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L'invisibile protagonista
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E-book325 pagine5 ore

L'invisibile protagonista

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Info su questo ebook

Ambientato in Giappone narra di Kou, della sua straordinaria vita e dell'avvincente filo conduttore che dà il titolo all'opera. Esso è potente poiché infrange il concetto che ogni essere umano ha di se stesso ossia di sentirsi il protagonista della propria esistenza. Seppur sia una percezione inevitabile, Kou ci aiuta a comprendere che le cose non stanno così, ci mette davanti all'evidenza che il vero protagonista è un altro, un'immortale presenza che silenziosamente aspetta che l'uomo compia ciò che gli spetta, che non fa niente per mostrarsi ma che mai si nega se viene cercata. Nella prima parte è l'autrice che racconta di Kou ma nella seconda è l'invisibile protagonista che prende la parola narrando di sé e dell'uomo che impersona, dei loro ruoli, delle loro missioni e anche di cosa implica per entrambi giungere alla morte. È di un uomo che si narra ma anche di tutti gli uomini poiché il senso di infinitezza che pervade il libro appartiene a ogni essere umano e il lettore non potrà fare a meno di percepirlo. Sarà come sentire palpitare l'essenza di se stesso finora ignorata o dimenticata ma che ora può ritrovare e con essa scoprire perché e per chi sta vivendo.
LinguaItaliano
Data di uscita21 apr 2021
ISBN9791220332590
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    Anteprima del libro

    L'invisibile protagonista - Carla Ricci

    tutto.

    PRIMA PARTE

    UN APPASSIONATO OSSERVATORE

    Kyoto, autunno 1948.

    Aveva sei anni. Dalla finestra della sua cameretta situata a sud si potevano scorgere in lontananza gli eleganti contorni delle colline che circondano Kyoto le quali sembravano fare da sfondo a un angusto sentiero difficile da scorgere a quella distanza ma non per chi ne conosceva l’esistenza. Esso sinuosamente si snodava lungo un boschetto di bambù per poi sfociare davanti al tori di ingresso di un piccolo e vecchio tempio shintoista, dimenticato da tutti ma certo non da quel bambino. A lui piaceva immensamente recarsi in quel luogo ormai quasi del tutto abbandonato anche se non vi accedeva così spesso come in realtà avrebbe desiderato, per molti motivi. Innanzitutto il farlo richiedeva compiere un atto decisamente impegnativo, varcare il tori significava infatti abbandonare e abbandonarsi. Significava distaccarsi dal conosciuto e affidarsi all’ignoto dove la rassicurante, convenzionale scansione del tempo e dello spazio in un batter d’occhio si dileguava per far posto a una dimensione che anche la più fervida fantasia avrebbe difficilmente potuto immaginare. Lì infatti l’aria come per incanto modificava il suo stato rendendosi magicamente palpabile come fosse ammantata di un leggero velo quasi denso che faceva nascere la voglia di affondarci le mani dentro. Da tale inconsueta condizione e senza la necessità di fare niente, emergeva un mondo fantastico fatto di dimensioni strane e sconosciute che sembravano fra di loro sovrapporsi, composte da forme insolite e da colori di una nitidezza così straordinaria da risvegliare in quel bambino emozioni inedite e gagliarde che avevano la specialità di non dileguarsi in fretta bensì si lasciavano consumare lentamente così da poter gioirne a lungo. Esse, infatti, come dilatate da quella gelatina sembravano andare a ritroso fino a ritornare al loro punto di origine e solo allora sembravano disposte ad esaurirsi; solo quando cioè di esse se ne era catturata la primordiale essenza.

