Cats of Sword & Sorcery: Antologia Sword, Sorcery & Cats n°1
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Anteprima del libro
Cats of Sword & Sorcery - Mala Spina
CATS OF
SWORD
&
SORCERY
Battaglia – Bennasib – Di Bella – Ghetta – Gualchierotti – Mala Spina – Pagan – Palmieri – Recchia – Saccoccia – Silvi – Smojver
con le illustrazioni di
Fabio Leone – Silvia Bortoloni – Anna Marchi – Rita Micozzi – Maria Rosaria Monticelli
Copyright
ISBN: 9791220095617
CATS OF SWORD & SORCERY
Curatore: Andrea Guido Silvi
Illustrazione: Fabio Leone
Progetto grafico e impaginazione: Mala Spina
Prima edizione Agosto 2021
Copyright (Edizione) ©2021
Italian Sword&Sorcery Books
Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e delle convenzioni internazionali. Nessuna parte di questo ebook può essere riprodotta e diffusa con sistemi elettronici, meccanici o di altro tipo senza l’autorizzazione scritta dell’autore.
Questo libro è un’opera di fantasia. La sua pubblicazione non lede i diritti di terzi. Qualsiasi analogia con fatti, luoghi e persone, vive o scomparse, è assolutamente casuale.
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La Torre del Gatto
di Andrea Guido Silvi
Chi potrebbe pensare che non ci sia il caos di stelle danzanti dietro quegli occhi lucenti?
…divertendomi a unire Friedrich Nietzsche e Théophile Gautier
Quando ho proposto all’Associazione Italian Sword and Sorcery di realizzare un concorso letterario che avesse per protagonisti i gatti vedendoli muoversi in avventure del genere da noi più amato, non avevo certezza d’una risposta positiva. Avevo io stesso i miei dubbi, perché il rischio che tutto scadesse in opere tra fantasy mainstream e anime di bassa lega era altissimo. Il Concorso per Illustrazioni e Racconti Cats of Sword and Sorcery
e l’antologia che ho avuto l’occasione di curare, ringraziando ancora l’Associazione per la fiducia dimostratami, hanno richiesto dunque un certo lavoro, i cui risultati qualitativi possono essere da voi valutati in queste pagine, ma per certo hanno raggiunto due importanti obiettivi: i cliché del genere sono presenti come richiesto, ma rinnovati con spunti originali e ambientazioni varie e curate; non abbiamo micetti
, perché i gatti non sono tali, e la loro vera natura, ben descritta da tanti autori (H.P. Lovecraft ha scritto una bellissima e divertentissima dissertazione sulla differenza tra gli amanti dei gatti e dei cani, da leggere), è in realtà estremamente distante da quanto l’aggettivo domestico
lascerebbe intendere.
Mi sento dunque in dovere di ringraziare gli autori che hanno preso parte all’antologia (Gianmaria Ghetta, Andrea Gualchierotti, Mala Spina e Giorgio Smojver) e tutti i partecipanti al concorso, che ha visto Nicola Pagan come primo classificato e Francesco Battaglia, Nikolas Dau Bennasib, Mirko Di Bella e Giuseppe Recchia tutti a parimerito, come previsto dal bando, in seconda posizione. Tutti i racconti, tra cui anche quello con cui io stesso partecipo all’antologia, vengono presentati seguendo i nomi degli autori in ordine alfabetico, proprio a voler dimostrare come si sia tutti tra pari in questa opera. Ciononostante il lettore può apprezzare molteplici differenze tra i diversi testi, non solo stilistiche: abbiamo rimandi a sotto-generi diversi e ambientazioni che spaziano dal fiabesco allo storicamente accurato; si vivono contesti diversi e ruoli diversi del gatto, compagno d’avventura sui generis. In sintesi, credo che ogni lettore potrà trovare almeno un suo racconto preferito da ricordare a lungo nel tempo, e che questo racconto sarà diverso da lettore a lettore.
Un grazie va ovviamente anche agli illustratori partecipanti al concorso, tra le cui opere, sebbene così non fosse inizialmente previsto, abbiamo potuto selezionare la copertina per l’antologia: l’illustrazione intitolata Trasmutazione felina
è di Fabio Leone, primo classificato. Silvia Bortoloni con I gatti di Freya
; Anna Marchi con Il guerriero e la Sfinge
, Rita Micozzi con Il Gatto con gli Stivali
e Maria Rosaria Monticelli con Familiar sorcery
si sono poi distinte tra i restanti partecipanti per la qualità dei loro lavori.
