L'ultimo pastore di Grand-Croix
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Il Moncenisio è un luogo ideale per far sognare gli uomini e il vento che soffia lassù trascina con forza la mia penna di scrittore.
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Anteprima del libro
L'ultimo pastore di Grand-Croix - Francis Buffille
Buffille
L’ULTIMO PASTORE DI GRAND-CROIX
EEE - Edizioni Tripla E
Francis Virgile Buffille, L’ultimo pastore di Grand-Croix
© EEE - Edizioni Tripla E, 2020
Prima edizione italiana. Traduzione dal francese di Lidia Castrini.
Collana I Mainstream
, n. 27
Titolo originale: Le dernier berger de Grand-Croix, Roux, Saint-Jean-de-Maurienne, 2003
EEE - Edizioni Tripla E di Piera Rossotti
www.edizionitriplae.it
Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.
L’immagine di copertina e le foto interne sono proprietà di Francis Buffille.
AL LETTORE
Questo è un romanzo. La forza della sua storia sta nel segreto che mi lega a Luigi, il pastore. Il suo nome, scritto da qualche parte su una pietra, lentamente s’è attenuato per scomparire nel corso del tempo. Se in questo libro esiste un solo nome, esso è impresso per sempre nel mio cuore e nella memoria.
Il Moncenisio è un luogo ideale per far sognare gli uomini e il vento che soffia lassù trascina con forza la mia penna di scrittore.
Il mio amico pastore ha vissuto anni meravigliosi con le sue pecore in quel mondo bello e ostile. Ha sofferto momenti difficili, ha conosciuto anni bui, la violenza degli uomini ma la guerra non ne ha fatto una vittima. Non c’è voluta la guerra perché si manifestasse la follia di qualcuno, perché si sconvolgesse un paesaggio, si annientasse una vita.
Con lo sguardo rivolto al passato, Luigi non si rattristava per la fuga del tempo. Insensibile al peso degli anni, viveva in sintonia col ritmo delle stagioni e i ricordi placavano il suo spirito. Riflettere sui momenti felici l’aiutava ad affrontare il presente e attenuava in lui la paura del futuro che spesso si faceva sentire.
Un sogno premonitore, che si ripeterà più volte nel corso della vita, indebolirà la sua ragione già sconvolta a causa di altre tragedie. Luigi celava nel suo cuore la realtà tipica della montagna, cioè l’agonia di un modello di vita tradizionale sacrificato alle esigenze del progresso e della moderna società.
Apparteneva a quegli uomini solitari, coraggiosi e fedeli che dividevano la quotidianità col loro gregge, senza venir meno, qualunque fossero le circostanze.
Noi siamo affascinati dall’aspetto agreste del suo lavoro. Abbiamo di lui l’immagine di un pastore sognatore, poeta, senza preoccupazioni, seduto in mezzo alle sue bestie, con un fiore tra le labbra all’angolo della bocca.
L’apparente indifferenza del suo modo di essere nascondeva una vita trepidante, fatta di gioie e dolori. Quel viso, a prima vista impassibile, celava una forte tensione interiore; il suo sguardo rivelava una tenerezza camuffata con pudore dietro una corazza dura come le rocce che lo circondavano. Solo le sue pecore potevano capire e le montagne furono complici di una grande storia d’amore tra loro e il loro padrone.
Luigi, e tutti coloro che, come lui, donarono alle nostre montagne un’anima carica di poesia, ci hanno lasciati ma io avverto sempre la loro presenza. Sui sentieri di pietra, le loro greggi sollevano ancora nuvole di polvere. L’odore della lana grassa sale alle mie narici e l’eco del loro rumore risuona ancora nei valloni della mia memoria.
