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Bagliori di morte
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E-book380 pagine5 ore

Bagliori di morte

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Info su questo ebook

Quando il corpo di una giovane donna viene trovato nel suo stesso giardino, a una settimana dalla scomparsa, gli investigatori giungono a una conclusione agghiacciante: la donna è l’ennesima vittima di un serial killer di cui nessuno conosceva l’esistenza e, con ogni probabilità, non l’ultima.
L’Agente Speciale dell’FBI Tess Winnett e i detective assegnati al caso cercano delle risposte tra un’infinità di prove che non conducono a nessuna pista valida. È soltanto quando viene ritrovato un altro corpo che emergono alcuni dettagli sull’insolita firma dell’assassino: gli piace pedinare le sue vittime prima di rapirle e gli piace mostrare loro un vivido assaggio di ciò che sta per accadere.
L’implacabile Tess Winnett e il suo team daranno la caccia a un serial killer che uccide senza pietà, un predatore di giovani madri. Piena di risorse, creativa e intransigente, Tess non si fermerà davanti a nulla per catturare l’assassino, prima che possa annientare un’altra vita innocente.
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2022
ISBN9788855313582
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    Anteprima del libro

    Bagliori di morte - Leslie Wolfe

    Rapita

    Lui la osservò dall’altra parte della strada mentre usciva dalla caffetteria. Era bella. I lunghi capelli castani ondulati si arricciavano e le ondeggiavano lungo le spalle in ciocche folte e vellutate, danzando a ogni suo passo. Il suo sorriso era abbagliante, persino da lontano, e aveva gli occhi socchiusi, come se una risata li avesse accesi con una scintilla di felicità.

    Si leccò le labbra, deglutendo a fatica. Ben presto quegli occhi avrebbero guardato lui. Avvertì un guizzo sotto la cintura e un sorriso storto gli incurvò l’angolo della bocca.

    La ragazza si fermò all’esterno della caffetteria e si voltò per guardare l’uomo che le aveva tenuto aperta la porta. Poi si allungò e gli prese la mano, intrecciando le dita con le sue, il sorriso più pronunciato. L’uomo si chinò e la baciò sulle labbra, attardandosi un istante, poi si voltò e sparì velocemente dietro l’angolo. Lei aprì la borsa, mentre lo guardava allontanarsi, ed estrasse le chiavi dell’auto.

    Quello era il segnale. Il momento di muoversi.

    Si passò i palmi sudati sui capelli biondi radi per sistemarseli, per quanto non ci fosse molto da fare per le poche ciocche restanti, ormai sfoltite da un’attaccatura di capelli sempre più alta. Raddrizzò la schiena e il nodo della cravatta, poi si abbottonò la giacca. Si controllò nel cristallo fumé dell’auto e vide un uomo elegante e discretamente attraente, l’aspetto di chi stava per impersonare.

    Attraversò in fretta la strada e raggiunse la donna proprio nell’istante in cui stava per mettersi dietro al volante. Rallentò a sufficienza per darle il tempo di sedersi, ma bloccò la portiera prima che lei potesse chiuderla.

    «La dottoressa Katherine Nelson?» domandò, mostrandole un portafoglio con un finto distintivo della polizia.

    La giovane donna non si prese la briga di controllare le sue credenziali. Non lo facevano mai. Ma anche se le avesse verificate, il documento falso era di ottima fattura: sarebbe riuscito a passare per vero con la maggior parte di cittadini privi di istruzione. Lo aveva pagato parecchi soldi, e li valeva fino all’ultimo centesimo. Non aveva più bisogno di appostarsi nell’ombra, preoccupandosi di soffocare le loro grida con il rischio di venire preso a calci, morso e graffiato. Poteva uscire alla luce del giorno e fare il suo lavoro.

    «Sì, sono io» rispose la donna con la voce che le tremava un po’.

    «Mi dispiace, ho una brutta notizia per lei. Suo marito…»

    «Cos’è successo? Qual è il problema?» quasi urlò: il panico le aveva insinuato nella voce un timbro acuto.