Ad ultimo un sentito grazie a Daniele Palmieri e Cristiano Saccoccia che, da amanti dei gatti e della letteratura, coi loro approfondimenti e consigli di lettura originali danno utili riferimenti agli appassionati per muoversi nel mare magnum degli scritti in cui i nostri compagni felini si distinguono per ruolo. Il loro contributo, puntuale e accurato, rende questa raccolta più completa e tonda.
Come curatore mi sono sentito onorato nel prendere le redini di questo lavoro corale, che mi ha divertito e fatto conoscere nuove valide penne, e non posso far altro che ringraziare nuovamente tutti. Forse il concorso Cats of Sword and Sorcery vedrà future edizioni, chissà, e magari seguirà una seconda antologia.
Come autore mi auguro che troviate in questo libro più che semplice evasione e che le sue storie vi accompagnino nel tempo.
Infine, in qualità di felice coinquilino di un felis catus, sono convinto che molti tra voi guarderanno al loro micio
in modo un poco diverso, perché forse a questo infine mirava principalmente ogni nostro sforzo: come Conan esplorando la torre del mago Yara, il più grande stregone di Zamora, scopre che la fonte del suo potere è la creatura Yag Kosha (The Tower of the Elephant
, Robert Erwin Howard, 1933), ogni amante dei gatti condivide la sua torre con un essere per tanti aspetti misterioso, non un prigioniero ma un compagno per scelta, in grado di dare energia, affetto e sollievo nei momenti di necessità.
La dignità narrativa del gatto
di Daniele Palmieri
Vi è un’idea ormai diffusa nell’immaginario contemporaneo, ossia lo stereotipo che un romanzo, un racconto o una novella avente per protagonista un animale (generalmente un gatto o un cane) debba necessariamente essere o un prodotto scaldacuori/strappalacrime o una storia leggera per bambini e ragazzi.
Eppure non riesco a dare per scontato l’idea che un romanzo avente per protagonista un gatto, o un animale in generale, debba essere necessariamente un testo disimpegnato. Tanto più, considerando che tutti i miei idoli letterari di gioventù, ma anche attuali, come Lovecraft, Poe, Baudelaire, Borges e Blackwood, solo per citarne alcuni, hanno dedicato alcuni dei loro passi più poetici proprio al mistero felino.
Per questo ho accolto con piacere l’iniziativa editoriale Cats of Sword&Sorcery che, in linea con il ribaltamento del paradigma narrativo antropocentrico, pone il gatto come soggetto della storia – o, meglio, delle storie – restituendogli la dignità artistica e letteraria troppo spesso negatagli, inserendolo per di più nel contesto fantastico di quella che Tolkien, parlando dell’evasione letteraria, definiva la santa fuga del prigioniero
dal mondo della quotidianità e della materialità in cui l’uomo è imbrigliato. Il tutto viene fatto rendendo il felino non solo la spalla dell’umano – e delle emozioni umane – ma un rotagonista degno di poter vivere la propria storia e di esprimere la complessa sfumatura cromatica di emozioni e comportamenti che lo caratterizzano.
L’idea stereotipata della letteratura animale deriva dalla rappresentazione addomesticata, per non dire imborghesita
, che se fa nella narrazione di massa, sia essa nei romanzi o nelle opere televisive e cinematografiche, che vede l’animale non come il soggetto della narrazione, ma come l’oggetto della narrazione.
Esiste una grande differenza tra scrivere racconti o romanzi sui gatti e scrivere racconti o romanzi con protagonisti gatti. Potrebbe sembrare una sfumatura sottile ma la differenza, in realtà, è abissale. Nel primo caso, il felino è visto dall’esterno, oggetto della narrazione. Il gatto viene utilizzato ai fini della trama per suscitare nel lettore emozioni prettamente umane, poiché il punto focale della narrazione non è il gatto in quanto tale, bensì ciò che di positivo l’uomo trae dal gatto per edificare la sua vita interiore.
