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Zucchero a velo: Una vita di ricette
Zucchero a velo: Una vita di ricette
Zucchero a velo: Una vita di ricette
E-book333 pagine3 ore

Zucchero a velo: Una vita di ricette

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Info su questo ebook

Cucinare può essere una necessità, un obbligo, un gesto quotidiano, un gioco e un passatempo. Certe volte un’ossessione. Un sistema per allontanare le nevrosi, interpretare la realtà, rileggere il passato e programmare il futuro. È così che le cento e più ricette di questo libro diventano un racconto, una possibilità di comunicazione, un accompagnamento alla vita.
Ci sono ricette di tutti i generi e per tutte le occasioni, facilissime e difficilissime, d’effetto e di sostanza, ma tutte buone davvero. Provate e riprovate dall’autrice medesima che intanto non perde l’occasione per narrarci i fatti e i fatterelli che, oltre alla cucina, hanno riempito la sua esistenza di donna moderna e, naturalmente, emancipata.
Uscito con grande successo nel 1990, Zucchero a velo torna oggi in versione epub, insieme a Il ritorno di Zucchero a velo, aggiunto in una successiva edizione. In cui si racconta come una cuoca per scherzo si trasforma in una vera professionista, come da una scena privata e casalinga si passi a una serie di esperienze di lavoro, il catering prima e infine l’approdo a un vero e proprio ristorante, a Milano.
LinguaItaliano
Data di uscita5 mar 2015
ISBN9788868991302
Zucchero a velo: Una vita di ricette
Autore

Stefania Giannotti

Stefania Giannotti è nata a Roma, ma vive a Milano. Cucina fin da piccola, da grande fa l’architetto e intanto cucina, finché non decide di farlo a tempo pieno e a tempo perso fare l’architetto. Incomincia col catering che chiama Zucchero a velo, come il libro che ha scritto, e non contenta rileva anche una vecchia trattoria sui Navigli, a Milano.

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    Zucchero a velo - Stefania Giannotti

    Zucchero a velo

    Cucinare può essere una necessità, un obbligo, un gesto quotidiano, un divertimento. Certe volte una passione. Per me è una fissazione, una malattia. Una malattia progressiva, forse ereditaria, se è vero che mia nonna a cinque anni preparava la minestra in piedi su una seggiola.

    La cucina ha accompagnato tutta la mia vita, molto discretamente; senza impedire né prevaricare altre passioni. Certo è stata la chiave di lettura e lo strumento di comunicazione col mondo.

    Ho trovato marito con un cosciotto di maiale al forno e fiori di zucca imbottiti e fritti. Non sono mai riuscita a spiegarmelo diversamente. La cucina era l’unica mia arma di seduzione e un indispensabile preliminare amoroso.

    Toccare un uomo, anche solo con un dito, senza averci mangiato assieme è un obbrobrio. E certe volte è preferibile portarselo a tavola che a letto. Ma il momento comunicativo del pranzo è preceduto da un gesto solitario, pacifico, tranquillizzante: la preparazione. Allora cucinare non ha niente a che vedere con gli odiati gesti casalinghi dell’accudimento. Ha qualcosa invece di molto simile, almeno per me architetto, a un progetto e alla sua realizzazione, fino alla comunicazione finale. I fornelli sono un tavolo da disegno; pentole coltelli frullini la strumentazione; come pennarelli morbide mine rapidograph.

    In quel gesto solitario, in quella calda cucina, tre chili di cime di rape da pulire valgono un tranquillante, un ripieno d’anatra è più d’una droga, la composizione del piatto il piacere. Là maturano le idee migliori.

    Sono matta? Ma se la cucina m’ha tenuto lontana dalle nevrosi!

    In un momento difficile della mia vita, è vero, ho desiderato un approfondimento, forse addirittura un’analisi. Cime di rape, branzini da squamare, baccalà da mantecare non bastavano più. Allora mi sono messa a scrivere. Volevo raccogliere le mie ricette e ho finito per raccogliere le idee.

    La storia che mi sono raccontata ha come punto di avvistamento la cucina. I traumi, i piaceri profumano o puzzano. Una pasta e patate è un legame indissolubile con mia nonna. Senza, forse, l’avrei dimenticata. Il saper di cucina circola tra lei, mia madre, poi mia suocera, infine le mie amiche. Una rottura, un cambiamento significano una libertà, e quindi nuove ricette. Accolte solo per amore. Perché solo in momenti di grande disponibilità i confini regionali si allargano. Se no non ce n’è per nessuno.

