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Il buio è prossimo: Echi di guerra per il Delegato Ripamonti
Il buio è prossimo: Echi di guerra per il Delegato Ripamonti
Il buio è prossimo: Echi di guerra per il Delegato Ripamonti
E-book424 pagine3 ore

Il buio è prossimo: Echi di guerra per il Delegato Ripamonti

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Info su questo ebook

I fantasmi della Grande Guerra non hanno intenzione di abbandonare la quotidianità del Delegato Ripamonti che, tornato da poco a Mandello del Lario dopo una complicata indagine milanese, è costretto a indagare su due delitti, tanto violenti quanto misteriosi.
Il paesaggio lacustre reso incantato da una straordinaria nevicata, e le confortevoli attenzioni di una donna luminosa e carica di energia, fanno da consolatorio contrappunto all’inchiesta che fa affiorare, dalla penombra del recente passato, una pagina dimenticata del primo conflitto mondiale: quella della Legione Redenta. Incrociando, come spesso gli accade, un’umanità varia e complessa, che affascina per fragilità o coraggio, muovendosi in una terra ghiacciata, metafora dell’individuo ormai cristallizzato nell’egoismo e nell’indifferenza, Ripamonti come un novello Diogene va alla ricerca dell’uomo giusto, che resiste alla tentazione di diventare un assassino per fare giustizia di un torto subito. Nel fare ciò si troverà a soppesare le teorie socialiste ed evoliane. E all’orizzonte si prefigura una potenziale minaccia alle abitudini che egli ha fin qui consolidato.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2021
ISBN9788893782401
Il buio è prossimo: Echi di guerra per il Delegato Ripamonti

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    Il buio è prossimo - Simone Cozzi

    Il buio è prossimo

    Echi di guerra per il Delegato Ripamonti

    di Simone Cozzi

    Panda Edizioni

    ISBN 9788893782401

    © 2021 Panda Edizioni

    www.pandaedizioni.it

    [email protected]

    Immagine di copertina: Dettaglio del monumento a Carlo Guzzi, a Mandello del Lario, foto di Simone Cozzi.

    Proprietà riservata. Nessuna parte del presente libro può essere riprodotta, memorizzata, fotocopiata o riprodotta altrimenti senza il consenso scritto dell'editore. Nomi e marchi citati nel testo sono generalmente depositati o registrati dalle rispettive ditte produttrici o detentrici.

    I fatti e i personaggi rappresentati nella seguente opera, nonché i nomi e i dialoghi ivi contenuti, sono unicamente frutto dell'immaginazione e della libera espressione artistica dell'Autore.

    Ogni similitudine, riferimento o identificazione con fatti, persone, nomi o luoghi reali è puramente casuale e non intenzionale.

    A Francesco

    1.

    Oltre le finestre della casa in Bovisa la bruma novembrina si confondeva con il buio della sera. Seduto alla tavola modestamente imbandita, una capiente scodella, le posate sul tovagliolo, un bicchiere e un piccolo fiasco di vino, Vittorio aveva inspirato con lentezza il profumo che si levava dal piatto di trippa e che lo avvolgeva in abbraccio confortante. Affondato il cucchiaio nella densa brodaglia rossa, lo aveva portato alla bocca. Infine, aveva immerso un tozzo di pane nero nell’intingolo.

    Mentre masticava con lentezza, godendo quel sublime sapore in modo quasi epicureo, aveva ripassato a mente la ricetta della nonna paterna, che la cucinava dopo essersi rimboccata le maniche del vestito e aver indossato il grembiule, che per vezzo o ignoranza si ostinava a chiamare grembiale.

    Alessandra, questo era il suo nome, muoveva il corpo pingue intorno al fornello della stufa, con il cucchiaio di legno stretto nella mano, tenendo entrambi i pugni appoggiati ai fianchi mentre controllava meditabonda le pentole dalle quali saliva il vapore che andava a condensarsi sulle lenti degli occhiali, cosa che aggiungeva una comica cecità temporanea alla sua conclamata sordità.

    Soffriggere in una casseruola il battuto di cipolla e sedano, aggiungere trippa e foiolo, sfumare con del vino bianco. Una volta ottenuta una riduzione, unire le carote tagliate a rondelle, il sedano, i fagioli cannellini e i borlotti. Successivamente aggiungere quattro cucchiai di salsa di pomodoro insieme a una presa di zucchero (per stemperarne l’acido). Bagnare periodicamente con del brodo di verdura e salare il giusto. Protrarre la cottura per un’ora abbondante fino a ottenere un sugo ristretto. Servire in un’ampia scodella.