    Per quel bambino poter partecipare alla vita di tale mondo era un segreto eccitante e magnificamente frastornante che non avrebbe mai svelato a nessuno, tuttavia il potervi accedere quando avrebbe voluto non gli era liberamente consentito anche per un secondo motivo. Per il fatto, cioè, che era impossibile pensare di entrarvi con la pretesa di controllare il tempo e decidere liberamente quando uscirvi perché non era lui a stabilirlo ma la volontà delle cose. Per questo non poteva recarsi in quel suo luogo segreto con la frequenza che avrebbe desiderato ma doveva aspettare il momento propizio, quando cioè tutti della famiglia erano indifferenti alla sua assenza; solo allora si creava la giusta condizione per il viaggio fuori dal tempo senza che alcun sciocco e ordinario fatto potesse disturbarne il misterioso incedere che possedeva la stessa stranezza di quella che apparteneva anche al suo esecutore. Infatti fin dalla prima infanzia, nonostante mostrasse un intenso interesse per la scoperta del mondo che gli stava attorno, non era capace di metterlo in pratica con il senso del gioco che solitamente anima i bambini quando sono tutti presi da tale appassionante attività. Questa stravaganza preoccupava i suoi genitori che avrebbero invece voluto vederlo scorrazzare in giardino in compagnia dei suoi coetanei piuttosto che scoprirlo accovacciato da qualche parte in solitudine con un’espressione assorta, a volte decisamente corrucciata, totalmente immerso nell’esplorazione di qualcosa che a qualsiasi altro bambino sarebbe stato privo di importanza ma che a lui conduceva lontano, facendogli oltrepassare senza alcun sforzo la realtà che gli stava attorno. Ciò che oltre ad essa si dipanava non era tuttavia un mondo che si concedeva con facilità, per penetrarlo occorreva infatti assumere un passo diverso, un’attenzione delicata e distaccata, continuamente riverberata da un senso di meraviglia e rispetto. E lui, a tale sentire, con una dedizione che percepiva come totalmente naturale, si assoggettava con tutto se stesso.

    Diversamente da come accade a ogni bambino il cui modo di pensare, di essere, di agire viene continuamente plasmato da chi ha vicino, dall’ambiente e dalle quotidiane esperienze, lui da tali influenze non sembrava venir segnato con altrettanta incisività. Questo perché l’ascendente subìto dagli eventi e dal contesto gli giungeva in maniera più mitigata come se fosse oscurato da altro, qualcosa definibile come un vigore nascosto ma impetuoso che anziché stemperarsi con le circostanze esterne e finire per esserne assorbito, sembrava avere con esse grande difficoltà di adattamento finendo addirittura per prevaricarle, con l’esito di indebolire notevolmente la loro peculiarità di condizionamento. La situazione che si creava non rendeva tuttavia quel bambino più spavaldo e sicuro di sé ma al contrario lo confondeva, procurandogli un senso di smarrimento e sofferenza generata proprio poiché tale forza, contrapponendosi a quella di una normale assimilazione, finiva per farlo sentire perennemente in una condizione di estraneità rispetto al mondo in cui si trovava. Questo consolidava in lui la sensazione che le cose così come apparivano non rappresentassero la vera realtà ma che ci fosse altro, velato ma secondo lui svelabile, oscuro ma anche scintillante alla cui ricerca, almeno per lui, era inevitabile doversi dedicare. Come bambino, non sapeva riconoscere i contorni di ciò che gli capitava, lui sentiva solo qualcosa che lo infastidiva ma a cui non riusciva a non soccombere. Era una sfuggente, strana e scomoda reazione simile a un rifiuto verso una condizione nella quale però finiva per scivolarvi dentro senza tuttavia sapervi navigare con destrezza, come invece erano capaci di fare gli altri bambini. Essa era ritenuta la condizione normale ma era fatta anche di convenzionalità e banalità che predisponevano a una pigrizia interiore che condizionava i desideri di approfondimento ma che, alla fine, accontentava tutti. Finché fu bambino non gli fu possibile comprendere e per questo in tale normalità ne era trascinato dentro, tuttavia non riusciva a non farvi opposizione e non lo faceva per partito preso ma perché proprio non era capace di fare diversamente. Così finiva che ciò che gli altri consideravano importante a lui risultasse quasi sempre privo di significato e, al contrario, gli eventi che lui trovava eccezionali agli altri passassero completamente inosservati. La loro eccezionalità non nasceva dal fatto che si verificassero raramente e meritassero quindi una particolare attenzione, ma era la cura con cui ad essi lui si dedicava che li faceva diventare straordinari. Era proprio quello il punto: verso certe situazioni in apparenza insignificanti lui provava spesso intensi, appassionati slanci di attenzione che lo portavano a penetrare tali fatti fino a sentirne la loro intima natura quasi impercettibile ma i cui palpiti non gli erano estranei bensì in sottile risonanza con quelli del suo giovane cuore. Quando giungeva a quel punto, ogni senso di apatia che sembrava attanagliare il mondo circostante si sbriciolava in fretta e si apriva così la breccia verso ciò che rappresentava il suo vero e unico interesse legato al significato della sua esistenza, della sua provenienza e del suo destino. A tali interrogativi che sembravano essere nati con lui, egli si è interrogato sempre, da quando cioè ha di sé memoria e sono stati il vero filo conduttore di tutta la sua tormentata vita. Naturalmente nel tempo gli strumenti di indagine sono cambiati conformemente alle condizioni e alle esperienze che viveva e ai cambiamenti che inevitabilmente segnavano la sua strada, ma le domande sono state sempre costanti così come l’incapacità di assumere la verità dall’apparenza, accettando il fatto di esistere solo per il fatto di esserci.