    Gli uomini sono gli spettatori, chiamati nella fase terminale. La tavola è ormai imbandita. Vengono e vanno. Non partecipano al progetto, si consumano come i piatti. Quelli che contano restano per centinaia di migliaia di pasti. Sono insaziabili. Altri si scuociono come la pasta. In entrambi i casi mi sento nutriente. Nutritiva no.

    Solo attraverso il filtro della cucina sono capace di rileggere il passato e di programmare il futuro. La fissazione, la malattia mi salvano la vita.

    Nella rilettura i dolori fanno puff. Un uomo t’ha lasciato. Non volevi. Ripercorri tutto quello che hai mangiato con lui. Relazioni l’abbandono al momento in cui l’hai messo a dieta, zucchine bollite e hamburger ai ferri senza sale. Il dolore fa puff. La politica del ’68 passa dall’Aula Magna a un trani, dalla strada alla mia tavola. Il primo femminismo degli anni Settanta, sofferente, viscerale, è anoressico. La libertà femminile degli anni Ottanta mangia.

    Alla fine vorrei imbandire una tavola con le mie cento ricette. Sogno irrealizzabile. Per possedere in un istante passato presente futuro. Servirmi e servire in forma di cibo, non di parole, tutti i capitoli: il dopoguerra… pranzo di fidanzamento, il ’68… vita matrimoniale… pensieri postmatrimoniali… l’inutile libertà… Malafemmina una trasmissione… Fluttuaria una rivista… le amiche: una conclusione che continua. Il titolo: Zucchero a velo. Perché voglio restare in superficie.

    Gli anni Cinquanta a Roma: statali e maestre

    Mio fratello entrava in casa. Buttava giù la cartella. «Che si mangia?» Si mangiava quello che aveva preparato mia nonna; da sempre era la sua unica e continua occupazione.

    Durò a lungo il clima da dopoguerra a Roma e fu segnato da un ininterrotto parlar di cibo. Il fantasma della guerra è finito, la democrazia un diritto, la ricostruzione un fatto, chi è morto è morto e chi è vivo parla di cibo. Per anni non riuscii a distinguere, nei racconti di guerra, tra fascismo e fame; era stato più grave il bombardamento a Ciampino o il digiuno di mia madre?

    Di soldi ne giravano pochi in quegli anni a Roma tra statali e maestre; e c’era chi si vantava di dare ai figli almeno un etto di carne al giorno: la fettina. Al mercato, tra i banconi, se ne parlava. Deve essere stato in quegli anni che ho preso l’abitudine di vedere tutte le cose della vita come una serie intervallata di pasti. Di alcune riunioni politiche non ricordo i contenuti, cosa si disse, ma cosa mangiammo dopo; cosa questo leader, o quello o quell’altro; e ricordo con tristezza quanto poco si mangiò, nel primo femminismo.

    Di soldi ne giravano pochi in quegli anni a Roma.

    «L’ho cucinato così perché rende di più, vedrai come ti riempie», diceva mia nonna. Era la sua soddisfazione. E friggeva, friggeva, friggeva. Giornate intere. Si friggeva di tutto in quegli anni.

    il fritto

    Il suo fritto non faceva schiuma. Ma non c’è una ricetta per friggere. Casomai è una ricerca di piccoli gesti, sottili equilibri che ho cercato di ricostruire.

    La padella di ferro lo sanno tutti. Mia nonna portava l’olio, extravergine d’oliva naturalmente perchè ha la temperatura di fumo più alta, a scaldarsi fino al limite estremo del calore, immediatamente prima che friggesse e bruciasse: non è l’olio che deve friggere, ma il cibo che ci immergiamo. A ogni padellata che scolava abbassava il gas per poi rialzarlo quando gettava la seconda ondata, rapidamente; scolare porta via del tempo e in quei pochi minuti l’olio può bruciare.

    Io l’assistevo. Si dicevano poche parole, gli occhi fissi nella padella, mosse rapide. «Abbassa» mi diceva, e poi «Butta», subito dopo «Alza». Se un polpastrello finiva nell’olio bollente si curava dopo, per non rovinare la padellata.

