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Falsa testimonianza
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E-book641 pagine9 ore

Falsa testimonianza

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TI HA VISTA.
E SA COSA HAI FATTO.


Un segreto del passato torna a perseguitare due sorelle, costringendole ad affrontare una terribile verità. Una storia da leggere tutta d’un fiato, con una trama perfetta e personaggi intensi. Il più grande libro di Karin Slaughter.Camilla Läckberg

Tutti i libri di Slaughter sono sorprendenti e realistici, ma è la prodigiosa capacità di creare personaggi memorabili che la fa svettare tra gli altri scrittori di thriller.Washington Post

Brillante e avvincente. Come sempre.The Guardian

Quella di Leigh è un’esistenza che sembra del tutto normale. Lavora come avvocato in uno studio legale di Atlanta, si è appena separata dal marito e vive insieme a Maddy, sua figlia. Eppure dietro quella facciata ordinaria e tranquilla si nasconde il ricordo di un’adolescenza terribile, segnata da un mostruoso e segreto atto di violenza che Leigh ha sempre nascosto. Ed è convinta che il passato non possa tornare a minacciare il suo presente.

Tutto cambia quando viene coinvolta per la prima volta in un caso importante. È una grande occasione, un successo in tribunale potrebbe garantirle una promozione. Il cliente, un uomo facoltoso accusato di aver commesso una serie di stupri, ha chiesto che sia lei a organizzare la difesa. Non appena lo vede, Leigh si rende conto di non essere stata scelta per la sua fama di avvocato senza scrupoli. Quel sorriso, che s’increspa da un lato e fa assumere al volto un’espressione inquietante, lo conosce. Quegli occhi, vuoti e come assenti, li ha già visti. Sono quelli di Trevor, un bambino che ha incontrato quasi vent’anni prima... quando, a diciassette anni, ha vissuto l’esperienza che ha stravolto la sua esistenza.

Trevor conosce il suo segreto. Sa perché ha passato l’intera vita a nascondersi, e sa di poterla rovinare. Se non riuscirà a farlo assolvere, Leigh perderà molto più della causa. L’unica a poterle dare una mano adesso è sua sorella Callie, l’ultima persona al mondo a cui vorrebbe chiedere aiuto. Ma il tempo sta per scadere, e Leigh non ha alternative...

Karin Slaughter, autrice bestseller, torna con un nuovo thriller teso e ricco di colpi di scena. Un romanzo dai personaggi vivi, disperati, pronti a fare di tutto per proteggere se stessi e la propria famiglia.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2021
ISBN9788830530546
Falsa testimonianza
Autore

Karin Slaughter

Autrice regolarmente ai primi posti nelle classifiche di tutto il mondo, è considerata una delle regine del crime internazionale. I suoi quindici romanzi, che sono stati tradotti in trentatré lingue e hanno venduto più di 30 milioni di copie, comprendono la fortunata serie che per protagonista Wil Trent, L'orlo del baratro, che ha ricevuto una nomination al prestigioso Edgar Award, e Quelle belle ragazze, il suo primo thriller psicologico. Nata in Georgia, attualmente vive ad Atalanta.

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    Anteprima del libro

    Falsa testimonianza - Karin Slaughter

    ESTATE 1998

    Dalla cucina, Callie sentì Trevor picchiettare con le dita contro l’acquario. Strinse più forte la spatola con cui stava mescolando l’impasto dei biscotti. Aveva solo dieci anni, e lei era convinta che fosse vittima di bullismo a scuola. Il padre era uno stronzo. Era allergico ai gatti e aveva il terrore dei cani. Qualsiasi strizzacervelli avrebbe detto che spaventava quel povero pesce nel disperato tentativo di attirare l’attenzione, ma Callie stava facendo davvero fatica a sopportarlo.

    Tap, tap, tap.

    Si massaggiò le tempie, cercando di alleviare l’emicrania. «Trev, stai per caso battendo sull’acquario come ti ho detto di non fare?»

    Il suono cessò. «Nossignora.»

    «Sicuro?»

    Silenzio.

    Callie versò l’impasto nella teglia. Il picchiettio riprese, come un metronomo. Lei fece altre file, seguendo il ritmo in tre tempi.

    Tap, tap, plop. Tap, tap, plop.

    Stava chiudendo lo sportello del forno quando Trevor apparve all’improvviso alle sue spalle come un serial killer. La cinse con le braccia, dicendo: «Ti voglio bene».

    Callie ricambiò la stretta con la stessa intensità, e la tensione allentò la morsa sulla sua scatola cranica. Gli diede un bacio sulla testa. Aveva un sapore salato, per via del caldo infernale di quei giorni. Era immobile, ma la sua energia nervosa le fece venire in mente una molla pronta a scattare. «Vuoi leccare la ciotola?»

    La risposta arrivò prima ancora che avesse finito di parlare. Trevor trascinò una sedia fino al bancone e fece come Winnie the Pooh quando infila la testa nel barattolo di miele.

    Callie si asciugò il sudore dalla fronte. Il sole era tramontato da un’ora, ma la casa era ancora rovente. Il condizionatore funzionava a stento e il forno aveva trasformato la cucina in una sauna. Tutto era umido e appiccicoso, inclusi lei e Trevor.

    Aprì il rubinetto. L’acqua fresca era irresistibile. Si bagnò il viso, poi, con gran gioia del bambino, gliene spruzzò un po’ sulla nuca.

    Quando smisero di ridacchiare, Callie regolò il getto d’acqua per lavare la spatola. La poggiò nello scolapiatti accanto a ciò che era rimasto della cena. Due piatti. Due bicchieri. Due forchette. Un coltello per tagliare a pezzetti l’hot dog di Trevor. Un cucchiaino per la poca salsa Worcestershire da mescolare al ketchup.

    Trevor le porse la ciotola da lavare. Quando sorrideva le labbra gli si incurvavano verso sinistra, proprio come a suo padre. Era accanto a lei, davanti al lavandino, con il fianco premuto contro il suo.

    «Stavi battendo sull’acquario?» gli chiese.

    Lui sollevò lo sguardo, e Callie colse un lampo calcolatore nei suoi occhi. Era davvero identico al padre. «Hai detto che quei pesci erano solo per cominciare. Che forse non sarebbero nemmeno sopravvissuti.»

    Sentì una risposta acida, di quelle tipiche di sua madre, premerle contro i denti serrati. Anche tuo nonno sta per morire. Vogliamo andare alla casa di riposo e infilargli degli aghi sotto le unghie?

    Non lo disse a voce alta, ma la molla dentro Trevor si contrasse ancora di più. La capacità di quel bambino di sintonizzarsi sulle sue emozioni la sconvolgeva ogni volta.

    «Okay.» Si asciugò le mani sui pantaloncini, indicando l’acquario con un cenno del capo. «Dobbiamo scoprire come si chiamano.»

    Lui si mise sulla difensiva, temendo come sempre di non aver capito una battuta. «I pesci non hanno nomi.»

    «Certo che li hanno, sciocchino. È solo che loro non si incontrano il primo giorno di scuola per dirsi Ciao, mi chiamo Pesce.» Lo sospinse con dolcezza verso il soggiorno. Le due bavose bicolore tracciavano cerchi nervosi nella vasca. L’attenzione di Trevor era scemata diverse volte durante il difficile processo di allestimento dell’acquario marino. L’arrivo dei pesci aveva ridotto la sua concentrazione a una capocchia di spillo.