    Anche se quel bambino riusciva ad accettare il mondo attorno come reale, era la presenza di se stesso che non gli sembrava tale, cioè non gli sembrava la sua; fondamentalmente era come se fosse finito dentro un sogno non suo, all’interno del quale egli interpretava la parte di essere umano che gli era stata assegnata. La sua costante sensazione di sentirsi completamente estraneo al mondo terrestre ma di dover agire tuttavia in esso senza mai tirarsi indietro, non lo ha mai abbandonato. Una percezione legata a ciò che lui sentiva di essere e che un po’ più avanti nel tempo definì con la parola karinosugata, qualcuno cioè a cui appartiene temporaneamente una forma che in realtà non è la sua, vale a dire non è la sua vera. Era con tale atteggiamento di essere cioè una presenza temporanea in una forma di sé che lui sentiva estranea, che quel bambino preferiva rimanere in solitudine sentendosi attratto a osservare piccoli fatti che a tutti apparivano banalmente ordinari ma verso i quali egli si sentiva rapito. Questo non tanto per l’interesse del fatto in sé ma per ciò che da esso gli sembrava poter cogliere e che riguardava anche il significato della sua presenza sulla terra.

    Era così anche nei confronti del segreto che custodiva il fragile e malandato susino situato nel giardino di casa sua che per tanti mesi all’anno se ne stava quietamente rassegnato a dover mostrare di sé un così cagionevole aspetto. Per quel bambino la sua apparente fragilità nascondeva leggi misteriose che pur non comprendendole lo infervoravano sapendo che sarebbe giunto il tempo in cui si sarebbero lasciate svelare. Accadeva infatti che quando giungeva il freddo dell’inverno che intorpidiva anche le più esuberanti espressioni della natura, al modesto susino capitasse qualcosa di diverso, l’aria pungente infatti non lo faceva affatto rabbrividire ma al contrario ne animava la vitalità che sembrava partecipare a trasformare, di tale severa brezza, lo stato. Essa infatti da aspra e austera che era, veniva inebriata dalla vellutata fragranza generata dai piccoli cuori bianchi di quell’alberello i quali, sbocciati a centinaia, ne tempestavano i gracili rami generando un’assonanza raffinata e soave a cui quel bambino, ammaliato, se ne sentiva un emozionato partecipante. Gli elementi erano diversi: bambino, albero, fiori, brezza, freddo, profumo e ciascuno di essi esprimeva se stesso ma al contempo ciascuno era tale anche poiché legato agli altri. Questo faceva sì che ogni seppur lieve mutamento che avveniva anche solo in uno di loro producesse modificazioni nello stato di essere di tutti gli altri senza creare alcuna dissonanza, bensì un’armonia perfetta seppur in perpetua mutevolezza. Il tutto era quindi una sola cosa che si dava continua forma in innumerevoli differenti, individuali espressioni? Ed esse per manifestarsi in una foggia di simile splendida singolarità-totalità non dovevano essere governate da un prodigio? Qualcosa di simile a una grandiosa legge cosmica aliena alla conoscenza degli uomini?