    Non doveva sforzarsi di essere creativo. Non gli lasciavano mai finire la dannata frase.

    «Sarebbe meglio se venisse con me, dottoressa Nelson. Facciamo prima.»

    La donna afferrò la borsa, sbatté la portiera della macchina, poi si avviò velocemente dietro di lui, che stava attraversando la strada per tornare verso la propria automobile. Il suono ritmico dei suoi tacchi sull’asfalto gli evitò di guardarsi alle spalle per assicurarsi che lo stesse seguendo.

    La condusse fino a una Crown Victoria nera priva di contrassegni, che aveva acquistato a un’asta della polizia un paio di anni prima, e le tenne la portiera aperta. Poi si sedette al posto di guida e inserì la chiave nell’accensione.

    «Per favore,» lo pregò Katherine, voltandosi verso di lui, «mi dica che cosa è successo a Craig. Sta bene?»

    L’uomo s’infilò la mano in tasca e ne estrasse una siringa, a cui rimosse in fretta il cappuccio. Lei lo fissò sbalordita, impallidendo, incerta. Poi si ritrasse il più possibile, cercando disperatamente di afferrare la maniglia della portiera, ma incapace di distogliere lo sguardo dall’ago che si avvicinava. Aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono.

    «Suo marito è in un mare di guai, dottoressa Nelson.» L’afferrò per le spalle con una presa d’acciaio e le piantò l’ago nel lato del collo, spingendo rapidamente lo stantuffo prima che lei potesse reagire. «Vede, la sua moglie infedele è stata rapita oggi.»

    Sala d’attesa

    I tre uomini si conoscevano bene, ma si scambiarono a malapena uno sguardo. Di tanto in tanto borbottavano qualcosa tra i denti, quasi bisbigliando, sebbene nessun altro riuscisse a sentirli. A parte quello, aspettavano.

    Le sale d’attesa degli ospedali sono tutte uguali, indipendentemente da dove si trovano. Luci fluorescenti, dalle incerte sfumature viola-blu, e il ronzio incessante delle lampade montate sul soffitto. Un distributore automatico che, a tratti, ronzava anch’esso, con la tipica offerta di cibo spazzatura, pieno di sostanze chimiche e calorie inutili. Alcune sedie verdi, il tessuto consumato, uno schermo tv sulla parete, il volume azzerato.

    Se non altro avevano una certa privacy.

    Il personale degli ospedali è propenso a essere gentile con le forze dell’ordine, probabilmente per il costante lavoro che la professione tende a fornire. Rapporti temporanei, o anche durevoli, si formano tra i funzionari, gli agenti e i membri delle loro famiglie da una parte, e gli infermieri e i medici dall’altra. Purtroppo, le loro strade s’incrociano fin troppo spesso. Nel loro caso, la piccola sala d’attesa era il minimo che l’ospedale potesse fare.

    I tre uomini aspettavano da parecchio… ormai alcune ore. Senza pronunciare una parola.

    L’Agente Speciale Responsabile Alan Pearson si era allentato la cravatta, poi aveva incrociato le braccia sul petto. Ciò era avvenuto un’ora prima e da allora non si era mosso, anche se era un po’ irritato dall’irrequietezza del Detective Todd Fradella, dell’ufficio dello Sceriffo della Contea di Palm Beach. Il giovane investigatore non riusciva a stare seduto: camminava per la stanza come un animale in gabbia, passandosi in modo irritante le mani tra i capelli lunghi fino alle spalle, fermandosi a casaccio davanti alla finestra, come se ci fosse davvero qualcosa di interessante da osservare, nella luce del tardo pomeriggio.

    Quanto al Detective Gary Michowsky, nemmeno lui si era mosso, ma le sue labbra sì. Seduto sulla stessa sedia, le mani intrecciate in grembo, teneva lo sguardo fisso nel vuoto. Le mascelle serrate in modo spasmodico, stringeva in continuazione le labbra, mordendole dall’interno con rabbia. Cercava di restare calmo e tranquillo, ma la sua angoscia era evidente.

    Fradella si fermò davanti a Pearson.