A causa di questo sguardo esterno, spesso si propone, più o meno volontariamente, la visione antropocentrica del gatto, di cui viene fatta una narrazione idilliaca, a misura di umano, atta a a farne risaltare esclusivamente gli aspetti più domestici e quotidiani, da ambiente civilizzato e dunque più consoni alla morale e alla percezione borghese non solo dell’animale, ma dell’intera Natura, che deve essere spogliata dei suoi aspetti più selvaggi per essere ritenuta accettabile. In secondo luogo, questo meccanismo narrativo perpetra l’assunto antropocentrico, dato sempre per scontato, che soltanto l’essere umano possa essere il protagonista di storie degne di essere narrate e che tutto il resto, animali inclusi, possa solo essere un oggetto, quasi una vuota marionetta scenica – come se gli altri esseri viventi non vivessero, quotidianamente, la propria avventura nella caotica esistenza.
Inutile dire che questa forma di narrazione non può che mettere in scena un gatto castrato – giusto per restare in tema.
Per penetrare nel mistero del fascino felino, occorre abbandonare questa visione esterna e, da oggetto della narrazione, il gatto deve divenire il soggetto del racconto.
In questo secondo caso, paradossalmente, il gatto non è il centro focale della narrazione. Il gatto cessa di essere l’oggetto passivo degli eventi e ne diventa il protagonista attivo. Il lettore si immerge nella sua prospettiva, ne adotta quello che Jakob von Uexkull, biologo estone di fine Ottocento, chiamava Umwelt, ambiente mentale
, o mondo-ambiente
, l’insieme di percezioni, sensazioni, emozioni e atteggiamenti che concorrono a creare la bolla
in cui l’essere vivente è immerso; un vero e proprio universo soggettivo, che varia da specie a specie, creando una miriade di universi paralleli che si incrociano senza mai fondersi.
In questa nuova prospettiva, il lettore abdica al suo ruolo da umano e, come avveniva negli arcaici riti sciamanici, fuoriesce dal proprio corpo e si distacca dalla sua condizione per trasmutarsi in felino, provando così una nuova dimensione e capendo cosa vuol dire vivere a con quattro zampe, una coda, delle vibrisse, la visione notturna
, un olfatto sviluppato, ma anche cosa si prova a sperimentare emozioni, pensieri, esigenze e priorità totalmente altri rispetto a quelli dell’Umwelt prettamente umano. In questa metamorfosi sciamanica, effettuata grazie al potere della narrazione che, fin dall’alba dei tempi, è una delle forme più alte di magia, il lettore abbandona ciò che di umano si trova in lui per sperimentare, momentaneamente, un nuovo universo, e al ritorno nel proprio corpo non può che osservare il suo gatto – o, meglio, il suo coinquilino felino – e rivalutare la propria esistenza alla luce di ciò che ha vissuto e provato in panni felini. In altri termini, il lettore scopre che esistono altri universi al di là di quello umano e che per esplorarli occorre sovrastimolare l’immaginazione e immergersi nelle infinite dimensioni che, in ogni istante, lo circondano, dietro gli occhi di ciascun essere vivente.
Affinché questo viaggio di andata e ritorno sia veritiero, è fondamentale che il gatto-soggetto preservi le qualità, anche quelle più scomode
e irriverenti
, che hanno sempre stimolato il fascino che l’uomo prova nei suoi confronti. Il gatto, anche dal punto di vista letterario, pare essere il soggetto perfetto per qualsiasi narrazione, a fronte della varietà di sfumature psicofisiche che gli appartengono. Esso sa essere libero, intraprendente, giocoso ma anche spietato, pigro e cacciatore, sfuggente, riservato, amorevole ma anche cinico – di quel cinismo filosofico delle origini, che portò Diogene a domandare ad Alessandro Magno di spostarsi dal portico perché gli stava facendo ombra. E’ agile e silente, si muove con le tenebre e le ombre, spesso sembra fermarsi a osservare cose che sfuggono ai sensi umani, che insegue guardingo e circospetto quando si muove con sospetto nei cortili, nei campi, nelle case. Come il trickster, il mutaforma delle fiabe, esso si trova in una dimensione mediana e ciò gli permette di attraversare più mondi, come Mercurio che vola tra Olimpo, Mare e Inferi. Convive sì con gli umani e anzi sa come sfruttarne l’ambiente e interagire con gli oggetti di uso quotidiano (si pensi a quanti gatti imparano, ad esempio, ad abbassare le maniglie delle porte), ma in questi millenni di convivenza non è mai stato del tutto addomesticato e anche il gatto più domestico preserva un’indole selvatica, quasi fosse uno squarcio di Natura selvaggia aperto nella dimensione ordinaria; e così, con disinvoltura, passa dal gioco alla caccia, dalla cima di un albero al divano, dal sonno a corse sfrenate; un animo ambivalente che, parafrasando un verso di Whitman, contiene moltitudini, esemplificato dalla naturalezza, per non dire sfacciataggine, con cui, nel giro di un istante, trasmuta l’attimo di fusa e carezze in un bagno di sangue attraverso le unghie delle sue zampe.
