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I piccioni di Skinner
I piccioni di Skinner
I piccioni di Skinner
E-book175 pagine2 ore

I piccioni di Skinner

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Info su questo ebook

La vita di Francesco Navarra sembra rispecchiare la crisi del tempo – un

futuro prossimo – in cui si svolge questa storia. Un tempo

paurosamente simile a quello che incombe sul nostro Paese, segnato da

conflitti sociali insanabili, dal pensiero unico e dal generale declino

dei valori umani. Il suo lavoro di editor presso una piccola casa

editrice, il matrimonio con Delia, il rapporto con il figlio

adolescente, l'intesa passionale con Elisa … Tutto sembra andare in

pezzi e travolgerlo. Solo l'incontro con un uomo saggio – un outsider

della psicoterapia – saprà aiutarlo a ritrovare la consapevolezza di

sé e ad affrontare il culmine del dramma in cui è catapultato.
LinguaItaliano
Data di uscita25 mar 2021
ISBN9791220329286
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    Anteprima del libro

    I piccioni di Skinner - Giuseppe Sampognaro

    Hustvedt

    E’ da un po’ che succede. Avverto strane vibrazioni che mi scuotono da dentro e che, per alcuni istanti, mi fanno girare la testa e mi bloccano il respiro. La settimana scorsa – domenica sera – mi è venuto di parlarne con Delia. Eravamo in cucina. Si è voltata verso di me, svogliata, con aria di commiserazione (la gamma delle sue espressioni nei confronti del sottoscritto va dalla commiserazione al disgusto alla rabbia. Quindi, tutto sommato, quel giorno mi è andata bene). Ci risiamo con l’ipocondria? Ora che hai, pressione alta o bassa? e con una smorfia si è rigirata e ha ripreso a rimestare nella pentola.

    Ho pensato che potrebbe avere ragione, forse somatizzo.

    D’altra parte, con tutto quello che accade – ho provato a giustificarmi – come potrei stare tranquillo e rilassato? Non ti pare? Ma la risposta anche quella volta è stata Guarda, lascia perdere. Sai che non mi interesso di politica. E poi sono fatalista: accada quel che deve accadere. Fine del confronto.

    Sono rimasto in silenzio a ripassare mentalmente i tanti errori della mia vita, mentre lei, in piedi, agitava il cucchiaio di legno e si dava da fare rumorosamente con piatti e fornelli. Come a voler sottolineare quanto futili fossero le mie lamentele rispetto alla concretezza del suo far da mangiare.

    La guardavo mentre si muoveva da ferma, con il ventre addossato ai lavelli sotto la cappa che aspirava il fumo della pentola, sembrava una maga nel bel mezzo di un sortilegio. Perché? ho pensato. Perché adesso non mi avvicino a lei mentre mi dà le spalle, perché non le alzo la gonna sino scoprirle quei glutei polposi, sino strapparle giù gli slip e prenderla prima che possa accorgersi di avermi dentro? Nei primi anni dopo il matrimonio era così che risolvevamo i nostri battibecchi, lei fingeva di inorridire, sorpresa e offesa, si dibatteva per qualche istante, giusto per il gusto di resistere, e poi cedeva inarcandosi con un sorriso malizioso mentre le baciavo l’incavo tra orecchio e gola. Ora invece rimango qui, decido solo di sedermi sul sofà della nostra cucina-soggiorno, anzi mi sono già seduto, inerte, arreso e lontano anni luce da quel corpo che una volta mi faceva impazzire.

    Non si rende conto, mi sono detto. Continua a non rendersi conto del precipizio verso il quale stiamo tutti rotolando. Incredibile. Prima di lanciarmi a elencare i fatti oggettivi che angosciano me e tutte le persone dotate di buon senso; invece di alzare la voce e chiamarla a correa – assieme al presidente Falco e ai suoi folli seguaci – del crollo del mio equilibrio emotivo, ho provato a regolarizzare il mio respiro. Ho strofinato il palmo delle mani sulle ginocchia mentre tentavo di far cambiare rotta ai miei pensieri, ho persino dichiarato con una vocetta falsamente allegra: Eh, per fortuna la temperatura si è abbassata!, e in automatico ho acceso la TV.