    Non so se fosse per risparmiare l’uovo, ma il pesce si friggeva rigorosamente solo con farina, nella versione appunto infarinato e fritto, a eccezione dei gamberi ed eventualmente dei calamaretti, che dopo infarinati si intingevano a uno a uno nell’uovo sbattuto con un po’ di sale.

    Quasi tutte le verdure invece le passavamo nella pastella fatta con l’uovo, poco uovo e neppure tanta farina, che se no viene una frittata, fa i riccioli e cambia i contorni dell’oggetto. Poco uovo, poca farina, il sale, un po’ d’acqua: una pastella leggera e ben amalgamata. Nove volte su dieci lei diceva: «Aggiungi acqua, non devi fare la colla».

    Il terzo metodo è uovo e pangrattato. Si sbatte l’uovo, il sale, un po’ d’acqua, vi si immerge la cosa da friggere, scolata bene si passa nel pangrattato; preparate così un po’ di cose si buttano poi una per una nell’olio.

    Ma il fritto non è una ricetta; diciamo che è una ricerca. Io sono arrivata qui:

    Bagno in acqua, infarino e friggo tutti i pesci con la spina, in più i calamari e i polpetti. Infarino e passo nell’uovo sbattuto col sale solo i gamberi ed eventualmente i calamaretti.

    Passo nella farina, sgrullo bene, bagno nell’uovo sbattuto col sale e friggo: cervello, schienali, animelle, fegato di vitello, carciofi.

    Cervello, schienali e animelle devono essere prima lasciati qualche minuto in acqua calda e sale, e poi puliti bene finché avranno perso i residui di sangue. Le animelle andrebbero addirittura sbollentate e ripulite, per quanto possibile, da quella pellicina che le avvolge.

    Passo nella pastella classica, leggerissima, di uovo, farina, sale, un po’ d’acqua, quasi tutte le verdure: zucchine, fiori di zucca, melanzane, cavolfiori.

    Bagno nell’uovo sbattuto col sale e impano nel pangrattato: medaglioni di melanzane, funghi (tipo porcini e orecchie), cotolette di agnellino o capretto ben schiacciate, cotolette di pollo.

    Il fritto andrebbe scolato bene e mangiato man mano che si fa, ancora caldo, ma ormai non è proponibile. Quando arrivano gli ospiti la signora deve essere in ordine, insieme alla sua cucina, senza nessuna traccia di odore; e deve pure aver letto quelle ultime due o tre cose indispensabili per la conversazione. Allora il modo migliore per conservarlo, comunque sempre mezz’ora al massimo, è chiuderlo in buste per il pane, quelle pesanti di carta grezza, e lasciarlo nel forno tiepido ma spento.

    Di soldi ne giravano pochi in quegli anni a Roma. Io a forza di sentir parlar di cibo, di cosa si mangiava, di come si poteva farlo rendere, ero diventata inappetente, una bambina minuta e inappetente; mio fratello al contrario in questa ideologia postbellica del nutrimento diventò bello grasso, il tipico ragazzino da cinema realista anni Cinquanta.

    Accanto a me, a tavola con la forchetta in mano e grandi occhi verdi, chiedeva e richiedeva: «Lo lasci? Se lo lasci me lo dai? Solo se lo lasci».

    Le poche ricette che ricordo di questo periodo si vanno perdendo insieme a molte altre già perse. Non credo perché povere, ma forse perché non possiedono l’autorità di altre, ugualmente povere, rimaste nella memoria, diventate addirittura tipiche.

    Sono buone, certo non adatte a cene importanti, a meno che non si amino eccentricità e rotture. Io ne faccio uso.

    pasta e cavolo

    Per sei/otto persone: un cavolfiore bianco non troppo grosso, un etto di lardo o grasso di prosciutto crudo che è meglio, quattro pomodori pelati, due etti di cannolicchietti, linguine o spaghetti spezzati, aglio, olio extravergine d’oliva.

    N.B. Per me l’olio deve essere sempre e per qualunque uso sempre extravergine d’oliva. Mi capiterà di ripeterlo qualche volta sì e qualche volta no, ma resta comunque sempre sottinteso.

    Trito a pezzetti piccolissimi il lardo o il grasso di prosciutto crudo; lo faccio rosolare insieme a due spicchi d’aglio tritati finissimi, in una pentola appena bagnata d’olio, quel tanto che basta perché non attacchi.