Consiglio dunque di leggere questi racconti come un viatico, ossia di viverli come posseduti dallo spirito felino. Magari di notte, con la luce tenue, per sperimentare la propria visione nell’oscurità.
Trasmutazione Felina
di Fabio Leone
con questa opera 1° classificato al concorso Cats of Sword and Sorcery
Nel nome di Kesht
di Francesco Battaglia
Vieni, mio bel gatto, sul mio cuore innamorato...
Charles Baudelaire
Il deserto luccicava tra i barlumi del crepuscolo. Una distesa di sabbia diafana in cui ogni granello sembrava risplendere. Felyx contemplò il panorama. Oro zecchino sotto il sole crudele. Corniola e rubini nel tramonto sanguigno. Diamanti a perdita d’occhio nella notte stellata.
Sospirò. Se lo fossero stati davvero, li si sarebbe potuti vendere a stive. Scacciò quel pensiero come si fa con gli insetti, ricapitolò il da farsi e accarezzò l’elsa della daga. Socchiuse gli occhi ferrigni; assicurò il turbante sul viso, la cappa maculata sul resto del corpo. Voltò le spalle al Mare Giallo e si avviò tra le vie polverose.
Javakt. La città dei mercanti, tanto ricca quanto corrotta. Sfarzosa per pochi, miserabile per molti. Svicolò senza fare rumore.
Un succedersi di baracche e tuguri rivoltanti, tutti uguali. Ne respirò il lezzo, il turbante non bastava a filtrarlo. Attorno a lui, violenze e contrabbando di ogni genere; fischi di coltelli al buio; ansiti soffocati. Tintinnii di monete cadute, echi di passi, sagome accasciate tra i ghetti… Nella periferia di Javakt perdersi era facile quanto morire.
Si fece strada protetto dalle ombre sempre più lunghe; gli occhi grigi scintillanti al buio. Un incessante susseguirsi di svolte, un’altra e un’altra ancora: quanta pazienza, quante manovre per lasciarsi alle spalle quel verminaio.
Eluse la sorveglianza di un paio di guardie e penetrò nel quartiere dei magnati. Gli occhi di Felyx si assottigliarono; l’opulenza dei palazzi mercantili era abbagliante. Facciate d’avorio e cupole di giada, scintillanti notte e giorno, si profilavano davanti a lui. Eccolo, il cuore pulsante di Javakt. Serrò i pugni, soffiò. Altro che sabbia da rivendere a stive; con tutte quelle gemme se la poteva comprare davvero, una città.
Si avviò lungo la strada maestra. Nulla a che vedere con il lezzo di prima: la via era spaziosa, pulita e rischiarata da fiaccole. Arrivò alla piazza del mercato e si riparò in una nicchia a osservare. Ogni palazzo vi si affacciava con almeno un ingresso, ciascuno era sorvegliato. Sciami di sentinelle camminavano avanti e indietro: era così che si fiaccavano i malumori del ghetto. Se avesse potuto, Felyx le avrebbe sgozzate tutte. Si limitò ad aggirarle.
Sfruttò le torce tremolanti per sfilare dietro ai tronchi di un palmeto. Sgusciò tra le bancarelle deserte, coperte da drappi e teloni. Si acquattò, rifletté. Quanta merce di valore c’era là sotto? A quanti zyrchas l’avrebbe potuta rivendere? Scivolò via, coperto dal buio e dalla baldoria dei magnati. Echi di flauti, cembali e schiamazzi in lontananza. Si immaginò le odalische, le vivande, il vino che scorreva a fiumi.
«La prossima volta...», mormorò a denti stretti. Superò la piazza, si allontanò ad ampie falcate. Quella notte aveva un lavoro da fare.