    Era interessato anche all’osservazione delle laboriose formiche e dei loro interminabili viaggi che compivano nei pressi di casa sua; si sentiva affascinato dalla solerzia che con fare impavido e ottimista esse dimostravano, sfidando senza la minima paura i titani da cui erano perennemente circondate. Esse infatti non se ne curavano affatto, assorte come erano nel loro impegnativo compito di rifocillare la loro grande società, affinché essa potesse vivere a lungo e in una condizione di equo benessere. Erano davvero brave e industriose tuttavia una delle tante volte in cui se ne stava accovacciato a rimirarle, fu assalito da un pensiero insolito, il dubbio cioè che il loro ostinato e ardito procedere non fosse frutto di coraggio bensì rappresentasse solo l’esito di un biologico istinto di sopravvivenza. Esse cioè, conformemente alla loro natura, agivano rispetto al solo mondo che conoscevano senza poter vedere e concepire nient’altro al di fuori di esso, poiché tale altro a loro non serviva. Fu allora che gli venne da domandarsi se non fosse lo stesso anche per il mondo umano di cui lui faceva parte. Se anche agli uomini, cioè, fosse più confacente procedere tutti insieme ignorando le realtà e verità che esistevano oltre a loro, esattamente come facevano le formiche nei loro confronti, oppure se, avendo gli uomini intelligenza e coscienza che le formiche non gli sembrava possedessero, dovessero osare di più e sfidare le apparenze create dai limiti del loro mondo. Le risposte arrivarono una dopo l’altra, molto più avanti nel tempo.

    C’era inoltre l’attesa quasi trepidante che ogni anno lo animava in prossimità dell’estate quando, da lì a poco, il tempo sarebbe stato scandito dal canto appassionato delle cicale, la cui vita aveva studiato sul libro di scienze ma soprattutto aveva osservato direttamente, a lungo e accuratamente sembrandogli così straordinaria da scriverne un saggio che lesse in classe in terza elementare. Occasione in cui non si limitò a esporre le dettagliate evidenze che aveva osservato ma anche le immagini e i sentimenti che dal suo cuore traboccavano. La lunga vita in un buio bozzolo insinuato fra le cortecce degli alberi o talvolta sottoterra, alle cicale doveva sembrare un tranquillo paradiso che offriva libertà e protezione, ricco di cibo e senza incombenti pericoli da affrontare. Lì avevano vissuto a lungo, anche per diversi anni poi invecchiate e stanche, sentendo la morte vicina, verso di essa si lasciavano istintivamente trasportare. Uscite dalla loro tana, forse un po’ spaventate dopo tanto tempo di pacifico riparo, cercavano un posto per morire, arrampicandosi lungo il tronco degli alberi. Tuttavia lì, proprio nel momento in cui si realizzava ciò che si aspettavano, ossia la morte e l’abbandono del proprio corpo, esse si rendevano conto, con estrema meraviglia, di possederne un secondo. Lo percepivano come un involucro più leggero, completamente diverso dal precedente e che infondeva loro una percezione di libertà mai provata nel passato quando si ritenevano cicale libere e felici. Ora con questo incredibile e leggiadro nuovo corpo potevano sperimentare in un modo totalmente sconosciuto l’inedito luogo in cui erano capitate dove ogni elemento era sollecitato da qualcosa di sconosciuto; era esso un venticello frizzante ma delicato che ora leggiadramente accarezzava anche loro stimolando percezioni mai provate prima. Con stupore si rendevano inoltre conto che stavano vivendo in una dimensione in cui, per la prima volta, non era il buio l’elemento dominante ma il chiarore della luce. Inebriate da tanto splendore, incredule di essere proprio loro e gioiose di esistere, ora cantavano a squarcia gola il loro inno di amore verso quella breve ma prodigiosa vita, senza nessuna paura per quello che sarebbe stato dopo.