    Adesso è rosolato al punto giusto: infatti il grasso è un po’ sciolto, quasi trasparente e niente, neppure l’aglio, è diventato più che biondo. Lo sfumo con mezzo bicchiere di vino bianco. L’altro mezzo di solito lo bevo.

    Il vino evapora, il fuoco è alto: butto dentro i quattro pomodori pelati a pezzetti e senza semi. Dopo due minuti sono pronta con il cavolfiore, liberato dalle foglie verdi e tagliato a cimette. Deve rosolare cinque/dieci minuti, con l’aggiunta di un bicchiere d’acqua, sale e pepe. Questa operazione serve perché si insaporisca. Non devo mescolare tanto perché il cavolo tende a rompersi. Poi lo ricopro d’acqua e metto il coperchio.

    Quando è ancora duretto butto la pasta (linguine, spaghetti spezzati o cannolicchi piuttosto piccoli). Se non siamo pronti per andare a tavola posso anche lasciare lì tutto, spegnere e cuocere la pasta dopo ore. In questo caso però devo stare ancora un po’ più indietro di cottura, perché il cavolfiore non si disfi nel calore. Questa minestra deve essere abbastanza brodosa. I terroni, quelli veri, non mettono parmigiano, comunque è a scelta. Piuttosto, lo so che è da selvaggi, metto in ogni piatto, prima di versare la minestra, una crosta di parmigiano abbrustolita sul gas con la forchetta. Allora è squisita.

    pasta e patate

    È identica alla precedente sostituendo al cavolfiore le patate tagliate a pezzi piccoli. Qui il parmigiano è obbligatorio.

    Di nonna Speranza sapevo pochissime cose. Era avvolta dal mistero. Per quanto mi riguardava era possibile che fosse stata lì da sempre, in via Lorenzo il Magnifico n. 40, davanti ai fornelli. Forse aveva cominciato lei la razza. Il suo passato non si nominava. Né veniva spiegato quello che non si chiedeva. Restava lì sola, senza una parola sua e di noi altri, a preparare la cena, quando andavamo a pranzo dal nonno nel giorno di festa. Il nonno ricco gioielliere, casa e bottega al Pantheon. Tristi giornate quelle lì, passate a riempire un vuoto, un filo spezzato, un abbandono, a forza di polli alla diavola, capretti, tacchini ripieni, nocciole, cioccolatini, chicche e prelibatezze d’ogni genere. Ricomposizione familiare a termine, lo spazio di un pranzo per quanto lungo intorno a una tavola magari ai Castelli, e per prolungarlo dodici, quattordici portate, e poi alla fine anche il gelato sulla Rotonda, al Belvedere.

    Di lei, a casa, davanti ai fornelli, sapevo che da piccola faceva la minestra in piedi sulla seggiola, che se no non ci arrivava. Un grande privilegio, mi figuravo. Non lo misuravo con scuole non fatte e un ruolo di accudimento troppo precoce, se mai c’è un’età giusta.

    Non lo voleva, mio nonno. Fu convinta da un gesto clamoroso. Dirimpettai, due balconi di fronte. Lui inferocito dal rifiuto spaccava sul terrazzino col martello i brillanti promessi per il fidanzamento, uno dopo l’altro. A quella vista lei accettò. Incominciò a cucinare e dimenticò così di farsi sposare.

    Solo da grande mi si svelò il mistero. Seppi che arrivò in via Lorenzo il Magnifico con le due figlie femmine. Mollarono lui nella ricca casa del Pantheon, con le due cameriere, l’amante, che non dimenticò di farsi sposare, e tutto il resto.

    Delle due figlie scelse e predilesse per sempre quella che mangiava di più, mia madre.

    Mantenne sempre un grande, superbo distacco dagli uomini, insieme a una grande reverenza. Me la ricordo quando per caso si apriva un uovo con due rossi: «Accidenti… poteva capitare a tuo padre». I bocconi migliori erano conservati per lui, l’uomo adulto di casa.

    Di nascosto si preparava e poi mangiava in cucina il pancotto.

    Mio padre, ufficiale in divisa, futuro notaio, se ne vergognava e guai a parlarne. E lei glielo taceva, timorosa forse che un piatto così povero evocasse una non sufficiente gratitudine al suo lavoro di capofamiglia, portatore di benessere.

    pancotto bianco

    Pane raffermo, olio extravergine d’oliva, aglio, rosmarino, sale e pepe.