    «Ci stanno mettendo un sacco» disse, rompendo il silenzio teso.

    Gli altri due lo fissarono con disapprovazione.

    «Spero che stia bene» continuò, quasi scusandosi. «Voglio dire, quando ci vuole così tanto…»

    «Chiudi il becco, Fradella» scattò Michowsky.

    Pearson aprì le braccia con un sospiro. «Coraggio, ragazzi, calmatevi» intervenne, guardando Michowsky.

    Quest’ultimo si agitò sulla sedia, poi abbassò gli occhi sul pavimento lucido, seguendo il disegno confuso delle piastrelle a mosaico.

    «È colpa mia» borbottò infine. «Tutto questo. È colpa mia.»

    Pearson corrugò la fronte e Fradella si voltò verso il collega.

    «Come fai a dirlo?» domandò Pearson.

    Michowsky rimase in silenzio, continuando a mordersi le labbra.

    «Sei stato tu a pugnalarla?» continuò Pearson. «Sei stato tu, detective? O è stato uno psicopatico che alla fine avete mandato all’obitorio?»

    Michowsky fissò Pearson con rabbia, poi abbassò di nuovo gli occhi. Non c’era niente da dire, e comunque non voleva essere consolato da nessuno di loro.

    «Quando questa faccenda sarà conclusa,» riprese Pearson, imperturbabile, facendo un gesto con la mano, «avrò bisogno di una tua dichiarazione. Lo so che ha dovuto sparare, ma lei è sotto indagine inter…»

    Michowsky lanciò a Pearson un’altra breve occhiata piena di rabbia, interrompendolo.

    «Sì, ho saputo di quella assurdità. Le darò la dichiarazione quando vuole. È stata costretta a sparare.»

    La porta si aprì e un uomo alto in camice da chirurgo fece il suo ingresso. I tre poliziotti si riunirono intorno a lui, mettendosi a parlare tutti insieme, ponendo tutti la stessa domanda, ma con parole diverse.

    Il medico alzò le mani per calmarli. «Salve, sono il dottor DePaolo. Ci siamo conosciuti prima, penso» cominciò, incrociando lo sguardo di Pearson e Michowsky. «La vostra collega è forte, una combattente, ha buone possibilità di riprendersi completamente» spiegò, con un sorriso incoraggiante, mentre si passava la manica sulla fronte, dove si erano accumulate delle goccioline di sudore. L’orlo della cuffia chirurgica era umido.

    «Siamo stati vicini a perderla,» proseguì «ma credo che se la caverà. Le prossime ore saranno ancora delicate. Ha aspettato troppo.» Il medico si schiarì la voce, poi riprese: «La XStat serve per bloccare l’emorragia quando i soccorsi stanno per arrivare, agenti. Non potete essere pugnalati, usare la XStat sulla ferita, metterci una garza e poi tornare al lavoro come se niente fosse.»

    I tre uomini si guardarono, poi, uno dopo l’altro, abbassarono gli occhi.

    «Ha perso molto sangue» precisò il dottor DePaolo. «Adesso è in terapia intensiva, ancora sedata. Vi mostrerò dove, se volete seguirmi.»

    Il chirurgo si avviò veloce e silenzioso attraverso corridoi infiniti, poi condusse i tre poliziotti in una stanza in un’area riservata del piano. La camera aveva una parete di vetro e una porta scorrevole, anch’essa con pannelli di vetro. All’interno, circondata da montagne di schermi digitali e attrezzatture che emettevano vari bip, una piccola figura giaceva immobile nel letto.

    Tess appariva pallida e sottile contro le lenzuola bianche: Gary quasi non la riconobbe. Accanto a lei, un’infermiera rilevava i dati emessi dai macchinari e prendeva degli appunti su un grafico.

    Lo sguardo cupo, Pearson picchiettò sul vetro. In silenzio, l’infermiera aprì la porta.

    «Perché la paziente è stata legata, signorina… Henderson?» le domandò in tono brusco, leggendo il nome sul tesserino d’identificazione che indossava.