    Callie sentì il ginocchio scrocchiare quando si abbassò davanti ai pesci. Il dolore pulsante che provava era più sopportabile della vista delle impronte sudicie di Trevor che offuscavano il vetro. «Che ne dici del piccoletto?» Indicò il più minuto. «Come si chiama?»

    Le labbra di Trevor s’incurvarono a sinistra nel tentativo di trattenere un sorriso. «Esca.»

    «Esca?»

    «Per gli squali che verranno a mangiarlo!» Scoppiò in una risata un po’ troppo fragorosa, rotolandosi a terra in preda all’ilarità.

    Callie cercò di lenire il dolore massaggiandosi il ginocchio. Si guardò intorno con addosso il solito senso di desolazione. La moquette macchiata era stata segnata in più punti dalla fine degli anni Ottanta. I lampioni all’esterno proiettavano fasci di luce lungo gli orli logori delle tende arancioni e marroni. Un angolo della stanza era occupato da un mobile bar ben fornito con dietro uno specchio fumé. Da una mensola sospesa al soffitto pendevano dei bicchieri, e quattro sgabelli di pelle erano ammassati a ridosso del bancone di legno a L appiccicoso. L’intera stanza ruotava intorno a un enorme televisore che pesava più di Callie. Il divano arancione aveva due tristi avvallamenti gemelli alle estremità. Gli schienali delle poltrone marrone scuro erano macchiati di sudore. I braccioli punteggiati di bruciature di sigarette.

    La mano di Trevor scivolò nella sua. Aveva di nuovo intuito il suo stato d’animo.

    «E l’altro pesce?» tentò.

    Lei sorrise e poggiò la testa su quella del bambino. «Che ne dici di…» Si arrovellò in cerca di una buona idea. Sara-Dina, Gengis Karp, Polp Newman… «Merluz Holmes?»

    Trevor arricciò il naso. Non era un appassionato di Conan Doyle. «A che ora torna papà?»

    Buddy Waleski tornava a casa quando diavolo gli andava. «Presto.»

    «I biscotti sono già pronti?»

    Callie si alzò con una fitta per seguirlo in cucina. Controllarono i biscotti da dietro lo sportello del forno. «Non ancora, ma quando avrai finito di fare il bagno…»

    Trevor si lanciò nel corridoio. La porta del bagno sbatté. Si sentì il cigolio del rubinetto. L’acqua che scendeva nella vasca. Il bambino cominciò a canticchiare.

    Chiunque altro avrebbe cantato vittoria, ma Callie lo conosceva bene. Aspettò qualche minuto, poi socchiuse la porta del bagno per assicurarsi che fosse entrato davvero nella vasca. Lo vide immergere la testa nell’acqua.

    Non era ancora un successo – non lo aveva visto usare il sapone – ma era sfinita, le faceva male la schiena e il ginocchio le dava fitte a ogni passo, così non poté fare altro che sopportare il dolore a denti stretti e raggiungere il mobile bar per riempirsi un calice da Martini di Sprite e Captain Morgan in parti uguali.

    Bevve appena due sorsi prima di chinarsi a controllare se sotto il bar ci fosse qualche luce intermittente. Aveva scoperto la videocamera digitale per caso qualche mese prima. Era saltata la corrente e lei si era messa a cercare delle candele, quando con la coda dell’occhio aveva notato una luce lampeggiante.

    All’inizio aveva pensato che, dopo la schiena rotta e il ginocchio ballerino, le mancava solo un distacco di retina, ma la luce era rossa, non bianca, e lampeggiava come il naso della renna Rudolph tra due dei pesanti sgabelli di pelle infilati sotto il bancone. Li aveva tolti di mezzo e aveva osservato la luce rossa che occhieggiava dalla sbarra poggiapiedi di ottone che correva lungo il fondo.

    Era un buon nascondiglio. Sulla parte anteriore del mobile bar c’era un mosaico variopinto. Frammenti di specchio si alternavano a schegge di mattonelle blu, verdi e arancioni mascherando il foro largo due centimetri che arrivava fino ai ripiani dietro di esso. Callie aveva trovato la Canon dietro a uno scatolone pieno di tappi di sughero. Buddy aveva attaccato il cavo di alimentazione allo scaffale con lo scotch, ma la corrente mancava da ore, e la batteria era quasi scarica. Callie non aveva idea di cosa potesse aver ripreso. Era puntata verso il divano.

    Aveva fatto questo ragionamento: Buddy si riuniva lì con gli amici quasi ogni fine settimana. Seguivano le partite di basket, football o baseball e parlavano di stronzate, affari e donne, e con tutta probabilità dicevano cose che potevano dargli un vantaggio, quel genere di vantaggio che poteva sfruttare per concludere qualche accordo, forse quindi era per quello che aveva piazzato la videocamera.

    Forse.

    Nel secondo drink non mise la Sprite. Il rum speziato le bruciò la gola e risalì fino al naso. Callie starnutì, coprendosi con il braccio. Era troppo stanca per andare in cucina a prendere un tovagliolo di carta, quindi ne usò uno del bar per asciugarsi il naso. Le iniziali ricamate le graffiarono la pelle. Guardò il logo: la sintesi perfetta di Buddy. Non gli Atlanta Falcons. Non i Georgia Bulldogs. E nemmeno il Georgia Tech. Buddy Waleski aveva scelto di tifare per i Bellwood Eagles, della seconda divisione, la squadra di un liceo che nell’ultima stagione aveva fatto furore.

    Pesce grosso/stagno piccolo.

    Callie stava finendo di svuotare il bicchiere quando Trevor tornò in soggiorno. La circondò di nuovo con le braccia magre. Lei gli diede un bacio sulla testa. Gli sentì ancora addosso l’odore di sudore, ma per quel giorno non aveva più la forza di sostenere altre battaglie. Il suo unico desiderio era mandarlo a letto in modo da poter continuare a bere fino a cancellare ogni traccia di dolore e sofferenza dal proprio corpo.

    Si sedettero sul pavimento davanti all’acquario in attesa che i biscotti si freddassero. Callie gli raccontò del suo primo acquario, degli errori che aveva commesso, di quanta attenzione e responsabilità erano necessarie per assicurare il benessere dei pesci. Trevor era diventato mansueto, e lei immaginò che fosse l’effetto del bagno caldo, e non che il suo sguardo si spegneva ogni volta che la vedeva dietro al bancone del mobile bar mentre si versava l’ennesimo drink.

    Il senso di colpa di Callie cominciò ad affievolirsi via via che l’ora in cui Trevor doveva andare a letto si avvicinava. Lo sentì cominciare a irrigidirsi quando si sedettero al tavolo della cucina. Il rituale era sempre lo stesso: una discussione sulla quantità di biscotti che poteva mangiare. Latte versato. Un’altra discussione per i biscotti. Poi un’altra ancora per il letto in cui poteva dormire. Una lotta per fargli mettere il pigiama. Una trattativa sul numero di pagine che gli avrebbe letto quella sera. Un bacio della buona notte, un altro bacio della buona notte, la richiesta di un bicchier d’acqua. Ma non quel bicchiere, l’altro. Non quell’acqua, l’altra. Poi grida, pianti, altre lotte, altre trattative, promesse per l’indomani – giochi da fare, una gita al parco acquatico. E avanti così finché finalmente si sarebbe ritrovata di nuovo da sola dietro il bancone del mobile bar.

