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La figlia della lupa
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E-book300 pagine4 ore

La figlia della lupa

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Info su questo ebook

Due epoche differenti, ruoli femminili che cambiano, evolvono ma trovano sempre ostacoli e difficoltà nel proprio cammino. Due donne che si incontreranno negli occhi altrui, quegli occhi che entrambe hanno incrociato in momenti differenti della loro vita e che forse non rivedranno mai più. Ogni azione di una donna è costantemente messa a giudizio. Si valuta il loro matrimonio o la loro scelta di restare sole, la loro bellezza e il loro carattere, la loro forza o le loro fragilità…

In un’Italia spaccata a metà, tra dopoguerra e giorni nostri, tra centro e periferia, con La figlia della lupa, Barbara Aversa compie il suo esordio letterario con un thriller delicato e potente, in cui sono le donne e la loro femminilità a essere le protagoniste. Donne forti, donne dolci, donne aggraziate, donne avide, donne generose, madri, figlie sorelle e amiche: La figlia della lupa è un intreccio di storie di donne e nell’intreccio con altre vite ritroveranno sé stesse e la propria strada.

Una sola è La figlia della lupa, ma in fondo lo siamo tutte.
LinguaItaliano
EditoreD Editore
Data di uscita24 feb 2022
ISBN9791221303476
La figlia della lupa

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    Anteprima del libro

    La figlia della lupa - Barbara Aversa

    Eva

    19 maggio 2018

    Inizio seriamente a domandarmi quando tutto sia diventato così complesso. I primi appuntamenti da aperitivo e cinema sono forse passati di moda? Inutile che mi creo illusioni, non avrei mai proposto una cosa simile. Vedo solo formichine smaniose che bruciano il terreno aspro e immagino questi insetti irrequieti formare una crosta ovattata e brulicante dalla quale restare inghiottita, senza via di fuga, senza aria.

    È quasi estate eppure un brivido mi attraversa la pelle. Aggiorno Martina che tutto procede bene. Non siamo molto legate ma non mi giudica mai. Poi mando un whatsapp a Luen, dicendole che è tutto ok. Mi dispiace che lei sia spesso concentrata sugli aspetti materiali delle cose. Siamo diverse. Però devo riconoscere che abbiamo sviluppato un dialogo eccezionale, probabilmente dovremmo affidarci di più l'una all'altra. Ci sono momenti tra noi in cui davvero credo che sia mia sorella. Certo, lei ora ha questo marito ricco e importante e quando usciamo mi sento inadeguata, lei con le sue pochette Michael Kors e il suo cappotto Armani color cammello e io con le converse. Forse mi vorrebbe più simile a lei. Mi vorrebbe sicuramente sposata a qualche ingegnere o avvocato, ma non mi ci vedo ad avere dentro casa uno staff di architetti che decidono quali disposizioni cromatiche siano migliori per me. Ho sempre vissuto una vita molto semplice. Mia madre, fino a quando è stata in vita, mi ha spronata a evitare ogni tipo di spreco. Mio padre è stato una chimera.

    Un giorno, da adolescente, ho chiesto a Patrizia per quale motivo lui non mi potesse amare. Lei mi ha risposto che aveva un limite troppo grande per amarmi.

    «Quale limite?»

    «Se stesso».

    «Non è un limite così assurdo, potrebbe essere superabile».

    «Mia cara, è il limite più profondo che un essere umano possa mai mettere all'amore».

    Luen, nonostante ciò che vuole far credere, è una persona empatica. Quando la mia cagnolina è stata sterilizzata, vivevamo ancora in paese, lei non faceva che deriderla dicendo adesso con quel taglio sulla pancia stai tranquilla che non c'è proprio alcun pericolo, brutta come sei. E la derideva, brutta come sei brutta, accovacciandosi accanto a lei che a malapena riusciva a muovere la coda in segno di riconoscenza. Ma alzandosi e sistemandosi la borsetta l'ho vista, tentava disperatamente di celare le lacrime dal suo ovale perfetto.