    Il mondo naturale fremeva attorno a quel bambino in modo straordinariamente vibrante e questo finiva per generargli spesso una effervescente, palpitante euforia. Essa non implodeva in se stessa ma sembrava espandersi, come anelasse a offrirgli minuscole schegge di luce di quella stella lontana che in un remotissimo passato lo aveva generato. Tale esuberanza non potendo essere trattenuta, si esprimeva con i mezzi che aveva; uno di questi consisteva nello spronare quel bambino a esporre una serie interminabile di quesiti con la speranza che con le risposte ottenute nel suo cuore si schiudesse qualcosa. Spesso si trattava di domande complesse che riguardavano la sua esistenza, quella del mondo e dell’universo tutto. Erano temi affascinanti ma anche difficili per un bambino, nel senso che era complesso esprimere le domande a se stesso e di conseguenza ancor più intrigato era trovare le parole giuste per formularle ad altri senza il rischio di essere derisi; inoltre non era neppure facile individuare la persona giusta alla quale avere il coraggio di rivolgersi. Altre volte i quesiti che gli passavano per la testa erano meno complicati poiché riguardavano questioni più tangibili che avevano a che fare con eventi della realtà alla quale egli, con gli occhi di bambino, assisteva. Si metteva così alla ricerca di qualcuno che gli sembrasse idoneo a tale compito e quando pensava di averlo individuato cercava di cogliere il giusto contesto per realizzare il suo piccolo progetto di conoscenza. Non era una cosa da affrontare alla leggera poiché per Kou - così si chiamava quel bambino - quello era un evento determinante. Cosicché nel formulare la domanda usava tutta la sua concentrazione non solo perché temesse di non farsi capire ma anche perché desiderava partecipare attivamente a ogni piccola sfumatura di ciò che stava accadendo. Era qualcosa che gli procurava gioia come lo divertiva il fatto di non riuscire mai a presentare la domanda così come se la era preparata, sembrava che le parole non potessero essere previamente predisposte ma avessero bisogno proprio di quel preciso momento per darsi una libera forma. Kou interrogava e contemporaneamente si ascoltava mettendocela tutta per trasmettere pienamente l’attenzione e l’impeto che lo animava affinché il suo interlocutore fosse trascinato nel suo stesso stato d’animo e si sentisse così ben disposto a dare risposte riflessive, appassionate e soprattutto esaustive. Se le cose andavano così, quel bambino era felice e si godeva tali momenti lasciandosi penetrare da ogni frase, trovandole il giusto posto per custodirla fino a quando, più avanti nel tempo e nel momento meno inaspettato, essa avrebbe trovato la circostanza appropriata per riformarsi in una nuova creativa espressione che lui, con essa, avrebbe forgiato.