    Si trattenne dal correre ad aprire una bottiglia come un’alcolista disperata. Le tremavano le mani. Osservò il tremito in silenzio in quella stanza squallida. Le ricordava Buddy più di tutte le altre. L’aria era soffocante. Il fumo di migliaia di sigarette e sigarini aveva macchiato il soffitto basso. Perfino le tele dei ragni negli angoli erano di un arancione scuro, quasi marrone. Callie non si toglieva mai le scarpe in casa, perché la sensazione della moquette appiccicosa che le afferrava i piedi le dava il voltastomaco.

    Svitò lentamente la bottiglia di rum. L’odore speziato le solleticò di nuovo il naso. Le venne l’acquolina in bocca per la brama. Le bastava il pensiero per avvertire l’effetto anestetizzante del terzo drink, che non sarebbe stato l’ultimo, ma quello che le avrebbe fatto rilassare le spalle, cancellando gli spasmi alla schiena, il dolore pulsante al ginocchio.

    La porta della cucina si aprì. Buddy tossì, il catarro denso nella gola. Buttò la valigetta sul bancone, calciò la sedia di Trevor sotto il tavolo e afferrò una manciata di biscotti. Teneva il sigarino in una mano mentre masticava con la bocca aperta. Callie quasi sentiva le briciole cadere dal tavolo, rimbalzargli sulle scarpe logore e spargersi per tutto il linoleum, come fossero minuscoli cimbali che battevano uno contro l’altro, perché ovunque fosse Buddy c’era rumore, rumore, rumore.

    Alla fine la notò. Per un attimo Callie si era sentita felice di vederlo, aveva sperato che la prendesse tra le braccia e la facesse sentire speciale, come un tempo. Poi gli caddero di bocca altre briciole. «Versamene uno, bambolina.»

    Gli riempì un bicchiere di Scotch e soda. Il puzzo del sigarino invase la stanza. Black & Mild. Non lo aveva mai visto senza una di quelle scatole che gli spuntava dal taschino della camicia.

    Buddy finì di mangiare gli ultimi due biscotti avanzando verso il mobile bar. Passi pesanti che facevano cigolare le assi del pavimento. Briciole sulla moquette. Briciole sulla sua camicia da lavoro stropicciata e macchiata di sudore. Intrappolate nella barba corta che ormai stava ricrescendo.

    Era alto un metro e novanta quando raddrizzava la schiena, cioè praticamente mai. Aveva la pelle arrossata e capelli più folti della media degli uomini della sua età, con qualche filo che cominciava a ingrigire. Si allenava, ma solo con i pesi, perciò il suo era più un fisico da gorilla che da uomo – busto corto e braccia così muscolose da non poterle stendere lungo i fianchi. Callie di rado lo vedeva senza le mani strette a pugno. Tutto in lui rivelava che era un brutale figlio di puttana. In giro, la gente cambiava strada quando lo vedeva.

    Se Trevor era una molla contratta, Buddy era un martello da fabbro.

    Lasciò cadere il sigarino nel posacenere e tracannò lo Scotch sbattendo poi il bicchiere sul bancone. «Hai passato una buona giornata, bambola?»

    «Certo.» Si spostò di lato per dargli modo di versarsene un altro.

    «La mia è stata favolosa. Hai presente il nuovo centro commerciale sulla Stewart? Indovina chi farà la struttura?»

    «Tu» disse lei, anche se Buddy non aveva aspettato che rispondesse.

    «Ho avuto l’anticipo oggi. Getteranno le fondamenta domani. Non c’è niente di meglio di un po’ di contanti in tasca, giusto?» Ruttò, battendosi il petto per far uscire meglio l’aria. «Portami un po’ di ghiaccio, ti spiace?»

    Callie fece per andare, ma lui le afferrò il sedere come se stesse girando una maniglia.

    «Guarda qui che bel cosino.»

    C’era stato un periodo, nei primi tempi, in cui Callie aveva trovato divertente quell’ossessione per il suo essere minuta. La sollevava con un braccio solo, oppure si meravigliava che nel tenerle una mano sulla schiena con il pollice e il mignolo arrivasse quasi a toccarle le ossa del bacino. La chiamava piccola, baby, bambolina, e ora…

    Era soltanto l’ennesima caratteristica di lui che le dava fastidio.

    Callie si strinse il secchiello del ghiaccio contro lo stomaco e si diresse in cucina. Lanciò uno sguardo all’acquario. Le bavose si erano calmate. Nuotavano tra le bolle che fuoriuscivano dal filtro. Riempì il secchiello col ghiaccio del congelatore che odorava di bicarbonato e carne guasta.

    Buddy ruotò sullo sgabello mentre lei tornava. Aveva tagliato la punta del sigarino e lo stava rimettendo dentro il pacchetto. «Cavolo, ragazzina, adoro come muovi i fianchi. Fai una piroetta per me.»

    Le venne voglia di alzare di nuovo gli occhi al cielo: non per lui, ma per se stessa, perché una minuscola, stupida, marginale parte di lei ancora cadeva in quei trucchetti per conquistarla. Era stato la prima persona al mondo che l’avesse fatta sentire davvero amata. Non si era mai sentita speciale, importante, né la ragione di vita per un altro essere umano. Buddy l’aveva fatta sentire protetta, amata.

    Solo che negli ultimi tempi sembrava che il suo unico interesse fosse fotterla.

    Buddy si mise in tasca il pacchetto di Black & Mild e piantò una manona nel secchiello del ghiaccio. Lei vide le mezzelune di sporco sotto le sue unghie.

    «Come sta il piccoletto?» le domandò.

    «Dorme.»

    Si ritrovò con la mano di lui infilata tra le gambe prima ancora di notare quella luce nei suoi occhi. Le ginocchia le cedettero. Era come stare seduta sull’estremità piatta di una pala.

    «Buddy…»

    Con l’altra mano le afferrò il sedere, intrappolandola tra le braccia massicce. «Guarda quanto sei piccola. Potrei metterti in tasca e nessuno saprebbe mai che sei lì dentro.»

    Callie sentì il sapore di biscotti, Scotch e tabacco quando le infilò la lingua in bocca. Ricambiò il bacio, perché respingerlo e ferire il suo ego avrebbe solo prolungato il tutto, e alla fine lei si sarebbe ritrovata sempre allo stesso, maledetto punto.

    Nonostante l’apparenza minacciosa, Buddy si trasformava in un pappamolle quando si trattava di sentimenti. Era in grado di ammazzare di botte un uomo adulto senza batter ciglio, ma con lei a volte era così debole da farle accapponare la pelle. Aveva passato ore a rassicurarlo, coccolarlo, incoraggiarlo, ad ascoltare le sue insicurezze sopraggiungere come le onde dell’oceano sulla sabbia.

    Perché stava con lui? Doveva trovarsi un altro. Lui non era alla sua altezza. Troppo carina, troppo giovane, troppo intelligente, troppo di classe. Perché sprecava tempo con uno stupido bestione come lui? Che cosa ci trovava? No, doveva dirglielo nel dettaglio, e subito: cos’era che le piaceva di lui, in particolare? Nello specifico.

