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Nulla di vero
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E-book149 pagine1 ora

Nulla di vero

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Info su questo ebook

Chi ha lasciato un'oscura minaccia di morte tra i libri della biblioteca di Lettere Classiche? Davvero un misterioso assassino si aggira per i corridoi dell'Università, o è tutto frutto dell'immaginazione di Vera Bonelli, dottoranda poco convinta, con una passione segreta per i romanzi fantasy e una spiccata propensione per la menzogna? L'ambiente accademico, con i suoi intrighi e le sue gelosie, si tinge di giallo, sullo sfondo di una città distratta dai mondiali di calcio del 2002.
LinguaItaliano
Data di uscita12 gen 2022
ISBN9791280099105
Nulla di vero

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    Anteprima del libro

    Nulla di vero - Flavia Rampichini

    L’inizio di tutto

    «Davvero vuoi raccontare quella storia?».

    «Sì».

    «Ma ci sono certi dettagli che…».

    «La voglio raccontare. Tutta».

    «Ok, però almeno dovresti cambiare i nomi».

    «Certo che cambierò i nomi, ci ho già pensato, non sono mica matta».

    «Tutti i nomi, anche il tuo».

    «No, il mio no. È da lì che è cominciato tutto».

    Io e il mio nome siamo una coppia ossimorica. L’ho capito quando al liceo tra le figure retoriche ho scoperto l’esistenza dell’ossimoro, e al tempo stesso ho approfondito la conoscenza della mia natura. Io sono la persona più fasulla che esista. Alle medie tutti pensavano che fossi una specie di genio, solo perché prendevo sempre il massimo dei voti. In realtà studiavo poco o niente e la mia comprensione delle materie si fermava alla superficie. Ero assistita però da un’ottima memoria a breve termine e da una faccia tosta senza pari. Sapevo fingere benissimo, e all’occorrenza ero maestra nell’arte di raccontare balle. Come quando ho conosciuto Simone.

    «Piacere, Vera».

    «Anche per me è un vero piacere!».

    «Ah ah, sei anche spiritoso».

    «Anche? Cos’altro sono?».

    «Una faccia nuova. Sei una faccia nuova in questo mortorio e sei anche spiritoso».

    Quello che pensavo veramente era: Sei molto carino, ma la tua battuta non fa per niente ridere. Credi sia la prima volta che la sento? Ma dai!

    Io e Simone ci eravamo incontrati nel corridoio dell’istituto, mentre aspettavamo di essere chiamati per l’esame di dottorato. Io ero finita lì per caso, come in tutte le cose importanti della mia vita.

    Quand’ero ancora un’umile laureanda e mi chiedevano: «Ma poi? Cosa vorresti fare? Il dottorato?», di solito rispondevo: «Ma figurati! Troppo difficile, poi non mi interessa la carriera accademica, proprio non mi ci vedo. Piuttosto vorrei lavorare in una casa editrice».

    Non era vero, sapevo perfettamente che nelle case editrici lavoravano schiavi sottopagati e frustrati, fustigati a colpi di bozze da correggere. Quello che volevo veramente era pubblicare romanzi fantasy, e fare soldi a palate con i diritti sul merchandising.

    Poi però c’era stato quel colloquio con la professoressa Aspetti. Subito dopo la laurea ero andata a salutarla e a ringraziarla: usava così.

    «Cosa farai adesso?» chiese lei.

    «Non saprei…» risposi esitando, «penso che manderò il curriculum a qualche casa editrice, sa, mi piacerebbe lavorare nel settore».

    «Stanno uscendo i concorsi per il dottorato» disse lei, «perché non fai domanda?».

    «Mah… dice che avrei delle possibilità?».

    «Perché no? Una studentessa brillante come te!».