    Gary non aveva notato le cinghie, ma, dopo che Pearson ne aveva accennato, si preoccupò anche lui. Tess aveva i polsi legati alle sponde del letto e continuava a muovere la testa, lentamente, senza aprire gli occhi, gemendo.

    «È molto agitata, anche se è stata pesantemente sedata. Non possiamo rischiare che si muova troppo, lacerando le suture.»

    «Farò mettere un agente in uniforme davanti alla porta» decise Fradella. «Per sicurezza.»

    Gary pensava che non ce ne fosse bisogno, ma non ritenne necessario contraddirlo. Dopotutto, in quella stanza c’era Tess Winnett, impegnata a sopravvivere.

    «Siete della famiglia?» domandò l’infermiera.

    «Famiglia lavorativa» rispose Michowsky, guadagnandosi un’occhiata curiosa da Pearson. «Perché? Le serve qualcosa?»

    «È preoccupata per il suo gatto. Continua a mormorare qualcosa. Non riesco a capire, ma ha a che fare con un gatto. Qualcuno può controllare a casa sua e assicurarsi che il gatto stia bene? Forse dopo riuscirà a riposare meglio.»

    Michowsky fissò Tess, confuso per qualche secondo. Avrebbe voluto poterle chiedere di che cosa avesse bisogno. I poliziotti le avevano messo l’appartamento a soqquadro, c’era andato anche lui: era ancora una scena del crimine attiva. Nessuno aveva parlato di un gatto e non ricordava di aver visto da nessuna parte ciotole di cibo o giocattoli per animali.

    Poi gli tornò in mente qualcos’altro.

    Prese il cellulare e disse: «Penso di sapere di cosa si tratta.»

    Digitò il 411, poi chiese un’informazione: «Mi serve il numero del Media Luna Bar and Grill, o qualcosa di simile. Sì, a Palm Beach. Sì, mi metta in comunicazione: rimango in linea.»

    Qualche secondo più tardi, Michowsky interruppe di nuovo il silenzio.

    «Sì, ehm, salve Cat ¹, potrebbe voler sapere che Tess è in ospedale.» Smise di parlare per un istante, poi riprese: «Ospedale Universitario di Miami, terzo piano, stanza 3104.»

    La telefonata finì senza ulteriori commenti. Michowsky si sarebbe aspettato qualche domanda, ma non ce ne furono. Meglio così. Si sentiva esausto, quel tipo di stanchezza prodotta dal sollievo, dopo un lungo periodo di tensione.

    L’infermiera sorrise e gli fece un cenno di ringraziamento. Gary si sedette sulla sedia di plastica dall’altra parte del corridoio e si abbandonò a un gran sospiro.

    «Non si sveglierà ancora per molto» li avvisò l’infermiera. «Perché non andate a casa? Vi farò chiamare non appena riaprirà gli occhi.»

    «Io non vado da nessuna parte» ribatté Michowsky, riprendendo la postura di poco prima, con le mani fermamente intrecciate in grembo e le spalle curve in avanti. Pearson annuì e fece lo stesso, lasciando una sedia vuota tra di loro e sedendosi un posto più in là. Fradella riprese i suoi avanti e indietro, incluse le fermate occasionali davanti alla finestra vicina, ora del tutto inghiottita dall’oscurità.

    Qualche minuto dopo, arrivò un agente in uniforme, accolto a bassa voce da Fradella e Michowsky, e prese una sedia per sé posizionandosi accanto alla porta di Tess. L’infermiera aggrottò la fronte nel vederlo sedersi lì, ma poi fu assorbita dal proprio lavoro e il cipiglio svanì.

    Lo squillo del telefono di Michowsky suscitò la disapprovazione di tutto il corridoio, persino di chi stava solo passando di lì. Gary prese subito la chiamata, inviando sguardi di scusa in tutte le direzioni. Un minuto più tardi, si alzò, pronto per partire.

    «Fradella, devo andare. Hanno trovato Lisa Trask, la donna scomparsa la scorsa settimana. È morta da almeno un giorno. Tu rimani qui: me ne occuperò da solo. Chiamami non appena Tess si sveglia.»