    Le diceva continuamente che era bellissima. La portava nei migliori ristoranti, negli hotel più sofisticati. Le comprava gioielli e vestiti costosi e dava soldi a sua madre quando ne aveva bisogno. Era pronto a prendere a pugni chiunque anche solo pensasse di guardarla nel modo sbagliato. Forse il mondo poteva credere che Callie avesse avuto culo, ma dentro di sé si chiedeva se non sarebbe stato meglio se lui fosse stato crudele con lei quanto lo era con tutti gli altri. Almeno avrebbe avuto un motivo per odiarlo, qualcosa di concreto, e non quelle sue lacrime patetiche che le inzuppavano la maglietta o le sceneggiate in ginocchio a implorarla di perdonarlo.

    «Papà?»

    La voce di Trevor la fece sussultare. Era in corridoio con la coperta stretta tra le dita.

    Le mani di Buddy la bloccavano. «Torna a letto, figliolo.»

    «Voglio la mamma.»

    Callie chiuse gli occhi per non dover vedere il viso del bambino.

    «Obbedisci» lo ammonì Buddy. «Su.»

    Lei trattenne il fiato, espirando solo quando sentì i passi lenti di Trevor allontanarsi. I cardini della porta della sua camera da letto cigolarono. Sentì la serratura scattare.

    Callie si staccò da lui. Andò dietro il bancone e cominciò a girare le etichette sulle bottiglie, a pulire il ripiano, cercando di non dare a vedere che stava mettendo un ostacolo tra loro.

    Lui fece una risatina, massaggiandosi le braccia come se in quella casa miserabile non facesse un caldo soffocante. «Come mai tutto a un tratto fa così freddo?»

    «Dovrei andare a controllarlo» disse Callie.

    «Nah.» Buddy girò intorno al mobile bar, sbarrandole l’uscita. «Prima controlla me.»

    Le guidò il palmo sul rigonfiamento nei pantaloni. Le mosse la mano su e giù, e le fece venire in mente una volta in cui lo aveva visto tirare la corda del tosaerba per avviarne il motore.

    «Così.» Ripeté il movimento.

    Callie cedette. Cedeva sempre.

    «Brava.»

    Callie chiuse gli occhi. Sentiva l’odore del sigarino spuntato che ancora bruciava nel posacenere. L’acquario gorgogliava dall’altra parte della stanza. Cercò di farsi venire in mente qualche nome adatto a un pesce da proporre a Trevor l’indomani.

    James Tonn. Darth Cefal. Lord ARingo Starr.

    «Dio, che mani piccole.» Buddy si sbottonò i pantaloni. Le spinse le spalle verso il basso. La moquette dietro il mobile bar era umida. Callie sentì le ginocchia affondare nel tessuto. «Sei la mia piccola ballerina.»

    Callie glielo prese in bocca.

    «Cristo.» La stretta di Buddy sulle sue spalle era decisa. «Brava. Così.»

    Callie serrò gli occhi.

    Tonna Turner. Leonardo DiCarpio. Brad Pinn.

    Buddy le diede un colpetto sulla spalla. «Dài, piccola, finiamo sul divano.»

    Callie non aveva voglia di andare sul divano. Voleva che finisse subito. Voleva andare via, stare da sola, prendere aria e riempirsi i polmoni di qualsiasi cosa che non fosse lui.

    «Maledizione!»

    Si bloccò.

    Non ce l’aveva con lei.

    Intuì che Trevor era di nuovo in corridoio. Cercò di immaginare cosa avesse visto. La grossa mano di Buddy aggrappata al bancone, i fianchi che si muovevano contro qualcosa nascosto dal mobile bar.

    «Papà?» chiese lui. «Dove…»

    «Che cosa ti avevo detto?» ruggì Buddy.

    «Non ho sonno.»

    «Allora bevi la medicina. Vai.»

    Callie guardò verso l’alto. Buddy indicava la cucina con un dito tozzo. Sentì la sedia di Trevor che veniva trascinata sul linoleum. Lo schienale che sbatteva contro il bancone. Il mobile che si apriva con uno scricchiolio. Un ticchettio quando Trevor girò il tappo a prova di bambino del flacone di NyQuil. Buddy lo chiamava medicina della nanna. Gli antistaminici lo avrebbero steso per tutta la notte.

    «Bevilo» gli ordinò.

    Callie immaginò le onde leggere sulla gola di Trevor quando inclinava la testa all’indietro e mandava giù il latte.

    «Lascialo sul bancone» disse Buddy. «Torna in camera.»

    «Ma io…»

    «Torna nella tua maledetta camera e restaci, se non vuoi che ti spelli il culo a forza di calci.»

    Ancora una volta, Callie trattenne il fiato finché non sentì lo scatto della serratura della camera di Trevor.

    «Che rompicoglioni.»

    «Buddy, forse dovrei…»

    Si alzò nel momento preciso in cui lui si stava voltando. Senza volere, Buddy la colpì al naso col gomito. Lo schiocco dell’osso che si rompeva la investì come un lampo improvviso. Era così stordita da non riuscire nemmeno a sbattere le palpebre.

    Buddy era sconvolto. «Bambolina? Tutto okay? Scusami, non…»

    I sensi di Callie si riattivarono uno dopo l’altro. I suoni raggiunsero le sue orecchie. Il dolore si propagò nei nervi. La vista le si appannò. La bocca le si riempì di sangue.

    Cercò aria, ma il sangue le scivolò giù per la gola. La stanza cominciò a vorticare. Stava per svenire. Le cedettero le ginocchia, e cercò freneticamente un appiglio per non cadere. La scatola di cartone si rovesciò, cadendo dal ripiano. Sentì la nuca urtare il pavimento. Tappi di sughero le colpirono il petto e il viso come grosse gocce di pioggia. Guardò il soffitto e vide il pesce bicolore che nuotava agitato davanti ai suoi occhi. Sbatté di nuovo le palpebre, e il pesce fuggì via. Sentiva l’aria vorticarle nei polmoni. La testa prese a pulsarle a ritmo del battito del cuore. Si tolse qualcosa dal petto. La scatola di Black & Mild era caduta dal taschino di Buddy, rovesciandole addosso i sigarini sottili. Provò a voltare la testa per vedere dove fosse lui.

    Si aspettava di trovargli dipinta in viso quella sua espressione di scuse da cucciolone, invece non le prestava la minima attenzione. Teneva tra le mani la videocamera, che lei aveva trascinato a terra con sé insieme alla scatola. Si era staccato un pezzo di plastica sull’angolo.

    «Merda» fece lui con un filo di voce.

    Alla fine la guardò. Il suo sguardo si fece torbido, proprio come quello di Trevor. Era stato colto in flagrante, e stava cercando una via d’uscita.

    La testa di Callie ricadde sulla moquette. Era ancora molto disorientata. Tutto ciò che vedeva pulsava al ritmo del suo cranio: i bicchieri appesi in alto, le macchie marroni d’umidità sul soffitto. Si tossì in una mano, e il sangue le chiazzò il palmo. Sentì Buddy muoversi.

    Lo guardò di nuovo. «Buddy, avevo già…»

    Senza preavviso lui la sollevò per un braccio. Le gambe la sorressero a stento. La gomitata era stata più violenta di quanto le fosse parso in un primo momento. Il mondo intorno a lei aveva cominciato a incepparsi, come un disco con la puntina bloccata nello stesso solco. Tossì ancora, barcollando in avanti. Le sembrava di avere la faccia aperta in due. Un grosso rivolo di sangue le scendeva giù per la gola. La stanza le vorticava intorno. Aveva una commozione cerebrale? Le sembrava proprio una commozione.