    Seduta di fronte a lui Adalgisa, sua madre, aspettava con sguardo interrogativo che lui finisse di masticare e che ingoiasse il boccone.

    – E allora?

    – E allora, – le aveva risposto lui a bocca piena, con voce atona, – mi trasferiscono a Mandello.

    – Ma come?

    – Dicono che sia una promozione – aveva aggiunto prima di avvicinare alle labbra il bicchiere col vino.

    Una promozione la chiami? – Suo padre Carlo era intervenuto carico di sarcasmo e risentimento. – Bella promozione: ti mandano in un luogo dimenticato da Dio!

    – Grazie per le parole confortanti, papà. Comunque Mandello è un bel posto, c’è il lago.

    – Lago o non lago, finiremo per non vederti più. Prima la guerra e adesso questa specie di promozione.

    – Ho parlato con Galbiati, il mio superiore: dice che è un’esperienza che mi gioverà. Intanto è un ruolo di responsabilità. Coordinerò degli attendenti, capite? Inoltre, in questi quattro anni, da quando sono tornato dal fronte, a Milano ho già imparato moltissimo. – Si era asciugato le labbra col tovagliolo. – Se restassi ancora qui in città, a suo parere, comincerei a annoiarmi.

    – Sarebbe stato meglio se tu non avessi risolto quel caso del giocatore d’azzardo. – Adalgisa lo guardava con occhi neri che invitavano alla comprensione.

    – Sarebbe stato meglio se avesse imparato a stare al proprio posto, rispettando le gerarchie. È normale che Galbiati lo senta come una minaccia alla propria posizione e se lo voglia levare dalle balle! – aveva fatto eco Carlo, con la voce arrochita dal dispetto e la cadenza milanese enfatizzata all’eccesso.

    – Non avrebbe fatto differenza, mamma, – aveva soggiunto lui, ignorando il rancoroso abbaiare del genitore; si era appoggiato allo schienale con le mani dietro la nuca. – Io scalpito, mi conosci. E la gente come me non è gradita ai superiori.

    Alle proprie parole Vittorio aveva visto quegli stessi occhi docili velarsi progressivamente di malinconia.

    Ma vi aveva colto anche un lampo di orgoglio materno.

    ***

    Il sapore della trippa in umido che stava ora consumando alla trattoria della Posta vecchia di Mandello alta lo aveva riportato indietro nel tempo, alla sera in cui aveva comunicato ai genitori la notizia del proprio imminente trasferimento sul lago di Como.

    C’è chi sperimenta la reminiscenza con un biscotto immerso in una tazza di tè e chi mediante un cucchiaio di foiolo in umido.

    La sensibilità si conforma alle latitudini.

    Oltre i vetri appannati della taverna infuriava una nevicata obliqua.

    Vittorio Ripamonti stava riprendendo confidenza con quel luogo e le proprie confortanti abitudini, temporaneamente abbandonate a causa di una trasferta nella grande città.

    Si sentiva a casa, finalmente, ed era sorprendente che gli venisse naturale chiamare casa proprio quel luogo. La permanenza a Milano durante i due mesi precedenti lo aveva fiaccato, così ora sentiva il bisogno della confortante quotidianità, al riparo nel placido borgo in riva al lago. Qui la semplicità dei gesti ordinari scandiva il tempo.

    Le notizie che provenivano da Roma e dalla Germania, tutte quelle esibizioni di violenza e le manifestazioni di gagliardia, giungevano fino sulle rive tranquille del Lario ad aggravare il pessimismo del poliziotto, offuscando la sua fiducia nel genere umano.

    Il Delegato posò il cucchiaio nel piatto vuoto e si pulì la bocca con il tovagliolo. Alzò lo sguardo e fissò davanti a sé.

    – E allora?

    Ancora quella domanda a interferire con il suo pasto. A porgergliela, questa volta, non era la figura amata della madre, ma un uomo adulto che si era seduto dall’altro lato del suo tavolo prima ancora che Vittorio potesse ordinare. Con educazione aveva chiesto di parlargli e lui aveva accondisceso con un grugnito carico di malavoglia.

    Non amava essere disturbato durante il pasto; gli guastava l’umore per tutto il giorno.

    Quell’uomo, tuttavia, aveva una voce pastosa molto avvolgente, e lui lo aveva lasciato proseguire, ascoltandolo senza guardarlo in volto. Gli piaceva il suono di quella voce morbida che lo cullava.

    Fino a quella domanda diretta, invadente, quasi pressante, alla quale non aveva da offrire risposta: E allora?