    «Sicuro. Dove hanno trovato il corpo?»

    «Non ci crederai… Nel suo giardino.»

    Rivolse un cenno a Pearson e si allontanò in fretta, senza notare lo sguardo preoccupato apparso sul viso dell’agente speciale nel momento in cui aveva menzionato il luogo del ritrovamento del cadavere.

    Scena del crimine

    Michowsky ci mise quasi un’ora per arrivare sulla scena del crimine: il traffico era ancora intenso, malgrado il buio anticipato di quella giornata invernale nel sud della Florida.

    L’inverno in Florida… Che perfetta contraddizione in termini. Non c’è nulla di invernale, tranne giornate più brevi e notti più lunghe, temperature piacevoli e molti più turisti, sufficienti a rendere le strade impraticabili per alcuni mesi all’anno.

    Quando raggiunse la residenza dei Trask, la strada era gremita di veicoli di emergenza con i lampeggianti accesi e l’area era stata delimitata dal nastro giallo. I vicini, radunati in piccoli gruppi, chiacchieravano ininterrottamente, e sui loro volti si leggevano curiosità e preoccupazione. Niente agita un tranquillo quartiere di periferia più di un cadavere rinvenuto nel giardino posteriore di qualcuno.

    Michowsky riconobbe il furgone del coroner e, felice perché non avrebbe dovuto aspettare l’arrivo del dottor Rizza, borbottò: «Bene.»

    Mostrò il distintivo al giovane agente in uniforme che teneva a bada i curiosi e si diresse verso il giardino sul retro, seguendo la scia dei tecnici della Scientifica che facevano avanti e indietro dal loro furgone al punto di ritrovamento del cadavere.

    Il posto era inondato di luce, proveniente da numerose lampade alogene portatili. Si affrettò verso l’estremità del giardino, dove i tecnici, per favorire l’accesso, avevano rimosso una parte di arbusti marcando il limite della proprietà.

    La ragazza giaceva nuda sul terreno, come se stesse aspettando qualcuno. Il bel viso, sereno e immobile, le riposava sul braccio piegato. La lunga chioma sensuale la copriva in parte, fluttuando dolcemente nella brezza serale. Il braccio destro era disteso in posizione rilassata, le gambe allungate, con le caviglie incrociate. Aveva gli occhi semichiusi e sulle labbra pallide si attardava un accenno di sorriso, come per dare il benvenuto a un amante invisibile. Nonostante il mortale pallore bluastro, sembrava quasi viva. Tutto per via della postura.

    «Sembra viva, vero?» chiese il dottor Rizza, sfiorando la spalla di Michowsky.

    «Già» rispose Michowsky. «Pare quasi che sia…»

    «A letto, in attesa del suo amante?» continuò il dottor Rizza, con un accenno di tristezza nella voce.

    «Già» ripeté Michowsky, passandosi la mano sulla nuca. «Qualche conclusione preliminare?»

    «Alcune» rispose il dottor Rizza, facendo segno ai suoi assistenti di cominciare a preparare la barella e il sacco per il cadavere. «È morta da circa trenta ore. Dall’esame preliminare, la causa della morte è lo strangolamento. Vedi le petecchie qui e qui, intorno agli occhi?»

    «Sì» replicò Michowsky. «Che cosa ha usato?»

    «Un qualche tipo di corda, penso. Ho rinvenuto qualche fibra nelle escoriazioni sulla gola. Le sottoporrò alla ricerca di residui e di dna.»

    Michowsky annotò qualcosa sul taccuino. «Metterò un po’ di agenti alla ricerca di quel pezzo di corda. Magari, se siamo fortunati… Cassonetti, cespugli.» Si schiarì piano la voce. «È stata stuprata?»

    «Dovrai aspettare i risultati dell’autopsia ma, se dovessi azzardare un’ipotesi, direi di sì.»

    Michowsky inarcò le sopracciglia. Era raro che il dottor Rizza azzardasse qualsiasi tipo di ipotesi. Era orgoglioso della sua rigorosa aderenza ai fatti scientifici. «Osservare, non speculare» amava dire.