    Nonna Speranza conservava il pane vecchio, quello con molta crosta, gli sfilatini ad esempio tagliati a pezzi.

    Quando l’olio era caldo e l’aglio a fettine appena ammorbidito e imbiondito, aggiungeva il pane e lo lasciava rosolare; poi l’acqua fino quasi a coprirlo e il sale. L’acqua evaporava; il pancotto, morbido e denso, assumeva un aspetto un po’ colloso. Era cotto.

    Aggiungeva pepe, un bel cucchiaio di rosmarino fresco tritato finissimo e un filo di olio crudo. Non ricordo se ci mettesse il parmigiano.

    Di nascosto da mio padre e forse anche da se stessa, in cucina, con le spalle che davano alla porta, lo mangiava, socchiudendo gli occhi a ogni boccone. «Assaggialo, senti, sembra una banana!» Qualunque cosa buona veniva paragonata a una banana.

    pancotto rosso

    È simile al precedente, solo che prima di mettere il pane sfriggo nell’olio un trito di aglio, cipolla, carota e sedano. Aggiungo quattro o cinque pomodori pelati senza semi e a pezzetti.Alla fine niente rosmarino. Molto basilico.

    trippa alla romana

    Per sei/otto persone: mezzo chilo di trippa riccia, mezzo chilo di foiolo, che è una varietà di trippa molto sottile, pomodoro passato, aglio, olio, chiodi di garofano, lauro, sedano, pecorino romano grattugiato, menta fresca (o secca).

    Quando la trovo cruda e ancora scura la prendo volentieri. È molto più saporita. La lavo bene e la faccio bollire per cinque ore, cambiando un paio di volte l’acqua.

    Ma ormai nelle tripperie e dal macellaio si vende già bollita e sbiancata. È molto importante mescolare foiolo e trippa riccia. Non deve essere tagliata troppo sottile, ma larga circa un dito.

    Anche se già prelessata, deve bollire per una mezz’ora con due chiodi di garofano, tre o quattro foglie di lauro, due o tre gambi di sedano, qualche grano di pepe.

    La scolo. Trito finissimi due spicchi d’aglio e li lascio imbiondire in mezzo bicchiere d’olio; aggiungo la trippa e la lascio insaporire qualche minuto; intanto la mescolo. Poi è la volta del passato di pomodoro, quantità a occhio, un bicchiere circa o di più per averla molto rossa; non si deve credere che in cucina tutto sia definito al millimetro. Anzi. Acqua fino a coprire tutto, sale, pepe, ancora due foglie di lauro.

    Il tempo minimo di cottura è un’ora e mezza, ma più cuoce e più è buona, purché il pomodoro non diventi conserva; eventualmente aggiungere acqua, poca per volta. Ormai nel piatto, una spolverata di pecorino e poca menta fresca (o secca).

    fagioli con le cotiche

    Per sei persone: 300 g di fagioli borlotti secchi, 300 g di cotenna di maiale, pomodoro passato, prezzemolo, aglio, lauro, sale, pepe, olio.

    I fagioli sono stati a bagno per otto ore.

    Adesso hanno bisogno di circa un’ora e mezza di bollitura in acqua salata, con due foglie di lauro e un mazzetto di prezzemolo; una punta di bicarbonato facilita la cottura.

    Le cotenne di maiale, orribili a vedersi, sono spesso piene di peli. Per eliminarli le passo sulla fiamma e poi le raschio da entrambe le parti. Ora devono cuocere in acqua che cambio almeno due o tre volte per sgrassarle. Le scolo quando la forchetta entra con facilità, ma sono ancora abbastanza resistenti da non lacerarsi.

    Le taglio in pezzi di 4 x 4 cm circa. Un po’ più, un po’ meno.

    Rosolo l’aglio a fettine sottili in un tegame alto con mezzo bicchiere d’olio. Aggiungo il pomodoro passato, un bicchiere, le cotenne e i fagioli con parte della loro acqua, sale e pepe. Lascio cuocere ancora per una mezz’ora. Importantissimo: quando scolo le cotenne dall’acqua della bollitura, non devo dimenticare che dovranno finire di cuocersi insieme ai fagioli per ancora mezz’ora e quindi calcolo questo ulteriore tempo di cottura. Comunque alla fine dovranno essere morbidissime e non fare nessuna resistenza sotto i

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