    Ecco, pensai, ci è caduta anche lei. Ti laurei con 110 e lode e tutti pensano che tu sia brillante. Andiamo… Non nego che la tesi fosse scritta bene, scrivere è una delle poche cose che ho davvero imparato a fare, ma quanto al contenuto… tutta aria fritta. Non è un caso se ho scelto una facoltà umanistica; a fisica, o matematica, non avrei potuto sostenere la parte, mi avrebbero subito smascherata. Comunque, non potevo dire di no all’Aspetti, dovevo almeno provarci. Gli altri aspiranti dottorandi tentavano il colpo su più piazze, organizzando dei veri e propri tour della speranza: clerici vagantes che si spingevano almeno fino Bologna, Firenze e Roma. Io no, per me era già abbastanza tentarlo nella mia sede. Simone invece veniva da Trento; lì, a quanto diceva, per quell’anno l’unico posto da latinista era già assegnato.

    «E tu?» mi chiese il giorno che lo conobbi, nei corridoi dell’istituto, «latinista o grecista?».

    «Grecista» risposi, e subito mi venne da ridere.

    «Perché ridi?».

    «Sono nervosa per il concorso» mentii.

    In realtà Simone non mi dispiaceva, e avrei preferito che mi chiedesse qualcosa come: «Che musica ascolti?», oppure: «Ti piace andare al cinema?», ma i classicisti sono strani animali e si corteggiano così: «latinista o grecista?». O forse, cosa più probabile, non mi stava per niente corteggiando: voleva solo sapere se ero una sua diretta concorrente.

    Appurato che non lo ero, mi offrì una sigaretta.

    «È un ottimo rimedio per calmare i nervi».

    Accettai, anche se avevo deciso di smettere giusto la sera prima. A quei tempi il fumo era ancora piuttosto diffuso; anche se in molti posti pubblici era vietato, non lo era per esempio nella maggior parte dei ristoranti e dei locali, e in università era ben tollerato, purché ci si limitasse agli atri o ai corridoi. Qualche professore fumava anche in aula o durante gli esami, circostanza quest’ultima in cui logicamente nessun candidato, per quanto salutista, avrebbe mai trovato niente da eccepire.

    «Allora? Ti è andato bene lo scritto?» chiese Simone, mentre fumavamo sulle scale dell’istituto.

    «Sì, stranamente ho avuto il punteggio più alto» dissi.

    «Perché stranamente

    «Perché la versione era assurda, un Inno orfico, figurati, una roba incomprensibile. Dato che comunque capivo il senso delle singole parole, mi sono limitata a tradurre alla lettera».

    «La tattica ha dato i suoi frutti, allora. Con chi ti sei laureata?».

    «Con l’Aspetti».

    «Daniela Aspetti? Quella che è in commissione di concorso?».

    «Sì».

    Nel silenzio che seguì, gli lessi nel pensiero: Sei in testa a tutti nello scritto, e la tua prof. è in commissione: il posto è già tuo. Stava per dire questa o una qualsiasi altra cosa, quando lo vennero a chiamare: toccava a lui. Spense la sigaretta e corse dentro; non feci nemmeno in tempo ad augurargli in bocca al lupo. Venti minuti dopo uscì con il viso in fiamme e un sorriso raggiante.

    «Li ho stesi» mi disse, e aggiunse strizzandomi l’occhio: «Ti aspetto fuori».

    Ero subito dopo di lui: potenza del destino, o dell’ordine alfabetico. Entrai nell’ufficio dell’Aspetti, dove si era riunita la commissione, e mi sedetti, cercando di dissimulare l’ansia che mi opprimeva il petto. La mia prof. sorrideva, con la sua solita aria mite e accondiscendente; alla sua destra sedeva Meyer, presidente della commissione e temutissimo professore di grammatica greca. All’altra estremità della cattedra, terzo membro del triplice tribunale infernale, stava con un’espressione di noia mal dissimulata il bel Sandro Leoni. Avevo avuto tre o quattro compagne di corso invaghite del professore di letteratura latina, vitellone cinquantenne appena imbolsito dall’età, un po’ troppo piacione per i miei gusti, troppo consapevole del proprio fascino.

    «Molto bene» disse Meyer, con un tono sprezzante che sembrava affermare il contrario, «questo è il suo compito scritto, dottoressa Bonelli» e mi tese un foglio quasi immacolato, con un’unica annotazione rossa in una calligrafia minuta, tra le righe vergate con la bic nera dalla mia scrittura sgraziata da terza elementare. Mi vergognavo così tanto, che non feci commenti.

    «Praticamente non ha fatto errori» disse l’Aspetti, «complimenti».