    «Vedi quei segni sulle caviglie?» chiese, accovacciandosi accanto alla vittima e indicandone i piedi. «Le abrasioni sono più pronunciate nella parte interna delle caviglie, qui, e sui tendini di Achille, e sono compatibili con l’essere stata tenuta legata con le gambe divaricate. Questo genere di legatura è comune nelle vittime di aggressioni sessuali. Ne saprò di più tra qualche ora.»

    «D’accordo. Grazie, Doc.»

    «Non ho ancora finito» ribatté Doc, alzandosi poi con un gemito. «Questa non è la tua scena del crimine primaria.»

    «Lo immaginavo» confermò Michowsky.

    «È stata spostata, poche ore dopo essere stata uccisa. Il livor mortis è evidente sul seno, sulla parte interna delle braccia, sull’addome e sui piedi.»

    «Uhm… Non ha senso» commentò Michowsky, parlando più a se stesso.

    «Sì, invece, se la immagini piegata su un tavolo o un letto alto, con le caviglie legate alle colonne e i polsi bloccati in avanti. Dopo la morte, è stata lasciata in quella posizione per almeno tre o quattro ore, a giudicare dai gradi di lividezza. Il sangue si è raccolto nelle aree a contatto con le superfici di sostegno: piedi, braccia, petto e addome. Poi, è stata spostata nella posizione che vediamo qui, prima dell’inizio del rigor mortis completo.»

    «Stai dicendo, scaricata qui quasi in fase di rigor? Sei sicuro?»

    «Molto» rispose il dottor Rizza con un sospiro, rivolgendo a Michowsky uno sguardo pressoché offeso. «Non c’è assolutamente segno di attività di insetti, né sabbia o polvere depositatasi sulla pelle. Non è qui da tanto.»

    «Audace» osservò Michowsky, puntando il fascio luminoso della propria torcia nella foresta fitta che si allungava oltre il confine della proprietà dei Trask. «Che cosa c’è da quella parte?»

    AJ, l’assistente del dottor Rizza, si avvicinò con lo smartphone in mano, e mostrò lo schermo ai due uomini. Davanti ai loro occhi si apriva la vista satellitare dell’area, con un piccolo puntino blu a indicare la loro posizione, al limitare del giardino della casa.

    «Nulla a parte una distesa di boschi, fino alla statale. Che non è neanche così lontana; forse una trentina di metri circa in linea retta» spiegò AJ. «Suppongo sia venuto da lì, non dalla strada.»

    «Niente supposizioni, AJ» lo sgridò il dottor Rizza come avrebbe fatto un genitore. «Non è quello che facciamo.»

    AJ afflosciò le spalle. «Scusi, Doc.»

    «Però, potresti avere ragione» riprese Michowsky. «È il tragitto più sensato per arrivare qui senza essere visto, soprattutto se stai trasportando un cadavere. Non è che puoi semplicemente accostare l’auto al marciapiede ed entrare in giardino percorrendo il vialetto con le luci a sensore, sotto gli occhi di tutto il quartiere, giusto? Non è nemmeno così tardi. C’è ancora un via vai di persone.» Si stiracchiò un po’ la schiena. «Metterò al lavoro una squadra di ricerca; dobbiamo passare al setaccio ogni centimetro del sentiero tra i boschi.»

    «Di nuovo, non ho finito, Gary» continuò il dottor Rizza. «Vedi questo anello? Le va un po’ grande sul dito ed è più sottile del segno dell’abbronzatura. Chiedi al marito se era suo; personalmente, non credo. In ogni caso, lo farò esaminare alla ricerca di residui e impronte.»

    Il coroner rimosse con attenzione l’anello e lo infilò in una busta per le prove, poi la sigillò e firmò il sigillo. Michowsky scattò una foto dell’anello con il cellulare, poi il dottor Rizza mise la busta insieme a tutte le altre, nel contenitore apposito.

    Michowsky si grattò la fronte corrucciata, per poi passarsi la mano sui capelli a spazzola.