    «Buddy, credo di…»

    «Zitta.» L’afferrò con forza per la nuca. La trascinò in soggiorno e poi in cucina, come fosse un cane disobbediente. Callie era troppo sorpresa per lottare.

    La collera di Buddy esplodeva sempre all’improvviso, una specie di fuoco che annientava ogni cosa intorno a sé. In genere lei sapeva cos’era a innescarla.

    «Buddy, sono…»

    La gettò contro il tavolo. «Vuoi stare zitta e ascoltarmi, cazzo?»

    Callie tese le mani dietro di sé per sorreggersi. Vide la cucina inclinarsi di lato. Stava per dare di stomaco. Doveva raggiungere il lavandino.

    Buddy diede un pugno sul bancone. «Piantala di fare scene, maledizione!»

    Callie si coprì le orecchie con le mani. Il suo viso era paonazzo. Era furioso. Perché era così fuori di sé?

    «Sto parlando sul serio, cazzo.» Il tono si era addolcito, ma le parole gli erano uscite in un ringhio profondo, minaccioso. «Devi starmi a sentire.»

    «Okay, okay, dammi solo un attimo.» Le tremavano ancora le gambe. Si protese verso il lavandino, aprì il rubinetto, aspettò che l’acqua diventasse limpida. Infilò la testa sotto il getto freddo. Le bruciava il naso. Sussultò, e il dolore le investì il viso come una scarica.

    La mano di Buddy si piantò sul bordo del lavandino. Stava aspettando.

    Callie sollevò la testa. Il senso di stordimento la fece vacillare di nuovo. Prese uno strofinaccio dal cassetto. Il tessuto ruvido le grattò le guance. Se lo premette sotto il naso, cercando di tamponare l’emorragia. «Che c’è?»

    Lui dondolava sui talloni. «Non devi dire a nessuno della telecamera, okay?»

    Il panno era già zuppo. Il sangue non smetteva di uscirle dal naso, colando nella bocca, giù per la gola. Callie non aveva mai desiderato tanto di potersi mettere a letto e chiudere gli occhi. Di solito Buddy sapeva quando ne aveva bisogno, la prendeva in braccio, attraversava il corridoio, le rimboccava le coperte e le accarezzava i capelli finché non si addormentava.

    «Callie, giuramelo. Guardami negli occhi e giura che non aprirai bocca.»

    Le aveva messo di nuovo la mano sulla spalla, ma con più gentilezza. La collera aveva cominciato ad affievolirsi. Le sollevò il mento con le dita tozze. Callie si sentiva una Barbie che lui tentava di mettere in posa.

    «Cazzo, bimba. Guarda com’è ridotto il tuo naso. Stai bene?» Prese uno strofinaccio pulito. «Scusami, okay? Dio, il tuo bellissimo visetto. Stai bene?»

    Lei tornò a voltarsi verso il lavandino e sputò il sangue. Le sembrava di avere il naso stritolato tra due ingranaggi. Doveva essere una commozione cerebrale. Vedeva tutto doppio. Due grumi di sangue. Due rubinetti. Due scolapiatti sul bancone.

    «Senti.» Buddy le afferrò le braccia facendola voltare e bloccandola contro gli sportelli. «Andrà tutto bene, okay? Ci penserò io. Ma non devi dire a nessuno della telecamera, okay?»

    «Okay» rispose, perché dargli ragione era sempre la strada più semplice.

    «Dico sul serio, piccola. Guardami negli occhi e giuramelo.» Callie non riuscì a capire se fosse preoccupato o furioso finché non la scosse come una bambola di pezza. «Guardami.»

    Poté solo limitarsi a un lento battito di ciglia. Una nube la divideva da tutto il resto. «Lo so che è stato un incidente.»

    «Non parlo del tuo naso. Parlo della telecamera.» Si leccò le labbra, e la lingua guizzò come una lucertola. «Non devi aprire bocca sulla telecamera, piccola. Rischio di finire in prigione.»

    «Prigione?» Quella parola spuntava dal nulla, non aveva alcun significato. Avrebbe potuto dirle anche unicorno e sarebbe stato lo stesso. «Perché mai…»

    «Bambolina. Per favore, non essere sciocca.»

    Lei sbatté le palpebre, e all’improvviso, come una lente che mette a fuoco, riuscì a vederlo in modo chiaro.

    Buddy non era preoccupato, né in collera, né divorato dal senso di colpa. Era terrorizzato.

    Da cosa?

    Callie sapeva della videocamera da mesi, ma non aveva mai riflettuto sul suo scopo. Aveva immaginato che avesse a che fare con i festini del fine settimana. Il frigo stracolmo di birre, l’aria densa di fumo, il televisore a tutto volume, uomini ubriachi che ridevano e si davano pacche sulle spalle mentre lei cercava di preparare Trevor per portarlo al cinema o al parco, da qualsiasi altra parte purché stessero fuori di casa.

    «Devo…» Si soffiò il naso nello strofinaccio. Scie di sangue disegnarono una ragnatela sul tessuto bianco. La sua mente cominciava a schiarirsi, ma sentiva ancora un fischio nelle orecchie. Quel colpo involontario l’aveva stesa di brutto. Perché era stato così sbadato?

    «Ehi.» Le affondò le dita nelle braccia. «Ascoltami, bambola.»

    «Piantala di dirmi che devo ascoltare. Sto ascoltando. Ho sentito ogni parola che hai detto, maledizione.» Tossì così forte che fu costretta a piegarsi in due. Si asciugò la bocca. Lo guardò di nuovo. «Registri i tuoi amici? È a questo che ti serve?»

    «Non pensiamo più alla telecamera.» Buddy trasudava paranoia. «Hai preso un colpo in testa, piccola. Stai delirando.»

    Che cosa le sfuggiva?

    Le aveva detto di essere un appaltatore, ma non aveva un ufficio. Se ne andava in giro sulla sua Corvette tutto il giorno. Sapeva che faceva l’allibratore, ma anche lo scagnozzo, mettendo i muscoli a disposizione di chi fosse pronto a pagarlo. Aveva sempre con sé un mucchio di contanti. Conosceva sempre qualcuno che conosceva qualcuno. Registrava i suoi amici per costringerli a fargli dei favori? Lo pagavano perché spezzasse qualche osso, desse fuoco a qualche edificio, o trovasse un punto debole da sfruttare per chiudere un accordo o vendicarsi di un nemico?

    Callie cercò di tenere insieme le tessere di un puzzle che ancora non riusciva a ricostruire nella sua mente. «Che cos’è che fai, Buddy? Li ricatti?»

    Lui fece una pausa appena troppo lunga prima di rispondere: «Sì. È proprio così, piccola. Li ricatto. È da lì che arrivano i contanti. Non devi fartelo scappare. L’estorsione è un reato grave. Potrebbero ingabbiarmi per il resto della vita».

    Lei puntò lo sguardo verso il soggiorno, lo immaginò pieno dei suoi amici – sempre gli stessi. Alcuni non li conosceva, ma altri facevano parte della sua vita e si sentiva in colpa a ottenere vantaggi, anche se solo in parte, dalle attività illecite di Buddy. Il dottor Patterson, il preside della scuola. L’allenatore Holt, il mister dei Bellwood Eagles. Il signor Humphrey, venditore di auto usate. Il signor Ganza, direttore del reparto gastronomia del supermercato. Il signor Emmett, che lavorava nello studio del suo dentista.

