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Antiche leggende. Storia perduta
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E-book152 pagine1 ora

Antiche leggende. Storia perduta

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Decine di storie vere, che la tradizione ha trasformato in leggende popolari, da narrare alla sera come fossero fiabe. Dal fantasma di Giuditta che ancora vaga nei Tribunali di Napoli, ai tanti tesori nascosti in ogni parte d'Italia, non ancora trovati. Storie di principesse, cavalieri, santi e lestofanti, ricordi confusi di storie piccine. Leggende in cui frugare, alla ricerca della Storia perduta.

IL RICCO DETTA LA SUA STORIA AL NOTAIO

IL POVERO RACCONTA LA SUA STORIA ALL'OSTE

LA LEGGENDA NARRA LA STORIA DI TUTTI
LinguaItaliano
Data di uscita1 feb 2022
ISBN9791220388504
Antiche leggende. Storia perduta

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    Anteprima del libro

    Antiche leggende. Storia perduta - Roberto Mancuso

    FANTASMI

    GIUDITTA

    Campania

    Mi chiamo Giuditta, sono nata a Napoli, non conosco il giorno esatto, ai miei tempi noi popolani non stavamo molto attenti al calendario e l’anagrafe si curava poco di gente come noi, so soltanto che sono nata qualche anno prima della Rivoluzione Francese e sono morta ai tempi della Rivoluzione Napoletana, ma questo lo seppi da morta che io da viva non m’impicciavo di politica, impegnata come ero a trovare il pane e l’amore.

    Ero ancora piccirilla quando divenni mamma di un bel bambino, ma suo padre mi fu tolto da una disgrazia, dissero che aveva frodato lo Regno, lo appiccarono alla forca e io rimasi sola, con mio padre e il mio bambino.

    Erano tempi difficili, mio padre non ce la faceva a mantenere sia me che la criatura, così mi chiuse nel convento di Sant’Antonio alla Vicaria, dove trovai pasti caldi e le buone costumanze che insegnano preti e suore.

    Io però ero una giovane vedova per malasorte, che cercava ancora carezze, ero bella e tentatrice e così s’innamorò di me Stefano d’Aniello, un bell’uomo con un buon lavoro, che però ci dava qualche preoccupazione: faceva il prete.

    Me ne andai dal convento nel 1794, ed erano già dieci anni che io e don Stefano ci amavamo, andai a vivere in casa sua, dicevamo alla gente che abitavo lì in grazia di Dio, come una perpetua che tiene pulita la stanza del prete, ma quando nessuno ci vedeva, in quella stanza eravamo marito e moglie, con il terrore che il nostro segreto venisse scoperto dai parrocchiani e dal vescovo, loro avrebbero distrutto l’amore nostro.

    Fu don Stefano ad avere l’idea.

    Teneva don Stefano un nipote di sedici anni, Leonardo Altamura, che abitava a Terlizzi, mi disse che me lo dovevo sposare, così le malelingue non avrebbero più avuto modo di solleticare l’aria, perché io sarei diventata la donna maritata a suo nipote. Il guaglione venne convinto al passo dallo zio prete e io me lo sposai, ma non dormivo con lui, che era don Stefano il mio vero amore, e credevo che il giovane marito di facciata non ci avrebbe traditi, perché in fondo eravamo noi la sua famiglia. Il ragazzo invece si stancò, forse si era innamorato davvero di me ed era geloso, oppure solo bigotto e malvagio come le malelingue che ci attorniavano, e così, dopo quattro anni dal matrimonio, tornò a casa sua, minacciando che ci avrebbe denunciato come adulteri peccaminosi. Ero disperata, non sapevo cosa fare e così chiesi aiuto a mio padre, gli dissi che mio marito mi aveva picchiata, derubata e poi era fuggito, Dio mi perdoni, con questa bugia trovai il suo aiuto e la soluzione ai miei problemi, Dio mi perdoni e mi tolga dal rimorso.

    Con la promessa di riappacificarmi, feci tornare mio marito a Napoli, dove mio padre e due altri complici che avevo ammaliato, stavano nascosti ad aspettarlo.

    Quel mio giovane marito fece appena in tempo a capire che stava per morire strangolato, poi uno dei miei tre complici, Pietro de Sandoli che faceva il chirurgo, prese il morto e lo tagliò a pezzi, che infilammo in vari sacchi, da disperdere nei boschi, in mare e nelle fogne e io, Dio mi perdoni, misi a bollire la sua testa e tolsi con le mie mani la carne del suo volto, perché non venisse mai più riconosciuto.

    Fu l’altro complice, Michele Sorbo di Cerignola, 22 anni, barbiere di giorno e sicario di notte, che venne fermato dai militari di ronda, de Turris e Senese.

    Michele portava un sacco in spalla, dentro c’erano pezzi del mio povero marito, gli chiesero cosa facesse con piezzi d’ ommo in un sacco, lui confessò e fummo perduti.

    Io, mio padre e don Stefano cercammo di fuggire, ma ci presero a Capodichino, poi ci processarono e il mio bel prete venne condannato all’ergastolo, perché pur essendo presente al fatto, non aveva alzato le mani contro suo nipote, lo seppellirono vivo a Fosso Marettimo in Sicilia, nel castello di Punta Troia, dove i carcerati venivano chiusi in un’antica cisterna asciutta, in cui venivano calati dall’alto, con i piedi legati da catene, la botola poi richiusa.