***
Il lucore della luna accarezzava lo stilobate e i gradini del Tempio di Kesht. Altro avorio, altra giada risplendente al buio. Felyx si nascose in un anfratto, spaziò con lo sguardo sul cortile. Porfido rosso, perfino ciò che calpestava valeva una fortuna. Altre palme, un canale artificiale che correva su tre lati del tempio. Era vuoto.
Percorse a vista l’ampia scalinata, soffiò. Nessun ingresso e nessuna traccia di finestre o aperture. Solo avorio levigato, giada a perdita d’occhio. Felyx si accorse di odiarli. Il tempio ne era avvolto per intero, un guscio privo di crepe.
Non c’erano uomini a guardia dell’edificio, a che sarebbero serviti? Il cortile, però, non era deserto. C’erano i gatti. Distesi sul porfido, sui gradini del tempio. Alcuni dormivano; altri si muovevano lenti, arricciando e code sinuose. Ce n’erano a dozzine, di ogni forma e colore. I loro occhi parevano una distesa di lucciole. Era il santuario di Kesht, che altro poteva aspettarsi?
Avanzò furtivo. I felini lo fissarono mentre attraversava il cortile, più leggero di un’ombra. Nessuno di loro si mosse.
Percorse la scalinata, si avvicinò all’avorio e lo tastò con cura, in cerca di una sporgenza nascosta. Le sue dita erano affusolate, i polpastrelli così sensibili... Se ci fosse stata una traccia, non gli sarebbe sfuggita. Non ne trovò, l’avorio era del tutto liscio.
Felyx soffiò, non fu il solo. Un micio dal pelo scuro, quasi nero, si strofinò sugli stivali felpati. Erano fusa? Gli occhi del ladro si assottigliarono: impossibile, non l’aveva sentito arrivare. Abbassò lo sguardo fino a incontrare quello del felino: i suoi occhi erano di agata verde, metallici.
Meeeeooow…
…e spiccò un balzo sulla parete d’avorio. Atterrò in verticale, in equilibrio perfetto sulla facciata del tempio. Felyx lo fissò sbalordito. Possibile che...? Un altro balzo aggraziato, il micio svanì alla sua vista. Felyx tastò ancora l’avorio, capì. Che idiota! Si era fissato così tanto sulle sporgenze da non accorgersi della curvatura. Certo, era quasi impercettibile. Ingannevole al tatto e agli occhi, un lavoro d’architetti di grande sapienza. Un segreto per pochi, un sentiero per pochissimi.
Balzò anche lui, attento a non perdere aderenza. Sull’avorio non c’erano appigli, solo una pendenza minima. Mantenne l’equilibrio, la scalò come solo lui sapeva fare. Salì fino alla cupola, si afferrò al cornicione di giada e si sedette a rifiatare. Il sudore gli inzuppava il turbante, le braccia gli bruciavano.
Meeeeooow.
Felyx si voltò. Il micio era lì, sornione sulla sommità della cupola.
«Vieni qua, piccoletto...», bisbigliò il ladro, sorridendo da sotto il turbante. Tese le dita al gatto che non si mosse. Felyx sentì su di sé il suo sguardo freddo, tagliente. Lo sostenne. Il felino fletté il dorso bruno, elastico; agitò la coda e svanì in un varco circolare, ben mimetizzato tra le venature di giada. Un ingresso. Felyx srotolò la fune, la assicurò al cornicione e si calò senza esitare.
***
Un barlume filtrava dallo spiraglio aperto. Abbastanza per vedere lo scintillio sul fondo. Porfido nero. Appeso alla fune, Felyx assottigliò lo sguardo e calcolò la distanza. Gli sembrò buona, si lasciò cadere. Atterrò su un altare di marmo, coperto da una coltre di polvere. I suoi movimenti erano agili, leggeri.
Fiutò l’aria da sotto il turbante. Niente esalazioni. Se lo sfilò con sollievo: non si sarebbe mai abituato a portarlo. Riavviò con una mano la chioma rossiccia, che il copricapo schiacciava fin troppo. Si guardò intorno, passandosi le dita nel folto delle basette.
Il lume splendeva fioco delineando una stanza esagonale. Su ogni lato, l’idolo di un gatto guardiano. Composto, solenne. Balzò giù dall’altare senza fare rumore, si avvicinò per esaminarne uno. Ardesia nera, scintillante sotto la luna. Preziosa ma pesante. Nessuna traccia di smeraldi tra le cavità degli occhi. Niente collare d’oro, neanche un rubino. Controllò le altre statue. Nulla. Battuto sul tempo, ma da chi? Imprecò perché sapeva già la risposta.