    Fra i tanti interrogativi che lo interessavano, uno riguardava ciò che gli adulti definivano pace ed ancor di più il significato di guerra proprio come quella che pochi anni prima aveva raso al suolo il suo Paese. Quella guerra che aveva distrutto della natura immagini, colori e fertile bellezza e ucciso in modo barbaro e assurdo molte migliaia di persone, nonostante la maggior parte di esse in guerra non ci fosse mai andata. Inizialmente era propenso a credere che, tranne il Giappone che era vittima, tutto il mondo fosse ingiusto e violento ma poi non trovando risposte esaurienti ebbe il forte dubbio, che divenne poi certezza, che le cose non stessero così e che non esistevano Paesi tanto saggi dal non praticare mai ingiustizie e crudeltà. Più passava il tempo e più lui diventava grande, più comprendeva che il cuore virtuoso degli uomini, se c’era, fosse messo a tacere da propensioni di altra natura da cui veniva sopraffatto; inclinazioni molte delle quali sembravano avere una matrice comune che Kou si sentì di poter individuare nell’arroganza. Nell’osservare attorno a sé si era infatti convinto che il prevaricare sugli altri fosse una tendenza pressoché comune a tutti, bambini o adulti che fossero. Fin da bambino il trovarsi coinvolto in fatti nati dalla prepotenza, gli procurava sempre una istintiva irritante reazione, sia che fosse lui a provocarli, sia che la prepotenza la subisse da qualcuno e sia che la vedesse esercitare su qualcun altro. Nel primo caso, vale a dire quando l’arroganza era la sua, i frutti erano davvero amari perché l’essere messo davanti alla sua incoerenza lo faceva soffrire anche fisicamente fino a farlo talvolta ammalare. Nel secondo caso, quando cioè l’arroganza la subiva, non aveva alcuna difficoltà nel saperla accettare e sfidava se stesso evitando accuratamente qualsiasi reazione. Il terzo caso era il più infausto, lo sdegno infatti che provava nel vederla infliggere si trasformava repentinamente in rabbia che lo trascinava in reazioni impetuose sempre fonte di guai e che anche con il passare degli anni non è mai riuscito ad addomesticare completamente. Aveva anche notato come un atteggiamento di natura arrogante ne fomentasse altri altrettanto poco edificanti e al contempo ne frenasse l’espressione di quelli che invece di allontanare gli uomini, aiutano a farli ritrovare. Fra questi ce ne era uno del quale fin da bambino piccolo gli era capitato molte volte di fare esperienza. Era un sentimento composto da una fusione di commozione e affetto verso un’afflizione che qualcuno provava, la quale si infondeva anche in Kou riempendogli il cuore della stessa pena. Veniva solitamente chiamato compassione e identificato come una benevola commiserazione provata per la sofferenza altrui. Tuttavia Kou era certo che quella definizione non lo riguardasse e fu felicissimo quando al tempo delle scuole superiori venne a conoscenza del significato originale del suo etimo latino cum patior ben diverso da commiserazione ma traducibile in essere con l’altro nel soffrire. Con il passare del tempo si rese conto del perché sentimenti molto più garbati non riuscissero mai a brillare di lunga vita, il motivo era che essi per esprimersi avevano bisogno di un ego un po’ meno invadente così da lasciar spazio a emozioni e commozioni non legati solo alla sua soddisfazione. Tuttavia tutto era complesso; osservando le cose che gli capitavano intorno a lui divenne sempre più chiaro il fatto che del proprio io non ci dimenticasse mai e che si intrufolasse dappertutto anche dove sembrava impossibile farlo. Per questo l’arroganza finiva per essere praticata in modi talmente sottili da essere difficilmente riconosciuta, essa cioè poteva manifestarsi anche senza rivelare plateali soprusi bensì in forme impercettibili che fanno parte del comune modo di agire e che osservandole superficialmente si presentano come normali prassi di comportamento, contrassegnate anche da atteggiamenti opposti come ad esempio gentilezza e buona educazione. A questo aspetto Kou riuscì a dare contorni più chiari quando raggiunse più o meno i diciott’anni osservando con smisurato interesse la natura dei rapporti che allacciavano gli uomini, legami che lui percepiva non essere quelli che apparentemente sembravano. Essi, infatti, anche quando implicavano sentimenti impegnativi e profondi, si mostravano spesso edificati proprio su quell’antica arroganza, tanto antica che le persone non la sapevano più riconoscere ma che tuttavia era tale, nonostante tentasse di esprimersi attraverso devozione, premura e affetto. Anche lui, nonostante gli facesse male ammetterlo, non faceva eccezione ed era forse per questo che davanti a parole altisonanti usate per esprimere la nobiltà di certi sentimenti si sentiva confuso e, diventando più adulto, infastidito. Un esempio riguardava la parola amore e il ridondante significato comunemente attribuitole; veniva decantato come un sentimento supremo ma non lo era e questo lo imbarazzava. Se fosse stato tale non poteva essere un sentimento che si offre per ricevere qualcosa in cambio e neppure un affetto riposto per qualcuno il cui modo di essere si vorrebbe cambiare secondo le proprie aspettative. Non poteva essere neppure una condizione utile per colmare vuoto o solitudine o per avere una sicurezza psicologica o materiale. Kou era confuso e con il passare del tempo si consolidò in lui l’idea che se l’amore, come sentimento sommo, davvero esisteva doveva essere parte di qualcosa di trascendente e potentissimo e forse era per questo così difficile per gli uomini mettersi con esso in vera comunione dandone concreta espressione nella propria vita.

    Fu diventando un giovane adulto che all’infausto stato d’animo dell’arroganza riuscì a scorgerne meglio le remote origini capendo che esso possedeva stretti legami con la forza e la preminenza che l’uomo di se stesso aveva sempre riconosciuto e che lo aveva definitivamente convinto di essere superiore a tutte le altre creature e manifestazioni viventi. Una condizione assimilata dentro di sé come verità evidente, indiscutibile e tanto radicata da esercitare influenze non solo fra uomini e il resto esistente ma fra uomini e uomini, facendo emergere una tensione verso l’appagamento di ciò che il proprio sé richiede. Questo senso di superiorità come peculiarità umana poteva così definirsi la fonte dell’arroganza di cui nessuno è immune anche se le sue forme di espressione variano da persona a persona, dai contesti e dagli eventi che via via segnano ogni vita. Essa sa ammaliare l’ego ma non solo quello di ogni singolo individuo bensì quello di ogni società esistente sulla terra, cosicché i suoi valori formativi, i suoi sistemi e i suoi codici morali ed etici si plasmano inevitabilmente anche della sua esuberante forza.