    Che cosa potevano aver mai fatto? Di quali azioni riprovevoli potevano essersi macchiati un allenatore, un venditore di auto, un viscido vecchio coglione, santo cielo? Possibile che fossero stati così sprovveduti da confessarle proprio a Buddy Waleski?

    E perché quegli idioti continuavano a tornare ogni fine settimana per guardare partite di football, basket, baseball, calcio, se Buddy li ricattava?

    Perché fumavano i suoi sigari? Perché bevevano le sue birre? Perché facevano bruciature nei suoi mobili? Perché gridavano contro il suo televisore?

    Finiamo sul divano.

    Lo sguardo di Callie seguì il triangolo che dal foro di due centimetri davanti al pannello del mobile bar passava per il divano proprio lì di fronte per terminare col televisore gigante che pesava più di lei.

    Sotto c’era una mensola di vetro.

    Decoder. Splitter per cavi. Videoregistratore.

    Era abituata a vedere il cavo RCA a tre punte che pendeva dai jack davanti al videoregistratore. Il rosso era per il canale audio di destra, il bianco per quello di sinistra e il giallo per il video. Il cavo era collegato a un lungo filo attorcigliato che passava sulla moquette sotto il televisore. Mai, nemmeno una volta, si era domandata a cosa fosse collegata l’altra estremità.

    Finiamo sul divano.

    «Piccolina.» Buddy grondava disperazione. «Forse dovresti tornare a casa, okay? Ti do un po’ di soldi. Come ti dicevo, mi hanno pagato per quel lavoro di domani. Facciamo girare un po’ di denaro, no?»

    Callie lo guardò.

    E in quel momento lo vide davvero.

    Buddy si infilò una mano in tasca e tirò fuori un rotolo di banconote. Le contò, come se stesse contando tutti i modi in cui la teneva sotto controllo. «Comprati una maglietta nuova, d’accordo? Prendi anche dei pantaloni che ci stiano bene, o un paio di scarpe, quello che vuoi. Una collana, magari? Ti piace la collana che ti ho regalato, vero? Prendine un’altra. O quattro. Come Mr. T.»

    «Hai filmato noi due?» Pronunciò quelle parole senza darsi il tempo di riflettere su quale inferno si sarebbe scatenato in risposta. Non facevano più l’amore nel letto. Lo facevano sempre sul divano. E tutte quelle volte in cui l’aveva portata in camera per rimboccarle le coperte? Era subito dopo aver finito sul divano. «È questo che fai, Buddy? Ti riprendi mentre mi scopi e poi lo fai vedere ai tuoi amici?»

    «Non dire scemenze.» Lo aveva detto con lo stesso tono di Trevor quando aveva giurato che non stava battendo contro il vetro dell’acquario. «Non lo farei mai, cosa credi? Io ti amo.»

    «Sei uno schifoso pervertito.»

    «Ehi, attenta a come parli.» Non era una minaccia fine a se stessa. Callie capì precisamente cosa stava succedendo – cosa succedeva da almeno sei mesi.

    Il dottor Patterson che la salutava con la mano dalle gradinate durante le esibizioni delle cheerleader.

    L’allenatore Holt che le strizzava l’occhio dalla panchina durante le partite di football.

    Il signor Ganza che le sorrideva mentre passava a sua madre del formaggio affettato dal bancone della gastronomia.

    «Tu…» Sentì la gola serrarsi. Tutti loro l’avevano vista senza vestiti. Avevano visto le cose che aveva fatto a Buddy sul divano. Quelle che Buddy aveva fatto a lei. «Non posso…»

    «Callie, calmati. Stai facendo l’isterica.»

    «Certo che sono isterica, cazzo!» gridò. «Mi hanno vista, Buddy. Mi hanno guardata. Sanno tutto quello che ho… che abbiamo…»

    «E su, bambola.»

    Lei si prese la testa tra le mani, umiliata.

    Il dottor Patterson. L’allenatore Holt. Il signor Ganza. Non erano mentori, figure paterne o dolci vecchietti. Erano dei pervertiti che si eccitavano guardando Callie che veniva scopata.

    «Dài, piccola» disse lui. «Lo stai facendo sembrare chissà che.»

    Le lacrime le rigarono il viso. Non riusciva nemmeno a parlare. Era stata innamorata di lui, aveva fatto qualsiasi cosa per lui. «Come hai potuto farmi questo?»

    «Questo cosa?» Sembrava offeso. Il suo sguardo si posò sul rotolo di banconote. «Hai avuto tutto quello che volevi.»

    Lei scrollò il capo. Non aveva mai voluto questo. Voleva solo sentirsi al sicuro, protetta. Avere qualcuno cui importasse della sua vita, dei suoi pensieri, dei suoi sogni.

    «Forza, ragazzina. Ti sei potuta pagare le uniformi, il campo estivo delle cheerleader e tutti…»

    «Lo dirò a mia madre» lo minacciò. «Le dirò tutto quello che hai fatto.»

    «E pensi che gliene freghi qualcosa?» Scoppiò in una risata genuina: sapevano entrambi che era la verità. «Finché le arrivano i soldi, per tua madre va bene tutto.»

    Callie mandò giù i pezzi di vetro che sentiva nella gola. «E Linda?»

    Lui spalancò la bocca come un pesce.

    «Che cosa penserà tua moglie quando saprà che sono due anni che ti scopi la baby-sitter quattordicenne di tuo figlio?»

    Sentì il sibilo dell’aria che veniva risucchiata tra i suoi denti.

    Da quando stava con lui, Buddy non aveva fatto altro che parlare delle sue mani piccole, della sua vita minuscola, della sua boccuccia, ma mai e poi mai aveva accennato al fatto che tra loro c’erano oltre trent’anni di differenza.

    Che era un criminale.

    «Linda è ancora in ospedale, giusto?» Callie andò verso il telefono accanto alla porta. Con le dita sfiorò il numero da chiamare in caso di emergenza incollato al muro. Non sapeva nemmeno lei se sarebbe davvero riuscita a fare quella telefonata. Linda era sempre così gentile. Quella notizia l’avrebbe distrutta. Buddy non le avrebbe mai permesso di arrivare a tanto.

    Eppure, sollevò la cornetta, aspettandosi di sentirlo piangere, implorare e pregarla di perdonarlo, dichiarandole ancora una volta tutto il suo amore e la sua devozione.

    Ma lui non fece nulla di tutto ciò. Restò immobile, a bocca aperta. Se ne stava lì come un gorilla surgelato, con le braccia rigide scostate dal busto.

    Callie gli voltò le spalle. Si posò il ricevitore sulla spalla. Allungò il filo a spirale per non inciampare. Premette il numero 8 sulla tastiera.

    Il mondo rallentò prima che il suo cervello potesse registrare quello che stava succedendo.

    Il pugno che le arrivò ai reni fu come un’auto lanciata a tutta velocità che la investì da dietro. La cornetta le cadde dalla spalla. Le braccia volarono verso l’alto. I piedi si staccarono da terra. Avvertì l’aria sulla pelle mentre spiccava il volo.

    Finì col petto contro il muro. Il naso schiacciato. I denti affondati nel cartongesso.