    Nessun’altra finestra in quello stanzone a sette metri sottoterra, che era il carcere in cui finì don Stefano.

    Invece io, mio padre, il barbiere e il chirurgo finimmo sulla forca, ci tagliarono anche la testa e le mani e le misero in bella mostra sulle mura della Vicaria. Quando la mia testa fu bella spolpata, presero il teschio e lo misero nel Museo Anatomico, dove ancora fa bella mostra di sé.

    Non ricordo in che giorno sono nata, ma ricordo bene quando sono morta, avevo trentadue anni ed era il primo sabato dopo la Santa Pasqua, il 19 aprile del 1800, in un bel giorno di Primavera.

    Il mio nome era Giuditta Guastamacchia, vissi malamente e non merito scuse per la mia colpa, ma spero che, almeno in parte, fu mio destino e non solamente peccato mio.

    Il mio spirito non ha mai lasciato Napoli, ora mi aggiro nei vicoli della Vicaria, a Castel Capuano e negli Archivi del vecchio Tribunale, dove mi hanno sentita in tanti urlare la mia disperazione e la mia rabbia, mentre rovisto e cerco ancora e poi ancora, gli Atti del mio processo. Mi chiamano il fantasma degli avvocati, ma sono solo un’anima in pena.

    VITTIME E CARNEFICI

    Lazio

    «Viengheno: attenti: la funzione è llesta

    Ecco cor collo iggnudo e ttrittichente

    er prim’omo dell’opera, er pazziente,

    l’asso a ccoppe, er ziggnore de la festa»

    Er dilettante de Ponte

    Giuseppe Gioacchino Belli

    Beatrice salì sul palco accompagnata da due frati cappuccini. Era una splendida giornata di settembre, talmente calda che qualcuno, nella numerosa folla che assisteva all’evento, venne colpito da insolazione.

    C’era talmente tanta ressa davanti a Castel Sant’Angelo, che alcuni scivolarono nel Tevere e ci fu chi annegò, ma quando apparve Beatrice tutti rimasero immobili e puntarono gli occhi sulla ragazza.

    La guardarono posare il capo sulla tavola finché non cadde la sua testa, tranciata dalla mannaia del boia. Era l’undici settembre del 1599, lei era Beatrice Cenci, aveva 22 anni e pochi minuti prima era stata decapitata anche Lucrezia, la sua matrigna.

    Suo fratello Giacomo quello stesso giorno venne straziato dalle tenaglie roventi, poi un colpo di mazza gli sfondò il cranio, infine venne squartato.

    Bernardo, il fratello più giovane, di soli 18 anni, era stato condannato ad assistere all’esecuzione dei famigliari prima di essere condotto all’ergastolo, ma non resse e cadde svenuto.

    La famiglia Cenci era stata giustiziata per aver ucciso il conte Francesco Cenci, uomo violento e padre di Beatrice, Giacomo e Bernardo. Le indagini, condotte con uso abbondante della tortura e nessuna garanzia per gli imputati, conclusero che Beatrice, esasperata dalle violenze e dagli abusi sessuali paterni, aveva organizzato il parricidio con la complicità della matrigna Lucrezia Petroni, quella dei fratelli e di Olimpio Calvetti e Marzio da Fioran, questi ultimi esecutori materiali dell’omicidio, compiuto a Petrella Salto, dove il padre e marito violento, teneva segregate moglie e figlia. Calvetti e da Fioran però non salirono sul patibolo quel giorno, perché il primo, che aveva confessato, riuscì a fuggire, ma venne ritrovato ucciso. Da Fioran invece era già morto sotto tortura.

    Il crimine ebbe enorme risonanza ed il popolo si schierò dalla parte della ragazza, vittima di un padre crudele e di un potere iniquo e beatrice entrò così a far parte della tradizione romana, trasformandosi in un personaggio letterario, cantato tra gli altri da Moravia e Sthendal, e fonte d’ispirazione di pittori come Guido Reni, che la ritrasse in carcere, e di Caravaggio, che assistette alla decapitazione. Beatrice oggi è anche il fantasma più famoso di Roma, perché ogni anno, nelle notti a cavallo del 10 e 11 settembre, la si può incontrare mentre percorre lentamente il ponte di Castel Sant’ Angelo, davanti alla piazza in cui venne giustiziata. Dopo la decapitazione la sua testa venne messa su un vassoio d’argento e posta sul corpo, che venne sepolto nella Chiesa di San Pietro in Montorio, ma nel 1798 Roma venne occupata dai soldati francesi che si abbandonarono alle razzie e profanarono perfino le tombe, tra cui quella di Beatrice, dove un soldato si impossessò del vassoio d’argento, lanciando in aria il teschio della ragazza, così almeno raccontò il pittore Vincenzo Camuccini, che fu testimone oculare del fatto. Ma ormai anche quell’ultimo oltraggio non importa più, Beatrice nelle sue passeggiate notturne tiene la testa stretta sotto il braccio e quando arrivano le prime luci dell’alba svanisce nell’aria. Probabilmente

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