    Lo schermo si è immediatamente riempito di immagini crude, la voce del giornalista (era un notiziario) suonava atona e indifferente mentre parlava di scontri al confine con la Francia, dell’ennesimo sgombro di centri culturali che in realtà, precisava, si sono rivelati covi di terroristi antigovernativi. La voce si era modulata su toni concilianti passando alle cronache parlamentari e preannunciando il dibattito in aula per l’approvazione dell’iniziativa presidenziale di legge relativa all’abolizione del sostegno scolastico. Dibattito … - ho sussurrato scuotendo la testa e sorridendo amaro - Quattro quinti dei deputati è loro, al senato poi hanno l’ottantasette per cento … Dibattito ….

    Un altro pezzo di diritti civili che va a farsi fottere! ho detto ad alta voce.

    Delia, senza farmi finire, ha annunciato: E’ pronto.

    Ma hai sentito? ho tentato di scuoterla.

    Affettando il pane sul tagliere ha sentenziato: Il sostegno a scuola non serve a niente, e lo sai bene. Chi è indietro ci rimane, i sani e gli intelligenti vanno avanti, ed è sempre stato così. Basta ipocrisia e quasi urlava continuando a darmi le spalle.

    Capivo perché la sua rabbia, evocare con lei l’argomento sostegno scolastico per me era come imboccare un sentiero minato, ma mi sembrava ingiusto che le nostre faccende personali inquinassero il suo giudizio. L’ho incalzata: Ma se invece le cose funzionassero per come dovrebbero … Se ci fosse passione e organizzazione da parte di tutto il sistema scuola … Che senso ha eliminare una risorsa preziosa per i bambini svantaggiati, solo perché sinora la si usa male? A Rovereto avevo un collega … Rischiavo di peggiorare la situazione, così mi sono bloccato in tempo, con l’aiuto dapprima di un capogiro violento, e poi del senso di frustrazione nell’osservare Delia sedersi e iniziare a mangiare, senza aspettarmi. Come ormai fa da tempo. Come se io non esistessi.

    Ho scostato la sedia, la sua voce sferzante mi ha raggelato. Che ne diresti di andare a invitare Nico pausa sarcastica a venire a tavola con noi? Se ne sta dalle tre barricato in mansarda, se lo chiamo non risponde nemmeno, perso com’è tra chat e nuovi videogiochi. Poi ha alzato su di me uno sguardo feroce, lampeggiando con quei suoi occhi nerissimi sotto la frangetta mielata, e ha scandito con altrettanta ferocia: Che ne diresti di fare il padre, di tanto in tanto?.

    Fare il padre. Ci provo, ci ho provato anche quella sera. Di sicuro, c’è stato un tempo in cui mi riusciva meglio. Mentre mi inerpicavo faticosamente - tenendomi stretto alla balaustra data l’instabilità da vertigini - per le scale che portano in mansarda, pensavo ai momenti di complicità tra me e mio figlio, durante gli anni della sua infanzia.

    Io e Nico, mentre sguazza nella vasca del suo primo bagnetto. Io e Nico che spacchettiamo eccitati i regali di Natale. Io e Nico abbracciati di sbieco mentre lui prova a inaugurare i pattini, poco prima del capitombolo. Io e Nico che zappiamo sui tasti del pianoforte di nonna tentando di suonare qualcosa che somigli ad Heart and Soul. Io e Nico che palleggiamo pericolosamente tra la cristalleria in salotto. Io e Nico in posa davanti a scuola, il primo giorno di asilo. Io e Nico aggrappati alla balaustra del traghetto, col vento tra i capelli e la felicità negli occhi. Tutte immagini che riempiono ancora la memoria di computer e telefonini, ma che nella mia iniziano a sbiadirsi. Le aveva catturate Delia, quando ancora eravamo una famiglia e tutto era semplice, lineare, sereno.

    Ho bussato alla porta, nello spazio del legno tra l’immagine di un teschio campeggiante su tibie incrociate e un crigno stilizzato. Silenzio. Ho provato a girare la maniglia ma era chiusa a chiave.

    Nico!