    «Grazie» dissi io, arrossendo. Vidi con la coda dell’occhio che Sandro Leoni sbadigliava.

    «Ora ci parli del suo progetto di dottorato», disse Meyer. Sussultai. Come al solito, non mi ero preparata. Ero convinta che mi avrebbero fatto delle domande sulla tesi di laurea, o sulla versione tradotta per il concorso. Feci appello a tutte le mie consumate arti istrioniche e simulai una sicurezza che non avevo nell’esporre un sedicente progetto: presi spunto dall’ultimo articolo che avevo letto prima di laurearmi e lo infarcii con un po’ di dettagli rubati a una conferenza a cui avevo assistito di recente. L’Aspetti annuiva, Meyer mi guardava con l’espressione indecifrabile di sempre; Leoni sbadigliò di nuovo, poi si accese una sigaretta, incurante dell’occhiataccia che gli scoccò Meyer. Che cafone, pensai, mentre continuavo a blaterare.

    «Basta così» disse Meyer seccato, non capivo se con me o con Leoni, e mi mise davanti un librettino dalla copertina blu, aperto a caso su due pagine ingiallite.

    «Legga» intimò.

    Era un libro in francese sull’Antigone di Sofocle, era la parte dell’esame volta ad accertare le competenze in lingua straniera. Me la cavavo piuttosto bene col francese, così feci risuonare la mia pronuncia quasi parigina con un tono forse un po’ troppo compiaciuto. Meyer mi fermò dopo una decina di righe: «Traduca», ordinò, e io eseguii senza esitazione. Alla fine del breve paragrafo mi appoggiai allo schienale della sedia, perfettamente a mio agio.

    «Nella sua domanda di dottorato» disse Meyer fissandomi intensamente con gli occhi da Terzo Reich, «ha indicato anche una conoscenza del tedesco scritto».

    Lo sapevo, pensai, ho fatto una cazzata. Quale demone dell’autodistruzione aveva guidato quel giorno la mia mano? Anche se avevo seguito un breve corso di tedesco per mettermi in grado di leggere in tempi ragionevoli qualche articolo per la tesi, da lì a millantare una vera e propria conoscenza del tedesco ce ne correva. Tuttavia, annuii: cos’altro potevo fare? Meyer mi aprì sotto il naso un altro dei suoi volumetti, con le pagine in tedesco questa volta; almeno mi risparmiò i caratteri gotici. A leggere me la cavai discretamente, poi diedi inizio alla traduzione. Dopo tre parole mi fermai: «Cosa vuol dire abergläubisch?» chiesi.

    «Scaramantico», rispose bruscamente. Proseguii, ma dopo due parole ero di nuovo arenata. «Mi scusi, e… Hochstapelei?».

    Meyer stava per rispondere, ma l’Aspetti lo fermò con un gesto della mano.

    «Per me può bastare così» disse.

    «Anche per me» confermò Leoni, distratto e perso in qualche suo pensiero. Se non spegneva al più presto il mozzicone che ancora stringeva tra le dita, si sarebbe di certo ustionato.

    «E va bene» disse Meyer, chiudendo il libro con un colpo secco, «vada pure».

    Mi alzai dalla sedia, ringraziando e salutando, ed ero già sulla porta quando sentii la voce di Meyer colpirmi alle spalle come una sassata.

    «Impostura».

    «Prego?» chiesi io, voltandomi.

    «Hochstapelei» disse lui raggelandomi con le iridi azzurre, «vuol dire impostura».

    Simone mi stava davvero aspettando in corridoio; parlava fitto con una bionda di spalle. Quando mi avvicinai riconobbi il viso ovale e sornione di Bianca Milani.

    «Verrra» disse lei, calcando a bella posta la sua insopportabile erre arrotata, «allora, sarai dei nostri?».

    Bianca era una dottoranda del secondo anno; la conoscevano tutti in istituto e lei sapeva tutto di tutti, era onnipresente come le pallide lampade al neon e gli scaffali grigi di metallo.

    «Sì, dicci com’è andata» fece Simone. Dicci… non potei fare a meno di notare con disappunto quel plurale.

    «Credo sia andata

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