    «Perché portarla qui, Doc? Perché correre questo rischio? Era scomparsa da una settimana; questo è l’ultimo posto in cui chiunque avrebbe guardato.»

    Il dottor Rizza sospirò, gli occhi che gli si riempivano di tristezza. «Non so cosa risponderti, Gary, ma conosco qualcuno in grado di farlo. Se non oggi, allora presto. Fradella mi ha detto che è uscita dalla sala operatoria un paio d’ore fa. Come sta, Tess? L’hai vista?»

    «Sì, da un vetro. È…» Non completò la frase.

    «Si riprenderà» proseguì il medico. «Sono le notizie che ho avuto. Fradella mi aggiorna ogni ora.»

    Michowsky rimase a osservare per alcuni secondi AJ che preparava il sacco per il cadavere, mentre il dottor Rizza riordinava i suoi strumenti. «Sai dov’è Buchanan?» domandò infine.

    «Chi?»

    «Gloria Buchanan, la detective della sezione Persone scomparse che ha gestito il caso di Lisa Trask.»

    «Ahh…» replicò il dottor Rizza. «Le mie scuse. Vedi, nel mio lavoro incrocio perlopiù voi detective della Omicidi. Penso sia laggiù, che sta parlando con il signor Trask.»

    Michowsky si voltò e individuò Buchanan. Era in piedi accanto alla porta sul retro, di fronte a un giovanotto con un bambino in braccio. Quest’ultimo, ignaro di tutto quello che stava accadendo, giocava con i capelli del padre, afferrandogli le ciocche e tirandogliele.

    Si avvicinò e si presentò: «Signor Trask, sono il Detective Gary Michowsky della Omicidi. Mi dispiace molto per la sua perdita.»

    L’uomo gli strinse la mano. Aveva gli occhi rossi e gonfi. «Ramos» disse. «Enrique Ramos. Mia moglie aveva mantenuto il suo cognome e raramente usava il mio» aggiunse, evitando lo sguardo di Michowsky. «I suoi genitori non erano, come posso dire, contenti della sua scelta etnica in fatto di marito.»

    «Mi rincresce. Non lo sapevo» replicò in fretta Michowsky.

    Enrique si strinse nelle spalle, continuando a guardare altrove, gli occhi di nuovo colmi di lacrime. «Prima non era qui» disse infine. «È impossibile che fosse qui quando ho portato fuori il cane. Sono tornato dal lavoro, sono uscito con Buster, ma lei… non c’era.»

    «Lo sappiamo» ribatté Michowsky in tono gentile. «Le prove vanno in quella direzione. È stata lasciata qui da pochissimo.»

    «Quando è morta? Forse se avessi…»

    «Signor Ramos, lei non avrebbe potuto fare niente» proseguì Michowsky. «Niente. Sua moglie è morta ieri.»

    «Oh Dio…» mormorò, mentre dal petto gli usciva, in un singhiozzo, un respiro tremante. Poi, il marito si sforzò di respirare e sollevò gli occhi per incontrare quelli di Michowsky. «Sa, il suo corpo è esattamente dove lei l’aveva visto.»

    «Visto chi?» domandò Michowsky.

    La Detective Buchanan gli porse una cartellina aperta. «L’uomo con la corda. C’era un’indagine aperta a questo indirizzo anche prima che lei sparisse.»

    Michowsky alzò gli occhi dal fascicolo e guardò Enrique.

    «Un paio di giorni prima di scomparire, mia moglie aveva visto un uomo laggiù. Ma non era stata l’unica volta. La prima volta, lo aveva notato nel parcheggio dell’ufficio, mentre lasciava il lavoro. Pensava fosse solo un fuori di testa qualunque. Ma, dopo averlo visto in giardino, avevamo chiamato la polizia. Nessuno ha fatto niente. Adesso lei è morta.»

    Michowsky cominciò a leggere il rapporto nella cartellina di Buchanan, ma poi cambiò idea. «Mi può dire esattamente che cosa vide sua moglie?»