    È meglio di quello che sembra e questo a tratti mi innervosisce. Tutti sperano sempre di fare bella figura mentre lei fa del suo meglio per dimostrare di essere peggio di ciò che è. E nonostante tutto è la mia anima gemella perché lei e io siamo un incastro magico. Penso che non gliel'ho mai detto. Perché non gliel'ho mai detto?

    Mi guardo intorno e vedo solo un groviglio oscuro, come se le formichine si fossero trasformate in uno sciame rumoroso e sinistro. Mi appare inarrestabile e ho il primo accenno di oppressione alla gola, che punge, facendo attrito con l'aria opaca. Sudore, marijuana e fango mi pizzicano le narici. Decido di allontanarmi il più possibile dalla folla perché sta diventando tutto così asfissiante e sento l'urgenza di riempirmi i polmoni di ossigeno. Il bosco è grande e in lontananza riesco a scorgere dei sentieri con una boscaglia più fitta.

    Iniziano a cambiare gli odori, sembra di essere in un altro paese, forse in un altro mondo. Ho sempre amato i luoghi nordici, con le loro storie incantate e i folletti nei boschi. Ora, ciuffi di erba secca e piccoli arbusti si palesano ai miei occhi. Il silenzio si avvicina e penso di avere ancora un po' di tempo prima del mio appuntamento. Ciò che mi attrae tanto dell'attesa è la melodia implicita in quella sospensione, colma di desideri che scorrono sotto la pelle, tra labbra socchiuse e lacci che non stringono. C'è una morbidezza nell'attesa che mi fa pensare alle Highlands scozzesi, con i loro picchi e ripidità ma anche con silenzi pregnanti, come sedersi sull'orlo di un precipizio per osservare le curve drastiche e scoscese. Uno sguardo su una natura pendente ma priva di pericoli. Mi piace aspettare. Ho atteso così tanto questo incontro.

    I miei passi germogliano lenti sull'erba arida mentre mi guardo intorno. Alzo gli occhi al cielo e ora i fusti intorno a me sono ravvicinati e non so perché mi viene in mente la scena di Biancaneve che fugge nel bosco. Forse perché ho sentito un leggero crepitio alle mie spalle e mi è tornata in mente quella scena in cui l'eroina Disney scappa disperata mentre gli alberi prendono vita e lei finisce a terra piena di fango. Quando vidi quel film rimasi spaventata per giorni ma non lo avrei mai detto alla mamma perché avevo insistito troppo per andare al cinema e dalle sue labbra serrate, senza bisogno di parole, avrei capito che lo riteneva uno spreco.

    Per lei tutto è stato sempre diviso tra ciò che era necessario e ciò che non lo era. Anche l'Università per lei non era indispensabile perché avrei potuto imparare il suo mestiere, che sapeva di pulito e femminile. La vedo lavorare davanti alla finestra, finché la luce lo permetteva, con i capelli scuri, folti, morbidamente raccolti in uno chignon decorato da piccole ciocche ribelli. Il naso perfetto ma non piccolo, direi proporzionato alla sua figura imponente. Sorrideva quando si parlava dei suoi lineamenti, che riteneva un'opera d'arte, e ribadiva che il naso alla francese era per le donne senza carattere. E lei altroché se lo aveva, il carattere. Lasciamo i lineamenti minuscoli alle donne minuscole. Da piccola non capivo bene questi discorsi, so solo che non ho preso il naso né altro da lei. Mi diceva sei tutta tuo padre, e non ho mai creduto fosse un complimento. Era una constatazione, più che altro.

    Il fascino di mia madre era inarrivabile. Eppure non ha mai davvero voluto un uomo accanto a se, era la classica splendida donna che sapeva bastarsi da sola, o almeno questo è ciò che ho sempre pensato. Con mio padre c'è stato un legame durato qualche anno ma lo ricordo poco perché ero piccola. Con il trascorrere del tempo la sua presenza si è assottigliata fino a sparire, per poi tornare all'improvviso dopo la morte di mia madre con strane richieste che inizialmente tentavo di esaudire e poi ho capito. Ho capito che a lui non interessava né di me, né della mamma. A lui non interessava di nessuno.