    – E allora, dottor Gandini, non so proprio cosa dirvi. Voi mi parlate della scomparsa del vostro amico…

    – … David Ferrara…

    – … esatto, David Ferrara. Non abbiamo certezza che egli sia realmente scomparso. Non sapete nemmeno dirmi dove avesse preso alloggio qui a Mandello! Ammettendo che sia davvero venuto fino a qui, poi.

    – Ciò che affermate è corretto. Però… Insomma, ha disertato un incontro che avremmo dovuto avere tre giorni fa e non ha lasciato nessun messaggio di disdetta, o di scuse. Credetemi, io lo conosco bene, Ferrara. Non è tipo da gesti ineducati. L’ho atteso nel mio studio per almeno due ore: ho fatto in tempo a fumarmi un intero sigaro! E al telefono della sua casa di Milano non risponde da due giorni. È alquanto inusuale.

    Il notaio Gandini era un quarantenne dagli abiti eleganti e dai modi affettati. I capelli precocemente ingrigiti gli conferivano un aspetto aristocratico che ben si adattava al suo stile di vita. Indossava sempre abiti all’ultima moda e guidava macchine costose.

    Era titolare di uno studio notarile in corso Magenta a Milano, e possedeva un piccolo ufficio a Mandello, dove si ritirava quando aveva necessità di lavorare senza essere disturbato. Solo occasionalmente riceveva nei locali sul lago, che riservava alla riflessione e allo studio delle carte, rimandando alla città tutti gli incontri con i clienti.

    In paese era noto per una condotta di vita libertina, punteggiata da piccoli piaceri costosi, come i sigari cubani che reperiva non si sa come, il whisky scozzese, il fois gras e lo champagne, che consumava senza remore anche in quei tempi di diffusa povertà.

    Circolavano, sospinte dall’invidia, voci maliziose su di lui: si diceva che, oltre al tabacco e agli alcolici pregiati, amasse anche la compagnia di donne di volta in volta differenti, e che lo studiolo di Mandello altro non fosse che un pied-à-terre ben riparato, dove rifugiarsi con le sue conquiste occasionali.

    I pettegolezzi insinuavano altresì che sua moglie tollerasse pacificamente questo vizio in cambio di un tenore di vita elevato, di un’elegante dimora nel centro della grande città, e di numerosi viaggi nelle capitali europee dai quali tornava carica di sacchetti delle boutique più prestigiose.

    Ripamonti conosceva solo superficialmente Gandini e con lui conversava durante brevi e occasionali passeggiate nel tratto di lago davanti a villa Falck, o negli improvvisati crocicchi fuori dalle pasticcerie del paese, dopo la Messa.

    Traspariva in lui una malcelata perplessità per il regime, che cercava di non rendere manifesta per il timore di passare dei guai irreversibili. Certe frasi interrotte a metà, alcune allusioni, e la ricerca discreta della complicità attraverso gli sguardi silenziosi, facevano intuire che non fosse esattamente allineato con il pensiero corrente.

    Nella clandestinità funziona così: ci si cerca prudentemente, avvicinandosi con passi cauti, non definitivi, ci si annusa in modo guardingo, fino a quando non si raggiunge la certezza di trovarsi di fronte a un proprio simile, qualcuno di cui fidarsi, in virtù di una sorta d’istinto associativo che anima ogni essere umano, specie nelle circostanze più complicate.

    Mentre lui pranzava, Gandini gli aveva raccontato della telefonata ricevuta dal suo amico David, che aveva necessità di incontrarlo eccezionalmente nell’ufficio di Mandello, lontano da occhi indiscreti.

    Ferrara era un friulano di origine ebrea che viveva e lavorava a Milano come agente di cambio, professione grazie alla quale aveva accumulato una discreta ricchezza.

    – Non vi accennò alla ragione di quell’incontro?

    – Macché! – Si tamburellò le dita sulla fronte, poco sotto all’attaccatura dei capelli brizzolati. – Parlava in modo conciso, quasi circospetto. Mi disse che mi avrebbe spiegato tutto nei minimi dettagli solo una volta chiusa alle spalle la porta del mio ufficio.

    – Vi parve spaventato?

    Il Notaio aveva occhi scuri e penetranti che si posarono sull’interlocutore come chiodi ben conficcati. Esitò.

    – Vedete, se me lo chiedete ora vi rispondo che sì, era spaventato. Sul momento mi sembrò solo misterioso.

    – Capisco. Cosa vi aspettate che faccia? – chiese il poliziotto osservando le mani ben curate di quell’uomo. L’immaginò in un salone di bellezza intento a farsi la manicure prima di un incontro galante.

    – Non ne ho la minima idea, – sorrise Gandini, mettendo in mostra una fila di denti bianchissimi e regolari.