    Nessuna risposta, solo una specie di risata strascicata, come un cigolìo sottile. Ho battuto più forte, e a quel punto la voce di mio figlio ha chiesto che vuoi?. Gli ho ordinato di aprire, brusco e picchiando a palma aperta. Ho sentito un borbottìo che mi suonava come un coacervo di maledizioni rivolte a me e a dio, e finalmente la porta si è schiusa. Ecco gli occhi scuri di sua madre e lui (chinato su di me dall’alto del suo metro e ottantacinque) che scuote la gran massa di capelli ricci come a chiedere il perché di quel blitz. Ha le pupille dilatate, e non solo per la semioscurità. La conferma è arrivata con la zaffata di fumo dolciastro filtrata dalla fessura della porta. Ma che stai facendo lì dentro? gli ho chiesto sforzandomi di mantenere un tono di domanda, buttandogli in faccia – invece – il mio sdegno rabbioso. Spegni quella merda immediatamente! E scendi, che siamo a tavola! Nico ha biascicato un sì sì come no ora scendo come a farmi il verso, ha sbattuto la porta e l’ha richiusa a doppia mandata. Ancora risate stridule e parole incomprensibili.

    Tra esplodere di collera e sprofondare nella depressione di chi è impotente, ho scelto ancora una volta di farmi pena da solo. E me ne sono tornato giù in cucina, a testa bassa, ancora più ammaraggiato di prima. Ho detto a Delia: Sta arrivando. Sapevamo tutt’e due che mentivo.

    Uscire di casa equivale a tentare una sortita attraverso le linee nemiche, proiettato in un coprifuoco perenne, che ti costringe a camminare veloce, a guardarti intorno e a stare in apnea sino al rientro in un posto sicuro. Anche lunedì mattina provavo questo senso di attesa spasmodica.

    I muri dei palazzi mi appaiono già da tempo ancora più scuri e tetri, sarà il colore della pietra lavica, sarà soprattutto l’atmosfera che percepisco in giro. Saranno anche le gigantografie di Falco – rimasugli della scorsa campagna elettorale - che occhieggia fintamente paterno a ogni angolo di strada promettendo libertà in sicurezza. Non sono più i tempi delle manifestazioni spontanee con cortei e assembramenti di gente inviperita; ma sento ancora una tensione che gonfia l’aria stagnante del mattino, ora che è luglio inoltrato, e che si mischia all’umidità appiccicosa, che ti entra nei polmoni e sembra non uscirne più.

    Ho guidato con ansia, ma muovendomi lentamente, per non dare nell’occhio. Al primo semaforo, ecco il primo segno dei tempi. Un furgone ha tamponato una utilitaria che si era fermata al rosso, l’investitore è uscito dall’abitacolo per constatare i danni, l’investito ha accennato a una protesta dal finestrino, l’altro gli si è avventato, quasi gli ha sradicato lo sportello e lo ha tirato fuori per il collo urlando Cos’hai detto? Testa di cazzo, mi hai scassato il paraurti e ti permetti di lamentarti? e ha iniziato a picchiarlo con pugni e calci. Me ne stavo lontano, ma abbastanza vicino da decifrare quello che stava accadendo. Sono un vigliacco, ma anche se fossi un eroe non avrebbe avuto senso cercare di far ragionare quell’energumeno, tra poco ne sarebbero arrivati altri e la zuffa si sarebbe trasformata in un regolamento di conti. Loro sono come i Morlock del romanzo di Wells: ominidi in cerca di vittime sacrificali. Ma questi qui non aspettano la notte, la violenza ormai si esercita alla luce del sole. Non li ferma nessuno, la polizia è dalla loro parte. E io anche stavolta sono scappato, in questi casi mi rendo invisibile, rosso di rabbia e di vergogna. Come quella volta della grande manifestazione contro il referendum voluto da Falco: seguivo il corteo vibrante di sdegno e urlando contro la prossima fine della democrazia, io e un migliaio di poveracci illusi che fosse quello il modo giusto per contrastare i fascisti di regime. E invece ecco gli infiltrati a viso coperto che trasformano intenzionalmente una protesta civile in un caotico assalto a tutto ciò che è possibile sbriciolare a colpi di mazza o di spranga di ferro. Macchine ribaltate, vetrine spaccate, copertoni incendiati, i proconsoli che intervengono e sparano, io che fuggo in preda al panico e mi infilo tra i vicoli dietro l’Università, boati, colonne di fumo nero che rende tutto irrespirabile e grottesco e distopico. Il giorno dopo titoloni sui quotidiani: l’irresponsabilità della sinistra, fanatismo criminale, le forze dell’ordine vittime della violenza dei senza legge … Tutto sottosopra, la verità stravolta, e io che ancora mi guardo alle spalle e temo ritorsioni.