    Continuo a camminare su un letto di foglie croccanti e bruciacchiate dal sole. Attraverso un piccolo sentiero scosceso e sento il respiro calmarsi. Tutta quella folla mi atterriva e ora riesco a respirare più profondamente. C'è silenzio, le luci diventano sempre più attutite mentre i miei passi si velocizzano. Sento l'afa smorzarsi e nel contempo il coro dei grilli, inizialmente fioco e ovattato, inizia ad assumere forza. Il frinire delle cicale completa l'atmosfera in cui sono immersa e mi sento più leggera. Il respiro è ritmato, segue i miei passi. È tutto più melodico, adesso.

    Noto alcuni alberi con dei fori sul tronco e immagino il lavoro ritmico e incessante dei picchi. Fanno i loro confortevoli nidi in poco tempo e noi a volte non riusciamo in una vita intera a trovare qualcosa che sia per noi davvero accogliente, scavato su misura per noi.

    Penso a mio padre che nonostante tutto non è mai riuscito a costruirsi il suo rifugio e mi chiedo se io sono poi così diversa da lui.

    Ho sempre avuto relazioni aleatorie e ora credo che questo possa essere diverso, ma perché mi avvinghio a questi pensieri? Perché le nostre chat sono immerse delle note di Claude Debussy e sembra davvero di essere in un film? Perché lui mi racconta di come passerebbe i weekend se stessimo insieme e di come immagina la sua vita insieme a me? Vorrebbe vivere all’interno di un faro, io andrei da lui e sarebbe così intenso e abissale da essere indescrivibile.

    Abbiamo iniziato a sentirci su facebook sei mesi fa. Mi piace da morire. Vive a Milano e questa situazione mi stuzzica non poco. Lo immagino mentre va al lavoro, incontra i clienti, parla, li conquista. La mattina apro gli occhi e osservo voracemente lo schermo del mio smartphone per vedere se mi ha scritto, e cosa. E sì, lui scrive. Sempre.

    A volte mi sento come se avessimo una storia vera. Sono talmente infatuata che la notte stento ad addormentarmi e mi sveglio alle tre del mattino sperando che il tempo scorra velocemente per poter parlare ancora con lui. Ancora, e ancora. È un'eccitazione che investe la mia mente piena di lui. È come se mi avesse riempita, come se avesse insinuato una parte di se stesso in ogni singolo vuoto presente in me. È pura poesia, lo siamo entrambi. Un incantesimo al quale è impossibile sottrarmi. Lo abbiamo creato noi.

    Forse siamo a pezzi, come a volte dico per sdrammatizzare, ma lui risponde che ci incastriamo bene. È come se il mio sentirmi persa avesse finalmente trovato un senso. Quel riconoscersi così radicato e repentino che accende i sensi e divampa morbido e liquido, cristallizzando secondi, momenti, ore intere. Le viscere si attanagliano, si accartocciano come immagino facciano le sue mani sul mio corpo chiaro e caldo. Niente a che vedere con il piattume dei social, con le parole immaginate, con la pornografia graffiante ma arida. E continuo a pensare al desiderio spasmodico con il quale mi sveglio ogni giorno e che non riesco ad addomesticare. Le nostre parole che mi hanno investita, dapprima sussurrate e incerte e poi sempre più disinvolte. Come se nessuna parte di me fosse svincolata o disgiunta da lui, come se lui fosse me.