L’INFANZIA AL MONCENISIO
LUIGI, IL PASTORE
Il territorio del Moncenisio non ha una capitale, né una reggia, né tanto meno un governatore. I sogni di Napoleone, che voleva promuoverlo a Comune per edificare una città, sono svaniti da molto tempo. Rimane tuttavia un luogo ricco di storia e di storie, una porta, un passaggio attraverso le Alpi al quale gli uomini hanno attinto fin dai tempi più antichi. Quella via, che collega la Haute-Maurienne alla Val Susa, la Savoia al Piemonte, Parigi a Roma, l’Occidente alla Terra Santa, risale alla notte dei tempi. A forza di passare e ripassare, gli uomini hanno tracciato un sentiero. Ma solo l’inizio del XIX secolo vide la nascita di una strada carrozzabile a opera di Napoleone che volle dotarla, tra Lanslebourg e Susa, di 24 case cantoniere, altrettanti luoghi di riposo per viaggiatori affaticati. Ancora oggi percorriamo quella strada. Chi raggiungeva il colle da Lanslebourg, nei primi anni del XX secolo, provava ammirazione per quel paesaggio immutato dalla sua creazione. Chi l’attraversava per la prima volta poteva, all’improvviso, aver l’impressione di sentir sfilare al suo fianco, come un gregge selvatico, tutti quegli uomini illustri o sconosciuti, capi di stato, ecclesiastici, semplici pellegrini o soldati in cerca di avventure. Scopriva, disteso ai suoi piedi, un vasto altopiano che si dispiegava alla sua destra verso il vallone Savallin e il Piccolo Moncenisio e che si apriva in fondo verso l’Italia e l’Oriente. Arrivava come Noè sul monte Ararat? Non era che una tappa ma già nel suo cuore nasceva una sensazione di vittoria e, al tempo stesso, di felicità per essere riuscito a vincere una montagna ostile. La bellezza e la grandezza dello scenario ricompensava il solitario viaggiatore.
Un grande lago, dalle acque calme, rifletteva come uno specchio la bellezza delle cime che lo circondavano. In mezzo sorgeva l’Île de la Motte. La strada conduceva a un gruppo di case: les Tavernettes. L’Hospice, edificio imponente, sorgeva più in basso. Nel corso dei secoli aveva accolto coloro che passavano di là in cerca d’un po’ di pane, di calore e di spiritualità prima di proseguire il cammino.
La strada, dopo aver attraversato quel luogo austero e avvincente, scendeva verso Grand-Croix con le case che sembravano schiacciate sotto le larghe coperture di lose. Si stringevano attorno alla cappella di Notre-Dame-des-Neiges come giovani agnelli attorno alla loro madre. Quel piccolo villaggio dominava, dall’alto delle Échelles, la lunga piana di S.Nicolao; là il Cenischia, dopo le turbolente cascate all’uscita dal lago, ritrovava la calma prima di riprendere la sua corsa nella valle, verso Ferrera e Novalesa.
La vita era molto dura in quel paese del Moncenisio, tuttavia vi abitavano uomini e donne e l’idea di andarsene non li aveva mai sfiorati. Abbarbicati come fiori che non si possono spostare se non col rischio di staccare ciò che hanno di più prezioso, da sempre nascevano, vivevano e morivano su quelle montagne. Per quel lembo di terra selvaggia nutrivano un Amore segreto e vivevano con la modestia della violetta che sboccia a primavera nel sottobosco.
Il 23 ottobre 19… il vento soffiava sul Moncenisio. Le nubi che vi si scontravano sfioravano il suolo umido, cancellando il paesaggio. Nell’aria volteggiavano i primi fiocchi di neve. A Grand-Croix, già intorpidita per l’arrivo del freddo, non s’incontrava anima viva. Attraverso i vicoli deserti, il turbinio disperdeva gli ultimi fili di paglia incastrati sotto una porta. A quell’altezza non c’erano alberi che perdessero le foglie. L’autunno passava molto in fretta. Mentre in basso, nella valle, la Natura risplendeva di mille colori, qui si accontentava di far diventare rossa l’erba dei pascoli. L’inverno lo raggiungeva senza dargli il tempo di completare