    «Stupida puttana.» Buddy le afferrò la nuca e le sbatté di nuovo la faccia contro la parete. E ancora. Poi la tirò indietro una terza volta.

    Callie si sforzò di piegare le ginocchia. Sentì i capelli strapparsi dalla testa mentre si raggomitolava sul pavimento. Era già stata picchiata, in passato, e sapeva bene come prenderle. Ma allora si trattava di qualcuno di dimensioni e forza più o meno comparabili alle sue. Qualcuno che non massacrava la gente di professione. Qualcuno che non aveva mai ucciso in vita sua.

    «E così mi vuoi minacciare!» Il piede di Buddy le arrivò sullo stomaco come una palla demolitrice.

    Il corpo di Callie fu sollevato da terra. I suoi polmoni si svuotarono. Una fitta lacerante le disse che le aveva fratturato una costola.

    Buddy si mise in ginocchio, e lei lo guardò. Aveva gli occhi spiritati, rivoli di saliva agli angoli della bocca. Le serrò una mano intorno al collo. Callie cercò di strisciare via, ma finì a terra supina. Le si sedette sopra. Il peso di quell’uomo era insostenibile. La stretta aumentò. La trachea si contrasse verso la colonna vertebrale. La stava soffocando. Lo colpì, tentando di assestargli il pugno tra le gambe. Una volta, due. Con un colpo di striscio riuscì a fargli allentare la stretta. Gli sgusciò da sotto, cercando un modo per alzarsi, per correre, per fuggire via di lì.

    Nell’aria crepitò un suono che lei non riconobbe.

    Sentì un fuoco sulla schiena. La pelle che veniva sferzata. Buddy l’aveva frustata con il cavo del telefono. Il sangue ribolliva come acido lungo la sua spina dorsale. Callie sollevò una mano e vide la pelle del braccio squarciarsi quando il cavo le si arrotolò intorno al polso.

    D’istinto, tirò indietro il braccio di scatto. Lui perse la presa. Callie lesse la sorpresa sul suo volto e cercò di mettersi con la schiena verso il muro. Si scagliò contro di lui, con pugni, calci, agitando il cavo come una pazza, mentre urlava: «Vaffanculo, pezzo di merda! Ti ammazzo, bastardo!».

    La sua voce rimbombava nella cucina.

    All’improvviso, in qualche modo, tutto si fermò.

    A un certo punto, Callie era riuscita non si sa come a balzare in piedi. Aveva una mano sollevata dietro la testa, pronta a far scattare il cavo come una frusta. Erano uno contro l’altra, a pochi millimetri di distanza.

    La risata sorpresa di Buddy si trasformò in un ghigno soddisfatto. «Accidenti, ragazza.»

    Gli aveva aperto uno squarcio sulla guancia. Si asciugò il sangue con le dita, poi se le mise in bocca, succhiandole rumorosamente.

    Callie sentì lo stomaco chiudersi in un nodo stretto.

    Sapeva che il sapore della violenza faceva emergere il suo lato più oscuro.

    «Forza, tigre.» Sollevò i pugni come un boxeur pronto al round decisivo. «Fatti sotto.»

    «Buddy, per favore.» Callie pregò in silenzio che i suoi muscoli restassero scattanti, le giunture elastiche, per essere pronti a lottare al massimo delle forze, perché l’unico motivo per cui quell’uomo si stava mostrando calmo, in quel momento, era che aveva deciso di ucciderla divertendosi. «Non deve per forza andare così.»

    «Dolcezza, prima o poi sarebbe finita così in ogni caso.»

    Callie lasciò che quella consapevolezza sedimentasse nella sua mente. Sapeva che era la verità. Era stata una stupida. «Non dirò niente, lo giuro.»

    «È troppo tardi, ormai, bambola. Credo tu lo sappia già.» Teneva ancora i pugni rilassati davanti al viso. Le fece cenno di avvicinarsi. «Dài, bimba. Non arrenderti senza lottare.»

    Aveva oltre mezzo metro e almeno settanta chili di vantaggio su di lei. Si portava addosso il peso di un’altra persona intera in quel suo corpo gigantesco.

    Cosa vuoi fare? Graffiarlo? Morderlo? Tirargli i capelli? Morire sentendo il sapore del suo sangue?

    «Che farai, piccoletta?» Teneva i pugni pronti. «Voglio darti una possibilità. Mi attacchi o ti arrendi?»

    Il corridoio?

    Non poteva rischiare di condurlo da Trevor.

    La porta d’ingresso?

    Troppo lontana.

    La porta della cucina?

    Callie scorse la maniglia dorata con la coda dell’occhio.

    Scintillava. L’aspettava. Aperta.

    Valutò i movimenti – voltarsi, piede sinistro, piede destro, afferrare la maniglia, girarla, correre sotto la tettoia, arrivare in strada, gridare come una pazza per tutto il tempo.

    Chi prendeva in giro?

    Se solo si fosse voltata, Buddy l’avrebbe raggiunta. Non era veloce, ma non ne aveva bisogno. Sarebbe bastato un solo lungo passo per stringerle di nuovo la mano intorno al collo.

    Callie lo fissò, gli occhi pieni di odio.

    Lui scrollò le spalle: non gli interessava.

    «Perché lo hai fatto?» gli chiese. «Perché gli hai fatto vedere le nostre cose private?»

    «Per soldi.» Sembrava deluso da una domanda tanto stupida. «Perché, altrimenti?»

    Callie non riusciva nemmeno a pensare a tutti quegli uomini adulti che la guardavano fare cose che non avrebbe voluto con la persona che le aveva promesso di proteggerla sempre, a qualsiasi costo.

    «Forza.» Buddy sferrò un debole gancio in aria, poi simulò un montante al rallentatore. «Andiamo, Rocky, fammi vedere che sai fare.»

    Lei scrutò la cucina.

    Frigo. Forno. Sportelli. Cassetti. Vassoio dei biscotti. NyQuil. Scolapiatti.

    Buddy ridacchiò. «Vuoi colpirmi con una padella, Daffy Duck?»

    Callie si slanciò dritta verso di lui, come un proiettile esploso dalla canna di una pistola. Buddy aveva le mani vicine al viso. Si tenne più bassa che poté, così quando lui riuscì ad abbassare i pugni era già fuori dalla sua portata.

    Si tuffò contro il lavello della cucina.

    Prese il coltello dallo scolapiatti.

    Si voltò, agitando la lama davanti a sé.

    Buddy rise vedendo il coltello da bistecca: sembrava roba che Linda aveva preso al supermercato, di quei servizi da sei prodotti a Taiwan. Manico di legno spaccato. Lama seghettata, così sottile che si era curvata in tre punti per poi raddrizzarsi verso il fondo. Callie lo aveva usato per tagliare a pezzetti l’hot dog di Trevor, perché altrimenti lui avrebbe cercato di ficcarselo in bocca intero, soffocandosi.

    Notò che non aveva lavato via tutto il ketchup.

    Una sottile striscia rossa correva lungo la seghettatura.

    «Oh» fece Buddy. Sembrava sorpreso. «Oh, Gesù.»

    Abbassarono lo sguardo nello stesso istante.

    Il coltello gli aveva tagliato la gamba dei pantaloni. La coscia sinistra, in alto, qualche centimetro sotto il cavallo.

    Lei vide il tessuto tingersi lentamente di rosso.