    Adoro durante la pausa pranzo parlare con lui del nostro futuro eppure, se rifletto, mi rendo conto che è così precario. So che siamo distanti ma io potrei chiedere il trasferimento. Non mi dispiacerebbe vivere a Milano. Ricomincerei da capo, in una scuola nuova, con nuovi colleghi. L’istituto dove insegno adesso non mi soddisfa, sento che il mio potenziale è intrappolato in una gabbia che potrebbe restare chiusa per sempre. Avevo un’idea dell’insegnamento che non si è rivelata affatto corretta. In realtà fare la professoressa non ha nulla a che fare con la creatività. È un lavoro pieno di incombenze e scadenze, il sostegno è visto quasi sempre come un docente di serie B nonostante la specializzazione aggiuntiva, e la passione è facile che venga martoriata da un quotidiano sempre più pressante.

    Un senso di amaro mi sale in gola e sento che l’attacco di panico incombe ma non posso dargli spazio. Devo combattere contro questo mostro. Sono fragile e imperfetta, ma vorrei veramente che questa storia andasse bene, che per una volta tutto si aggiustasse. Innamorarmi di lui è stato, come dicono gli inglesi, cadere in amore. Più che le farfalle nello stomaco io ho dei veri e propri sciami, ali ritmiche e sconnesse che battono il tempo nelle mie viscere. Non l’ho mai visto, eppure sento che è la persona che più mi somiglia, che più mi riflette in questo mondo arido. Le mie dicotomie, le mie ossessioni così radicate in me, per la prima volta non sembrano essere un problema. È come se per tutta la vita fossi stata una funambola delle emozioni e ora queste avessero trovato una corda più robusta per essere sostenute. E la mia imperfezione, che mi faceva sentire così difettosa, è diventata caratterizzante. Lui ride di noi, ci considera degli outsiders, e tutto assurge a perfezione.

    La distanza dalla folla mi sta aiutando a gestire l’emozione di essere qui per incontrare lui. Un altro crepitio e mi rendo conto che mi sono parecchio allontanata dalla strada principale e ora sono sperduta nella boscaglia. Mi chiedo come tornare indietro. Cerco il cellulare nella borsa per capire dove mi trovo ma non c’è campo. Per un istante sudo freddo ma è una cosa passeggera, sicuramente il caldo precedente, l’ansia e l’improvviso fresco mi spingono in uno stato emotivo che potrei definire alterato. Spengo e riaccendo il telefono, provo a fare un numero a caso sperando che il cellulare riprenda campo eppure niente, vedo solo l’antenna che lampeggia. Lo ripongo nella borsa e non mi preoccupo più di tanto perché credo che facendo il percorso a ritroso mi ritroverò dov'ero.

    Di nuovo uno scricchiolio. Un suono sommesso, tra i tanti in questo angolo del bosco.

    Nulla di allarmante.

    Respira.

    Tra poco lo vedrai.

    Saprai che nulla è stato vano.

    Inspira, non voltarti, procedi, sperando di incontrare un sentiero che velocemente ti riporti dov'eri.

    Uno, due, tre.

    Espira velocemente dalla bocca.

    Uno, due, tre.

    Non permetterò alle mie angosce di farsi strada nei miei pensieri. L’ansia è stata sempre la mia peggior nemica quindi continuo a respirare profondamente sperando di imboccare il sentiero giusto.

    Uno, due, tre.

    Il cielo è diventato plumbeo e le fronde degli alberi sono volti deformi e predatori immersi nelle tenebre e folate di gelo si alternano a un caldo appiccicoso. Inciampo senza rendermene conto o forse c'è stato un tonfo ma l'inquietudine mi impedisce di ragionare lucidamente. Ho un ginocchio sbucciato e d'istinto mi accartoccio su me stessa per leccarmi la ferita, succhiandola come facevo da bambina. I miei sensi si acuiscono e intravedo una casetta in fondo e penso che potrei arrivarci, andando molto lentamente, visto che il ginocchio è sbucciato e la caviglia inizia a farmi parecchio male. Mi vengono in mente pensieri strani. Per esempio che non ho cambiato la lampadina della luce in cucina. È buio. Non sono passata da mamma al cimitero e chi ci potrà passare adesso? Non ho detto a Luen che sarei venuta fino a qui pensando che non approvasse questo incontro d'amore. Da quando è sposata la vedo sotto un'altra luce, ma se fosse colpa mia? Non le ho mai detto che a volte è colpa mia, che so che lei fa ciò che può e che io la amo infinitamente per questo. Ah, e non andrò più a trovare zia Caterina al paese. E ho comprato quel nuovo CD online da ascoltare mentre preparo le lezioni ma non l'ho ancora aperto.

