavano sotto il sole. Accostandosi al parapetto, si portò la tromba parlante alla bocca.

    «Come si chiama la nave?»

    «Huron, partita da Baltimora e da Bristol» urlò Mungo St John. «Con un carico di merci per il Capo di Buona Speranza e Quelimane.»

    «Perché non avete obbedito al mio alt, signore?»

    «Perché, signore, non vi riconosco il diritto di intimare l’alt in alto mare alle navi degli Stati Uniti d’America.»

    Entrambi i capitani sapevano quanto la questione fosse spinosa e controversa, ma l’inglese esitò solo un secondo.

    «Mi riconoscete, signore, il diritto di verificare la vostra nazionalità e il porto di immatricolazione della vostra nave?»

    «Non appena avrete ritirato i cannoni potrete salire a bordo, capitano. Ma non mandate uno dei vostri subalterni.»

    Mungo St John era riuscito a umiliare il comandante della Black Joke, ma in cuor suo era ancora furioso per il brutto scherzo che gli aveva giocato il vento permettendo alla cannoniera di raggiungerlo.

    Con impeccabile maestria, la Black Joke calò tra le onde impetuose una barcaccia che si avvicinò svelta alla fiancata del clipper. Mentre il capitano si arrampicava lungo la scaletta di corda, l’equipaggio della barca indietreggiò e smise di remare.

    L’ufficiale sbucò dal boccaporto di accesso, così agile e flessuoso che Mungo St John si rese conto di essersi sbagliato a giudicarlo anziano. A fuorviarlo erano stati i capelli, così biondi da sembrare bianchi. L’uomo aveva chiaramente meno di trent’anni. Non indossava l’uniforme, perché la sua nave era stata autorizzata ai combattimenti, ma era vestito con una semplice camicia di lino bianco, pantaloni e stivali leggeri. Aveva due pistole infilate nella cintura e un coltellaccio da marinaio nel fodero sul fianco.

    «Capitano Codrington, dell’incrociatore ausiliario Black Joke di Sua Maestà» si presentò rigido. Aveva i capelli schiariti dal sale e dal sole, con chiazze bianco argento sopra e ciocche più scure sotto, legati con un laccio di cuoio in un codino sulla nuca. Il viso sfoggiava un’abbronzatura di un dorato color miele, in timido contrasto con l’azzurro sbiadito degli occhi.

    «Capitano St John, proprietario e comandante di questa nave.»

    Nessuno dei due accennò un movimento per tendere la mano all’altro. Al contrario, sembrarono arruffare il pelo come due lupi che si incontrano per la prima volta.

    «Mi auguro che non intendiate trattenermi più del necessario. Potete star certo che il mio governo verrà messo al corrente di questo episodio.»

    «Posso vedere i vostri documenti, capitano?» Il giovane ufficiale ignorò la minaccia e seguì St John sul cassero. Lì esitò per la prima volta quando vide Robyn e suo fratello insieme accanto al parapetto, ma si riprese all’istante, facendo un piccolo inchino e poi concentrandosi sull’involto di documenti che Mungo St John aveva posato sul tavolo da carteggio.

    Si chinò sopra il ripiano, esaminando rapidamente la pila di fogli finché, scioccato, non si raddrizzò di colpo.

    «Che il cielo mi fulmini… Mungo St John… La vostra reputazione vi precede, signore.» Aveva una forte emozione scritta in viso. «Una reputazione assai nobile, per giunta.» Parlò con una nota amara nella voce. «Il primo uomo ad aver mai trasportato più di tremila anime attraverso l’Atlantico in un singolo periodo di dodici mesi. Non mi meraviglia che possiate permettervi una nave così magnifica.»

    «Vi muovete su un terreno insidioso, signore» lo avvertì Mungo St John con il suo sorriso pigro e beffardo. «So bene cosa siano disposti a fare gli ufficiali della vostra marina per un diritto di preda di poche ghinee.»

    «Dove intendete prendere a bordo il vostro prossimo carico di infelicità umana, capitano St John?» lo interruppe bruscamente l’inglese. «Su una nave così bella dovreste essere in grado di stiparne duemila.» Era diventato pallido, fremendo di autentica rabbia.

    «Se avete finito la

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