Abbassò gli occhi fino a fissare il pavimento. Anche lì la polvere era densa, stratificata. Una mappa, un’amica. Individuò le proprie orme, le escluse. Il suo rivale era bravo, ma lui lo era di più. Doveva esserlo. Ne scovò di più leggere, impalpabili. Impronte di gatto. Le seguì fino a un altro degli idoli. Felyx lo ispezionò meglio, tastò una sporgenza sul dorso e sorrise. Azionò il congegno. Assaporò lo scatto metallico, l’aprirsi della porta segreta.
Accese una torcia, imboccò il passaggio. Conosceva l’inquietudine di chi si addentra nell’oscurità. Il prorompere dei desideri taciuti, dei timori sopiti. Quelli come lui ne avevano tanti. Si risvegliavano sempre, quando saccheggiava un tempio. Lui, il ladro che controllava ogni impulso, aveva paura.
Ascoltò il suo battito crescere, la tensione salire. Nervi e muscoli tendersi, pronti a scattare. Dèi, questo era sentirsi vivi.
Deglutì a secco, si dominò. C’erano degli affreschi lungo il cunicolo. Stilizzati, antichi. Felyx li studiò, raccontavano una storia.
La luna... una stella sopra le dune...
un guizzo di luce... la stella si è mossa...
Una donna in cammino nel deserto...
palme e rivoli azzurri alle sue spalle...
dei gatti al suo seguito...
Alla fine del cunicolo si apriva un’altra stanza esagonale. Non c’erano idoli contro le pareti. Nel mezzo troneggiava un dolmen di pietra bigia, impossibile da scalfire: un sigillo di protezione.
Felyx soffiò, ne aveva già affrontato uno in passato. Insieme a Primus. Se non fosse stato per lui... Soffiò, non era più il novellino di allora. Aveva imparato a dominarsi, a superare ogni pericolo. Scrutò le venature del dolmen, si rivide ai piedi del macigno in caduta. Un cucciolo spelacchiato, troppo impaurito per muoversi. Risentì la mano guantata che lo afferrava, la sua stretta formidabile. Il vuoto d’aria, il senso di protezione, l’odore acre tra le pieghe del mantello. Un tonfo sordo, un rumore di vetri infranti; il cuoio tra i capelli rossicci... Dèi, se era stato svelto.
Individuò la porta successiva: tre linee sottili, nitide sulla parete. Respirò a fondo, non doveva avere fretta. A passi cauti, si avvicinò al dolmen. La pietra era intatta, innervata di striature pervinca. Una debole luminescenza irradiava la sala. Stregoneria primitiva, possente. Bastava così poco per scatenare la folgore, per farla finita. Un tocco ingenuo, un oggetto lasciato cadere, un rumore... Come quella volta, quando per colpa di un idiota era morta mezza squadra. Non lui, grazie agli dèi. Grazie a Primus.
Circuì il macigno in punta di piedi, ne studiò le venature in silenzio. Trovò ciò che cercava: un’increspatura nella roccia, la crepa che custodiva la folgore. Ignorava come ci fosse finita, chi l’avesse imbrigliata laggiù... Lo scoprissero altri, non era chierico né arcanista. Studiò il solco da cui palpitava il riverbero, riconobbe il segno del pugnale di Primus. Felyx sorrise, era un colpo perfetto. Snudò la daga senza fare rumore. Un brivido azzurro danzò sulla lama. La piantò nella crepa con altrettanta precisione.
***
Felyx avvicinò la fiaccola agli affreschi del cunicolo successivo. La storia continuava.
Una città tra le dune desertiche...
Figure di uomini, i loro tratti sono troppo sottili...
La donna cammina ancora, i gatti al suo seguito...
Alle sue spalle palme e rivoli...
Uno dei suoi gatti dorme laggiù...
Alla fine del corridoio, si apriva una nuova stanza esagonale. Al centro della sala, un altare disadorno. Non vuoto: riuscì a distinguere il lume di una lampada e una piccola massa scura, quasi nera. Ai suoi piedi, il corpo di un uomo accasciato; un vago odore di sangue nell’aria. Una