    Mi manca il fiato, il dolore è così massacrante che non riesco a gridare. Qualcosa mi ha colpito. Forse un uccello mi ha aggredito, magari un cinghiale, un orso, non so quali animali possono esserci in questa boscaglia. È indescrivibile quanto possa essere profonda questa sofferenza, attanaglia dall'interno, mi attraversa tutta l'epidermide come una scarica elettrica e va oltre tutto, oltre me.

    Sento delle scosse e inizio a non muovermi più molto bene. Non mi sento coordinata, mi percepisco come se fossi evanescente. È come vedermi dall'alto, mi sento come quando da piccola mi addormentavo e risvegliandomi nel cuore della notte vedevo dei gatti. Serpeggiavano intorno a me e io restavo con gli occhi fissi a guardarli, ero terrorizzata e affascinata da queste presenze sibilline. Erano grigi con striature più chiare e io cercavo di non muovere neanche un muscolo per non infastidirli. Quando ne parlai con la mamma mi disse che erano solo sogni ma ho continuato a vederli per molto tempo. Ora provo a fare lo stesso, vorrei diventare invisibile, forse lo sono.

    Sento un alito di vento che soffia. Sento le foglie che a intermittenza gracchiano. Sento l'odore del bosco, delle cose perdute, di quelle cercate nei luoghi sbagliati e poi inaspettatamente ritrovate, sempre dove non dovevano essere.

    Striscio per quel poco che posso. Io credo di strisciare, ma forse sono immobile. Stanotte morirò. Inizio a pensarlo. Non è un pensiero così terrorizzante ma forse perché ne ho altri che premono la mia mente e vogliono uscire. Morirò e nessun alunno verrà al mio funerale. Ma chi pagherà il mio funerale? Le riflessioni iniziano a essere sconnesse.

    La natura mi si sta rivoltando contro, io l'ho sfidata correndo tra i suoi boschi. Sulla mia mano sinistra arrivano flemmatici dei rivoli di sangue. Penso scendano dalla schiena. Sono gocce lente e ipnotiche, le osservo. Il mio respiro diventa veloce ma flebile e provo ancora a muovermi ma stramazzo a terra perché all'improvviso mi sento tanto stanca. Vorrei chiudere gli occhi un attimo e poi ripartire. Sicuramente non è una grande ferita, mi avrà beccata un uccello.

    Mi appoggio con il mento alla mano sporca di sangue e tutto il mio corpo sembra pesantissimo. Devo solo riprendere fiato, riposare. Il respiro diventa sibilante e i pensieri scorrono, non riesco ad afferrarli. Mi ci vorrei aggrappare. Sento dei rami spezzarsi dietro di me, è un orso credo. Io ho sempre amato gli animali.

    Questa cosa mi colpisce di nuovo e non riesco più a respirare. Annaspo e sento che sarà difficile riprendere il controllo del mio fiato. Vedo mia madre che mi sorride mentre lavora alla luce brillante della finestra. Un suono sordo e gutturale mi sale dallo stomaco ma esce come un rantolo. Quello che credevo un urlo intenso e profondo è solo una sommessa agonia.

    Un altro colpo. Forse devo continuare a contare, forse sarò risparmiata. Forse no. Mi chiedo perché le mie relazioni sono sempre state così aleatorie, al punto che magari neanche si accorgeranno dove sono. E penso a tutti quei ragazzi che, a così poca distanza, si stanno godendo il concerto. Penso alle loro vite così ricche di musica.

    E la sento, la musica, è lenta, melodiosa, una litania.