    Callie partecipava a gare di ginnastica dall’età di cinque anni. Conosceva molto bene i vari modi in cui era possibile farsi male. Una torsione sbagliata poteva strappare i legamenti della schiena, un salto all’indietro mal eseguito poteva distruggere i tendini del ginocchio. Se un pezzo di metallo, anche da due soldi, tagliava l’interno coscia, c’era la possibilità che recidesse l’arteria femorale, cioè il condotto principale che forniva sangue alla parte inferiore del corpo.

    «Cal.» Buddy si afferrò la gamba con una mano. Il sangue filtrò tra le dita serrate. «Prendi un… Cristo, Callie. Prendi un asciugamano, o…»

    Cominciò a vacillare, le ampie spalle che sbattevano contro gli sportelli, poi picchiò la testa contro il bordo del bancone. Quando crollò a terra, il tonfo fece tremare la stanza.

    «Cal?» Riusciva ancora a parlare. Il viso era madido di sudore. «Callie?»

    Lei aveva ancora tutti i muscoli tesi, la mano stretta intorno al coltello. Si sentiva avvolta da un’oscurità gelida, come se in qualche modo fosse finita dentro la sua stessa ombra.

    «Callie. Piccola, devi…» Le sue labbra avevano perso colore. Cominciò a battere i denti, come se il gelo stesse avvolgendo anche lui. «C-chiama un’ambulanza, piccola. Chiama un…»

    Callie voltò la testa, lentamente. Guardò il telefono attaccato al muro. La cornetta era staccata dal gancio. Buddy aveva strappato il cavo a spirale e c’erano fili colorati che sbucavano dal punto in cui era rotto. Trovò l’altro capo e seguendolo scovò il ricevitore sotto il tavolo della cucina.

    «Callie, lascia perdere quello. Lascialo lì, tesoro, devi…»

    Lei si mise in ginocchio, allungò la mano sotto il tavolo, prese la cornetta e se la portò all’orecchio. Aveva ancora il coltello in mano. Perché aveva ancora il coltello in mano?

    «Quello è r-rotto» le disse Buddy. «Vai in camera da letto, piccola. C-chiama un’ambulanza.»

    Lei si premette forte la plastica all’orecchio. La sua mente evocò il suono fantasma del segnale che faceva il telefono quando restava sganciato per troppo tempo.

    Tu-tu-tu-tu-tu-tu-tu…

    «La camera da letto, piccola. V-vai in…»

    Tu-tu-tu-tu-tu-tu-tu…

    «Callie.»

    Ecco cosa avrebbe sentito, se avesse sollevato la cornetta del telefono in camera. Quel segnale, e poi, a ripetizione sopra quel suono, la voce registrata di un operatore:

    Se desidera fare una chiamata…

    «Callie, piccola, non ti avrei fatto del male. Non ti farei mai del m-male…»

    Riagganci e provi di nuovo.

    «Tesoro, per favore, ho bisogno…»

    Se è un’emergenza…

    «Ho bisogno del tuo aiuto, piccola. P-per favore, vai in corridoio e…»

    Riagganci e componga il 911.

    «Callie?»

    Lei posò il coltello a terra. Si accucciò. Il ginocchio non pulsava. La schiena non le faceva male. La pelle del collo, dove lui l’aveva stretta per soffocarla, non bruciava. Le costole non le davano fitte per i calci che le aveva sferrato.

    Se desidera fare una chiamata…

    «Maledetta puttana» ansimò Buddy. «Maledetta puttana senza cuore.»

    Riagganci e provi di nuovo.

    PRIMAVERA 2021

    Domenica

    1

    Leigh Collier si morse il labbro inferiore mentre ascoltava una dodicenne che cantava a squarciagola Ya Got Trouble di fronte a un pubblico passivo. Un gruppetto di ragazzini attraversò il palco di corsa mentre il professor Hill metteva in guardia la cittadinanza su dei loschi forestieri che convincevano i loro figli a scommettere sulle corse dei cavalli.

    E non una sana corsa al trotto, no! Ma una gara in cui stanno seduti proprio sul cavallo!

    Leigh dubitava che una generazione cresciuta tra WAP, calabroni asiatici giganti, Covid, un catastrofico disagio sociale e costretta a studiare da casa da un manipolo di alcolizzati depressi potesse comprendere la pericolosità delle sale da biliardo, ma doveva riconoscere che l’insegnante di teatro era riuscita a dare vita a una versione neutrale in termini di gender di The Music Man, uno dei musical meno sgradevoli ma al tempo stesso più noiosi che si fossero mai visti sul palco di una scuola media.

    Sua figlia aveva appena compiuto sedici anni. Leigh era convinta che i tempi delle dita nel naso, dei cocchi di mamma e degli animali da palcoscenico canterini fossero ormai solo un lontano ricordo per lei, invece Maddy si stava appassionando all’insegnamento della coreografia, e così era finita lì, intrappolata in un abisso infernale di grossi guai a River City.

    Cercò Walter. Era due file più avanti, vicino al passaggio centrale. Aveva la testa inclinata in una strana angolazione, come se stesse guardando un po’ verso il palco e un po’ verso lo schienale del sedile vuoto davanti a lui. Leigh non aveva bisogno di vedere cosa avesse in mano per sapere che stava giocando al fantacalcio sul cellulare.

    Tirò fuori il telefono dalla borsa e gli mandò un messaggio: Maddy ti farà domande sull’esibizione.

    Walter non mosse la testa, ma lei capì che le stava rispondendo. So fare due cose alla volta.

    Se così fosse, staremmo ancora insieme gli scrisse.

    Lui si voltò a cercarla. Le rughe leggere agli angoli degli occhi le dissero che stava sorridendo dietro la mascherina.

    Leigh provò uno sgradito tuffo al cuore. Il loro matrimonio era finito quando Maddy aveva dodici anni, ma durante il lockdown dell’ultimo anno erano andati a vivere tutti insieme in casa di Walter, poi Leigh era finita nel suo letto, per trovarsi ancora una volta di fronte al motivo per cui tra loro non aveva funzionato nemmeno la prima volta. Walter era un padre meraviglioso, ma lei alla fine aveva dovuto accettare il fatto di essere una di quelle donne cattive che non possono stare con un brav’uomo.

    Sul palco, la scena era cambiata. Un riflettore venne puntato su uno studente olandese che recitava la parte di Marian Paroo. Stava dicendo a sua madre che un uomo con una valigia l’aveva seguito fino a casa, eventualità che in tempi moderni si sarebbe conclusa con un intervento armato degli SWAT.

    Leigh lasciò scorrere lo sguardo sul pubblico. Era la serata conclusiva, dopo cinque esibizioni domenicali consecutive. Solo così avevano potuto fare in modo che tutti i genitori avessero l’opportunità di vedere i figli, che lo desiderassero o meno. L’auditorium era pieno solo per un quarto, il distanziamento regolato da una serie di sedili delimitati dal nastro. Le mascherine erano obbligatorie, il disinfettante per le mani scorreva come liquore alla pesca durante un ballo di fine anno. Nessuno desiderava un’altra Notte dei Lunghi Tamponi Nasali.

    Walter aveva il fantacalcio. Leigh invece il fanta fight club dell’apocalisse. Si era data dieci posti da riempire con la sua squadra. Naturalmente la sua prima scelta era stata Janey Pringle: quella donna era riuscita a vendere così

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