    Sarà questa, mi chiedo, l’origine delle vibrazioni corporee che da un po’ mi allarmano?

    Ho parcheggiato con circospezione, sobbalzando a ogni rumore anche lievemente più intenso del solito (lo sfrigolìo di un vecchio autobus, un colpo di clacson, la sirena di un’ambulanza…).

    Davanti al portone dell’ufficio, come ogni mattina, Derek era accovacciato, nella sua tuta di un viola sbiadito, come a volersi fare – anche lui – invisibile . Ciao amico, come va? ho cercato di indirizzargli un sorriso tranquillizzante, io che non ero tranquillo per niente. Mi ha restituito il sorriso con lo stesso intento Bene, papi. Ma tu sembri preoccupato ha aggiunto sollevandosi dal cumulo di stracci su cui aveva trascorso la notte, scostandosi dagli occhi la visiera del berretto bisunto dove, ogni volta che lo incrocio, faccio scivolare una moneta. Ecco una persona che mi guarda, e che mi vede. Questa consapevolezza ha aumentato l’ansia che provavo per lui. E’ uno dei pochi superstiti al repulisti di Falco, è arrivato da bambino orfano con l’invasione di nove anni fa, e la sua speranza di una vita migliore si è impantanata in questo ruolo da giovane barbone, braccato dalla municipale ma aiutato dai pochi disposti a rischiare per sfamarlo e dargli da dormire in pace. Per i più, è imperdonabile il suo essere sopravvissuto, nell’ordine, alle torture al naufragio alla fame al Covid e all’ostilità di chi proprio non vuole che lui esista.

    Sono entrato in ufficio, come sempre, millantando un sorriso di serenità, e come al solito, nessuno ha mostrato segno di aver notato il mio arrivo. Non perché il lavoro sia così intenso da obbligare i colleghi a non alzare lo sguardo dallo schermo del computer, tutt’altro. Ognuno è immerso nel suo dramma personale, mi sono detto mentre mi sfilavo la giacca e la appendevo al portapanni.

    Lavoro per questa casa editrice on line da quasi diciotto anni.

    Ormai a barcamenarci così siamo una miriade sul territorio nazionale e anche qui in Sicilia. Con la crisi dell’editoria tradizionale, soprattutto dopo l’AdM (l’acronimo facilmente decodificabile con cui io e Roberto abbiamo ribattezzato il 2020), la crescente smania di scrivere per esserci - slogan di una nostra concorrente - si è focalizzata sulla Rete. Così troviamo tutti un piccolo spazio di sopravvivenza grazie al narcisismo di autori in cerca di visibilità o, forse, di una ragione per vivere.

    Il Turbine – questo il brand dell’azienda editoriale – vàluta lavori letterari di ogni genere: dal romanzo mainstream al saggio, dalla graphic novel alla silloge poetica, e offre servizi agganciati al print on demand per l’accurata traslazione di e-book in volume e/o in audiolibro, che il nostro editore pubblicizza come può; sicuramente, con un consistente dislivello tra ciò che promette e quel che realizza davvero. Sì, perché i testi che selezioniamo per una pubblicazione gratuita, garantita da un autentico tradizionale contratto editoriale, sono davvero pochi, da contarsi – negli ultimi anni – sulle dita di una mano sola. La stragrande maggioranza delle proposte viene accolta per rimpinguare le casse semivuote dell’azienda. Dice il Capo: loro ci pagano e noi pubblichiamo senza fare gli schizzinosi. Prima li invogliamo, li seduciamo, poi proviamo anche – per lavarci la coscienza – a prestare un’opera di ripulitura e revisione del testo. Ma se l’autore non mostra di gradire il nostro aiuto (che il Capo inserisce tra le opzioni che prevedono un costo supplementare)

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