    Enrique si schiarì la gola, tirando su in silenzio con il naso. «Lui era laggiù, dietro a quegli arbusti. Teneva in mano una corda come se fosse pronto per strangolare qualcuno. Ricordo che mia moglie disse che aveva la corda arrotolata intorno ai pugni in diversi giri. L’aveva fissata dritto negli occhi. Lisa era terrorizzata. Aveva urlato, ma, quando sono uscito, l’uomo era scomparso.»

    Michowsky si voltò verso Buchanan. «Ci sono degli schizzi? Che aspetto aveva?»

    «No. La signora Trask non lo aveva visto in faccia» rispose la detective, un po’ sulla difensiva. «Non avevamo nulla con cui procedere. Però avevamo inserito il rapporto nel sistema.»

    «Aveva detto di essere riuscita a vedergli solo le mani e la corda. Quel tizio era rimasto con il viso al buio.» Enrique fece un profondo respiro tremante prima di continuare: «L’ha strangolata, vero?»

    Michowsky distolse gli occhi per una frazione di secondo. «Ne sapremo di più non appena l’autopsia sarà completata. La prego, signor Ramos, si prenda cura di sé e di suo figlio, e noi faremo tutto quello che è in nostro potere per catturare l’uomo che ha ucciso sua moglie.»

    Enrique non parve convinto, ma abbassò la testa e si voltò verso la casa.

    «Ancora una cosa» riprese Michowsky, tirando fuori il telefono. «Questo anello era suo?»

    Il giovane uomo guardò la foto per meno di un secondo.

    «No, assolutamente no. Indossava sempre la fede. Era d’oro, spessa, con tre brillanti. Non ho mai visto quell’anello.»

    Una vita

    Melissa Henderson scivolò dietro al volante della sua Acura rossa e tirò a sé la portiera. Poi si abbandonò a un lungo sospiro e chiuse gli occhi per un paio di minuti. Finalmente, un po’ di pace, dopo un’interminabile giornata di frenesia al Pronto Soccorso. Quella mattina, era riuscita a fare una pausa: era stata assegnata alle cure dell’agente federale ferita e ciò aveva portato un piacevole cambiamento di scenario, uno sporadico break dal faticoso turno nel reparto delle emergenze.

    Tuttavia, non poteva indugiare troppo; doveva correre a casa da suo figlio. Accese il motore e inserì la marcia, preparandosi a partire. Poi, rimosse la targhetta con il proprio nome e la lasciò cadere nel solito posto, nel porta bicchiere centrale del vano portaoggetti. Non molto tempo prima, aveva l’abitudine di togliersi l’uniforme da infermiera prima di lasciare l’ospedale, aggrappandosi alla sua individualità, alla sua femminilità. Ora non aveva più senso; era troppo stanca, e comunque nessuno la guardava.

    Rimase a fissare la targhetta; la raccolse di nuovo, passando le dita sulla superficie lucente. C’era scritto M. Henderson. Com’era appropriato. Sempre lui… Tutta la sua vita era incentrata su di lui ora, sull’uomo che aveva sposato otto anni prima, Derek Henderson. Solo una lettera riguardava lei, la M del suo nome di battesimo, Melissa. In che modo accurato quella targhetta rifletteva le realtà della sua esistenza…

    Quand’era stato che le cose avevano cominciato ad andare male? Per quanto si sforzasse, non riusciva a ricordarlo. Era stato il suo Principe Azzurro, il suo bellissimo Uomo Perfetto, alto e bruno, che le aveva fatto perdere la testa da giovane assistente infermiera appena uscita dalla scuola, e lui ragioniere, in procinto di ottenere il diploma di commercialista. Nel giro di pochi giorni, si erano innamorati sul serio e lei ancora rammentava il suo sguardo bruciante mentre la spogliava, desiderandola, bramandola come una droga. Le mancava quello sguardo rovente, le cose che le faceva. Le mancava l’uomo di cui si era innamorata.

    Dove va a finire un amore così?

    Avvertì una lacrima ribelle raccogliersi all’angolo dell’occhio e

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