    Avrei dovuto andare a più concerti. Avrei dovuto aprire quel CD e ascoltarlo con un bicchiere di vino bianco solo per il piacere di farlo. Avrei dovuto cantare più canzoni con tutta la voce che avevo nel petto, e ballare di più. Ma si sa, nulla è più potente di ciò che non è mai stato.

    Giuditta

    13 maggio 1949

    Ho smesso di andare a scuola da più di un anno, tanto non serviva. Piuttosto serve aiuto dentro casa con le mie sorelline, e anche alla signora Maria devo dare una mano. A scuola, in prima, avevo un maestro molto severo ma diceva che ero dotata di una meravigliosa calligrafia. Così diceva. Ho imparato subito a scrivere e quando dovevamo scrivere i nomi degli altri compagni lo faceva fare a me. Scriverà Giuditta, che scrive meglio . Allora Antonia mi guardava e mi faceva delle smorfie. Ma era bravissima perché riusciva a non farsi vedere da nessuno, tranne che da me. Comunque non mi importava perché avevo sempre un nastro più bello del suo. Era grande e la stoffa era lucida, e tanta. Così dopo aver scritto me ne tornavo al banco, mi pulivo senza dare nell'occhio le mani sul grembiule e la guardavo. Non le dicevo niente. Non le ho mai detto niente.

    Ieri sono stata a servizio dalla signora Maria. Lei ha molti bambini a cui badare e io la aiuto da quasi un anno. Se riesco a farli dormire tutti posso fare i miei lavori. Una volta mi ha sorpresa mentre facevo un modello di carta per la mia bambola. Ha visto che mi sono spaventata, si è avvicinata e mi ha chiesto se poteva dare un'occhiata a ciò che stavo facendo.

    Continuavo a nasconderlo tra le mani e non ero sicura di volerlo mostrare a qualcuno. Dolcemente si è avvicinata e ha disgiunto le mie mani, osservandolo. «Brava! Così piccola hai fatto un lavoro così accurato?» Non le rispondevo. «Lo hai fatto tu?» Io le ho detto che sì, l’avevo fatto io mentre i bambini dormivano. Mi ha sorriso, ed era un sorriso stanco, tirato, ma sorpreso. «Tu diventerai una grande sarta». Io piuttosto volevo vestire Marilù, che è stata la mia prima bambola. Ho sempre voluto vestirla da principessa. Non da sposa perché non mi piace come diventano le spose. Diventano grasse. Io non voglio essere grassa. Mentre continuavo il mio lavoro, la signora Maria si affaccia e dalla sua sedia di vimini attende Suor Giovanna, che passava continuamente davanti casa sua. La vede da lontano e le fa segno di avvicinarsi.

    Suor Giovanna mi ha tenuta quando ero piccola, la ricordo poco, forse perché mi ha sempre messo un po' paura. Ma mi guardava gratis e mamma dice sempre che è la più buona al mondo. Che non sono tutte buone, ma lei sì. Mamma aveva otto figli, uno è morto piccolo, di una malattia di bambini. Non poteva badare a tutti.

    «Sorella, ma non potrebbe insegnare a Giuditta a ricamare? So che ha una scuola, e che funziona molto bene. Tra l’altro, eviterebbe di stare per la strada quando non mi dà una mano a casa».

    La suora mi osserva, è titubante. «La ragazzina ha talento? Il ricamo è un lavoro di precisione e bisogna avere occhi buoni». «Sì», le risponde la Signora «la ragazzina ha talento». Così Suor Giovanna ogni tanto mi faceva andare da lei. Aveva la macchina per cucire e con un paio di volte già la sapevo usare. È stato meraviglioso velocizzare così tanto il mio lavoro, anche se io avevo imparato a fare già tutto da sola.

    Il sabato davanti casa c'era il mercato. Mia sorella più grande, Linda, una volta mi ha donato una moneta per la merenda e io invece sono riuscita a comprare il bambolotto più bello che potesse esistere. Era paffuto, con un nasino delizioso, capelli scuri e folti, ma era nudo e anche sporco.

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