    – Volete venire in caserma e firmare una regolare denuncia di scomparsa?

    – Non lo so. Voi cosa dite? – chiese con una calata che in precedenza non aveva notato.

    – Da che parte del triveneto venite?

    – Sono triestino.

    Ripamonti si alzò e fece un cenno all’oste, un omone sovrappeso con una barba rossa e riccia che, estratto da sotto il bancone un taccuino, annotò il conto di quel pranzo; si erano accordati di regolare il dovuto alla fine di ogni mese, perché il Delegato non amava portare troppo denaro nel portafogli.

    Indossarono i cappotti e si calarono i cappelli sulla fronte. Uscirono così nella tormenta, attraversarono la strada e trovarono riparo sotto i portici.

    – Da oriente mi arrivano solo guai.

    – Ah sì? – sorrise l’altro. – E come mai?

    – Lasciate perdere.

    Non resistette alla tentazione di accendersi una sigaretta, anche se un po’ gli dispiacque guastare il profumo della nevicata. Un uomo, i cui soli occhi chiari erano visibili fra cappello e sciarpa, uscì rapido dalla trattoria e rimase poco distante, assorto con lo sguardo perso dietro ai fiocchi che svolazzavano nell’aria biancastra di quella giornata incantata. Ripamonti ne colse la sagoma con la sola coda dell’occhio, mentre Gandini non se ne avvide.

    – Se veniste in caserma, potremmo intestare una pratica a Ferrara e cominciare con le ricerche. Sebbene – proseguì il Sovrintendente – non abbia assolutamente idea di dove iniziare a cercare. Non sappiamo nemmeno se sia arrivato a Mandello, capite? Molto probabilmente non potremmo far altro che inoltrarla alla questura di Milano. Avete detto che abita lì, giusto?

    – Vedete, signor Delegato, – rispose annuendo col capo, – lui ha insistito per vedermi proprio qui. Io sono sempre restio a ricevere in questo studio. Lo vivo come un rifugio inviolabile, capite?

    Ripamonti fece un cenno di assenso, con gli occhi socchiusi. Comprendeva benissimo, al di là di ogni facile ironia sui costumi libertini del notaio. Rammentava ancora la sgradevole sensazione di sradicamento che aveva provato durante la permanenza a Milano che pure era la sua città natale, quella in cui era cresciuto e alla quale legava i ricordi più felici. Lì, durante i lunghi mesi in cui aveva dovuto soggiornare per compiere un’indagine, si era sentito dislocato.

    Soltanto in un’accogliente casa presso di cui aveva trovato alloggio, in un solido e antico palazzo vicino alla stazione, aveva trovato un ambiente che aveva sentito quasi familiare: un nido non dissimile dalla garçonnière scelta da Gandini a Mandello bassa.

    Tirò una boccata e ripensò alle persone conosciute solo poco prima, in quel fugace ritorno meneghino, e che ora gli sembravano tanto lontane. Gandini interruppe quel meditare.

    – Ascoltatemi, signor Delegato: ho deciso. Farò trascorrere tutta la giornata di oggi. Torno nel mio studio, ho parecchio da concludere, lavorerò fino a tarda ora. Aspetterò e proverò a contattare di nuovo Ferrara. Se domattina non avrò ancora ricevuto notizie da lui, mi recherò alla caserma e sporgerò denunzia.

    – Ma la moglie? Non è preoccupata?

    – Vedete, – mormorò il notaio, infilando con grazia un paio di guanti di pecari marrone; tutto in quell’uomo era raffinatezza ed eleganza, quasi eccessiva: i gesti, le scarpe, i gemelli in oro lavorato che decoravano i polsini della camicia inamidata. – Ferrara non ha una moglie.

    – Strano – mormorò prima di accorgersi dell’insensatezza di quell’affermazione.

    Nemmeno lui, infatti, aveva una moglie.

    – Probabilmente, anzi, sicuramente frequenta una donna. D’altronde, non gli sono mai mancate. Ma ha sempre evitato con cura di legare a doppio filo il proprio destino a quello di altri, – soggiunse l’altro, che non poteva indovinare i pensieri del poliziotto. – Oltretutto, vedete, è molto riservato a proposito delle proprie frequentazioni.

    Vittorio annuì in silenzio, con la mente ancora alla rincorsa di pensieri sfuocati. Si alzò il bavero del cappotto e rientrò in caserma. Gandini, invece, proseguì per un tratto sotto i portici, nel tentativo di preservare dalla neve le belle scarpe di pelle pregiata.

    L’uomo intabarrato, invece, restò davanti alla locanda, con lo sguardo fisso sui due.