    LA LUCCIOLA DEL KAMO

    Tali innumerevoli riflessioni presero forma con il passare del tempo ma si può sostenere che il loro primo seme si sia insinuato nel piccolo Kou molto precocemente, maturando in fretta e finendo per schiudersi in maniera prorompente un giorno all’ultimo anno della scuola elementare, durante una lezione di Storia dell’Europa. Quella mattina si era alzato più corrucciato del solito, rendendosi conto che il risveglio aveva interrotto uno dei suoi sogni speciali e con esso il viaggio fantastico che lì vi stava compiendo. Era abituato ad essi, a quei suoi strani trasferimenti onirici durante i quali, nonostante la stranezza che li caratterizzava, raramente ne provava smarrimento bensì al contrario se ne sentiva rassicurato; era come un incantesimo più vivido di qualsiasi realtà e che lo accompagnava in mondi inesplorati ma dei quali, in qualche modo, ne percepiva la sensazione che fossero già conosciuti. In quei silenzi antichissimi, perdeva la percezione del suo respiro come se venisse assorbito da un immane, perenne palpito che scandiva e significava l’esistere. Commozione, solo una tracimante ma composta commozione era l’essenza di ciò che lì gli restava di sé e dalla quale affioravano due semplici inequivocabili certezze: l’aspettativa di arrivare alla meta di quel viaggio e l’emozione per riconoscerla, ancor prima di giungervi, come un luogo di ritorno dove il senso di estraneità che caratterizzava invece la sua presenza sulla terra, lì, si sarebbe acquietato. Al risveglio Kou era sempre di pessimo umore, poiché anche se le immagini di quei sogni si dileguavano in fretta, i sentimenti che aveva provato se li portava dentro per molte ore e il ritrovarsi a dover accettare la realtà terrena lo addolorava profondamente. Quella volta tuttavia accade qualcosa di insolito poiché, contrariamente a ciò che abitualmente succedeva, il sogno fu accolto dalla memoria tanto che anche a distanza di tempo capitò che si rendesse straordinariamente vivido, procurandogli, ogni volta, una riconoscente e inconsueta gioia. Fu così che quella mattina, nel vestirsi e nel controllare frettolosamente che nella cartella non mancasse nulla, si ritrovò senza volerlo a riordinare mentalmente lo svolgersi dei fatti del sogno che riuscì a ripercorrere e a rivedere senza particolare sforzo. Percepiva se stesso solo e, anche se non vedeva il suo corpo, si riconosceva essere all’interno di un palloncino trasparente fluttuante nell’atmosfera e poi ancora molto oltre. Riprovò la sensazione di quell’insolita oscillazione nel vuoto che tuttavia non riusciva a sentirlo come un vero vuoto bensì qualcosa che sembrava possedere un certo tipo di consistenza. Contemporaneamente sperimentò anche il senso di costante allontanamento dal luogo di partenza. Più si distaccava più aumentava l’oscurità ma questo non gli procurava alcuna apprensione, sentendosi come raccolto in un grembo infinito che era certo lo avrebbe sempre custodito cosicché la natura di quel buio diveniva rassicurante, premurosa e amorevole. In quella benefica condizione tutto si intuiva essere vivo e vigile e Kou, in piena naturalità, a tale vibrante attenzione se ne sentiva partecipe ma anche incalzato da una emozione forte e inaspettata; essa era nata nello sconcertante riconoscimento che quel tutto era sostanza intelligente e lui era pensiero di quel pensiero. Fu letteralmente un incanto ciò che tale sentire gli stava procurando e che si amplificò alla vista di qualcosa che sembrava bucare quel tiepido mare buio: era un piccolo, splendido globo riverberante di un intenso colore azzurro. Il pianeta era bellissimo ma di una bellezza struggente poiché più che esaltare commuoveva; fu questo che provò Kou cogliendone la fragilità che garbatamente irrorava quel globo tanto da sembrare sostenuto da una delicata mano invisibile che lo sorreggeva evitandogli di precipitare chissà dove. Contemporaneamente ci fu l’intuizione che si trattasse della terra ma ci fu anche la certezza che essa non fosse il luogo da cui si era distaccato all’inizio del viaggio seppure la riconoscesse

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