    2.

    Trascorse il pomeriggio in ufficio a riordinare le scartoffie. Svuotò i cassetti e gettò appunti di cui non ricordava l’utilità. Fece la punta a quattro matite. Fumò un numero imprecisato di sigarette. Firmò una serie di documenti portati dall’agente Bagalà finché la mano non iniziò a fargli male. Quand’ebbe finito s’intrattenne con lui; si fece raccontare dei giorni di licenza trascorsi presso la famiglia in Calabria, per festeggiare il Natale.

    Angelo, Ripamonti non lo chiamava mai per nome ma così si chiamava, era felice; mentre raccontava della zia o del vecchio nonno sordo e quasi paralitico, gli brillavano gli occhi. In quel luccichio delle pupille, Ripamonti riuscì a indovinare momenti che lui faticava a ricordare.

    Aveva scordato il sapore prolungato di una giornata di festa passata a tavola, in mezzo a familiari che gli rivolgevano gesti di affetto e lo conoscevano da sempre. Pomeriggi pigri davanti al camino, a digerire un pranzo abbondante, mentre fuori imbruniva; con la pipa in bocca, scambiare parole scherzose con persone a lui care, giocando alle carte.

    Riaffiorò la realtà, e lo sorprese consapevole di non poter aspirare ad altro che non giorni solitari o in transitoria compagnia di amici, o di donne che con lui condividevano la medesima sorte incompleta. Bagalà stava scartando un pacchetto portato per lui direttamente dalla casa sull’Aspromonte.

    Conteneva un vassoio di dolcetti insipidi e duri. Ripamonti versò in due tazze il tè in caldo sulla stufa, ne porse una a Bagalà che ricambiò con una pagnottina secca e insipida, ricoperta di glassa bianca.

    L’Aspromonte divenne occasione per conversare della battaglia in cui il generale Garibaldi fu ferito: Bagalà riportò i racconti del nonno che vi aveva preso parte nell’armata di complemento a sostegno dell’esercito piemontese. Parlava sorridendo, e allo stesso tempo muoveva ritmicamente la barba caprina che gli adornava il mento appuntito.

    Vittorio gli porse una sigaretta e stette ad ascoltarlo. Si rese conto che il ragazzo era diventato uomo durante la permanenza in quella caserma. Lì aveva dato sfoggio di dedizione e di opinioni sagaci. Le pupille dell’agente brillavano di furbizia. Lo sguardo penetrante, la voce roca, e la barba lo facevano apparire luciferino.

    ***

    Nel frattempo, il Notaio Gandini era rientrato a casa. Aveva dismesso gli abiti eleganti per indossare una comoda vestaglia di lana pregiata, e delle pantofole ricamate. Gettò un ceppo nel camino e si accomodò allo scrittoio, dove sfogliò distrattamente alcuni atti ancora incompleti. Non riusciva a concentrarsi. Un rumore lungo la strada lo fece andare alla finestra. Non vide nulla di strano, nella pallida luce acroma del pomeriggio. Andò al telefono e compose il numero di Ferrara, lasciò squillare a lungo senza che nessuno rispondesse. Riprovò, tanto nervosamente quanto inutilmente, senza ottenere nessuna soddisfazione. Guardò l’ora. Aspettava altre due visite; dopo, avrebbe chiamato di nuovo.

    ***

    Il buio arrivò senza che Vittorio se ne accorgesse, l’ora di cena era passata.

    Uscì nella strada deserta che scendeva verso il lago, la neve cadeva ancora, sebbene meno fitta; aveva formato uno strato di quasi venti centimetri.

    Non aveva voglia di rientrare a casa, nonostante il freddo e le vie vuote. Anzi, erano proprio queste ultime a invogliarlo a stare in giro. Con le mani riparate nelle tasche, passeggiò senza meta, assaporando il cigolio delle suole sul ghiaccio.

    Oltrepassò il torrente che gorgogliava lento, superò casa propria, e s’infilò nei vicoli che portavano alla darsena del vellutificio.

    Lì, un piccolo canale derivato dal torrente scendeva separando le case di poco più di un metro. Quello era uno degli angoli più tranquilli, anche nei caldi giorni di estate, quando altrove la gente cercava di rinfrescarsi nell’acqua del Lario, e vociava, e alzava schizzi d’acqua che ricadevano come pioggia.

    Poco oltre, vi era una piccolissima rada, circondata dai platani ora spogli e incorniciati di bianco. Due panchine solitarie erano rivolte al lago che in quel momento era buio e fermo. Due anatre e una folaga sostavano sulla spiaggia di sassi, con il becco affondato

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