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Morte a San Siro: Milano, il mistero di villa Pozzi
Morte a San Siro: Milano, il mistero di villa Pozzi
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E-book316 pagine4 ore

Morte a San Siro: Milano, il mistero di villa Pozzi

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Info su questo ebook

«In zona San Siro a Milano una macabra scoperta ha funestato questa mattina il lavoro di Khalid Buhar, macchinista dell’impresa edile Milano Costruzioni, mentre si accingeva a spianare il terreno a ridosso di una vecchia villa, abbattuta per far posto a un nuovo ipermercato di proprietà del magnate svizzero Karl Heimer. Stava operando con la scavatrice quando, dalle macerie, sono improvvisamente venuti alla luce alcuni resti umani». Guido Barbieri, professore di storia in pensione, non ha dubbi: si tratta di Angela Pozzi, scomparsa a 17 anni nel lontano 1965. Una ragazza della quale lui, diciottenne, era follemente innamorato. Ma sembra che la morte di Angela Pozzi interessi solo a lui e di riflesso alla figlia Laura, giornalista di un’emittente televisiva. La magistratura ha infatti gatte da pelare molto più urgenti e pressanti. Sarà però un nuovo inaspettato delitto a richiedere l’intervento deciso di Daniele Ferrazza, un commissario di polizia giudiziaria che nutre per Laura un interesse non soltanto professionale. Il commissario si troverà ad affrontare un caso oscillante tra passato e presente, all’apparenza indecifrabile. Tanto indecifrabile da sfuggire ai canoni classici dei fatti di sangue. La vera protagonista del romanzo è come sempre Milano, con la trasformazione che ha subito, dagli anni Sessanta ad oggi, da città industriale a città di servizi multietnica, dove sono scomparse le latterie, i trani, il fumo delle ciminiere e lo smog delle caldaie a carbone, lasciando il posto ad asettici uffici, al proliferare dei media, al trionfo del digitale. Una mutazione nella quale si specchia il rapporto non facile tra un padre cresciuto sull’onda ideologica di un Novecento che non c’è più e una figlia pragmatica e interamente dedita alla carriera professionale, e nella quale la presenza ingombrante dei media nei casi giudiziari diventa la normalità. “Oggi i processi si fanno in televisione”, commenta uno dei personaggi. Una realtà del nostro tempo che qui trova l’ennesima conferma.
LinguaItaliano
Data di uscita15 gen 2017
ISBN9788869431807

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    Anteprima del libro

    Morte a San Siro - ALESSANDRO BASTASI

    1

    Milano, 2015

    Khalid si asciugò la fronte con il fazzoletto di cotone a righe larghe verdi e rosse ed emise un sospiro.

    Il lavoro era quasi finito. La vecchia villa dei Pozzi era stata abbattuta e le ruspe stavano eliminando le ultime macerie. Tre camion facevano la spola tra il cantiere e la discarica, partivano carichi e tornavano vuoti, pronti ad accogliere altri mattoni, altri calcinacci, altri frammenti di quel cemento armato che fino al giorno prima era stato il nerbo dei pilastri della villa. Mancava solamente di spianare l’ampio terreno che si estendeva sul retro, quello che un tempo era stato il vanto dell’anima contadina di Antonio Pozzi.

    «Guarda, Tosca, qui dietro ci facciamo l’orto. Lattuga, pomodori, fagiolini, zucchine, cavolfiori, e là in fondo un boschetto di alberi da frutto. Ti piace? In mezzo il prato, così Angela e Pierluigi hanno tutto lo spazio che vogliono per muoversi, prendere il sole, organizzare feste…».

    Quella porzione di terra adesso doveva diventare perfettamente pianeggiante, avrebbe ospitato il parcheggio dell’ipermercato che di lì a sei mesi sarebbe sorto al posto della villa. Il progetto aveva suscitato le proteste degli ambientalisti e svariate accuse di corruzione per ottenere i permessi, ma l’attuale proprietario, uno svizzero di nome Karl Heimer, se ne strafotteva. Aveva acquistato una vecchia villa da Pierluigi Pozzi, l’aveva pagata e ora poteva farne quello che voleva.

    Di tutto ciò Khalid non sapeva nulla, né gli sarebbe importato qualcosa. Era lì per fare il suo lavoro e l’attenzione era rivolta solo alle leve e ai pulsanti da azionare. La ruspa avanzava lenta sui cingolati, la benna raccoglieva la terra eccedente e la scaricava sul cassone del camion che stazionava lì di fianco. In mezzo al terriccio si contorcevano le radici residue degli alberi abbattuti, spuntavano pezzi di latta di vecchi giocattoli dimenticati e abbandonati, il volante di un’auto a pedali per bambini.

    «Papà, mamma, nonno, guardate, che bravo che sono a guidare!».

    «Bravo Luciano, ti manca solo la patente».

    «Cos’è l’appatente?».

    «Una roba da grandi. Dai, Luciano, è tardi, saluta i nonni, dobbiamo andare a casa».

    La benna sollevò qualcosa che somigliava alla testa liscia e bianca di una grande bambola e a Khalid si strinse il cuore. Andò con la mente ai bambini che tanto tempo prima avevano giocato all’ombra di quegli alberi, lui in Marocco aveva tre figli, vivevano con la mamma e i nonni, due bambine e un bambino che non vedeva da due anni. Alle bambine una bambola come quella sarebbe piaciuta molto.

    «Uffa, papà, perché dobbiamo già andar via, si sta così bene qui dai nonni!».

    «Pierluigi, dov’è Roberto?»

    «Dev’essere sul retro, nel frutteto».

    «Lo sai che non voglio che vada là in fondo…».

    «Va bene, Annarita, va bene, non ti scaldare, lo vado a prendere. Roberto! Dove sei? È ora di andare. Roberto!».

    Poi Khalid sollevò qualcos’altro. Sembravano stecchi, pezzi di ramo.

    Di colpo gli si ghiacciò il sangue.

    Arti umani.

    Frammenti di costole, vertebre, le ossa iliache. E la testa dalle orbite nere piene di terra che lo stava fissando non era quella di una bambola.

    Era un cranio umano. Scarnificato.

    L’uomo si bloccò, la bocca spalancata, i battiti del cuore che si accavallavano impazziti.

    Fermò la macchina, balzò a terra, corse dall’autista il quale, barba lunga e cespo di capelli grigi in testa, se ne stava a fumare una sigaretta appoggiato alla portiera del camion.

    «Cos’è che hai, Africa, hai visto il demonio?», lo canzonò l’uomo.

    Si accorse subito che qualcosa di grave doveva essere successo, perché Khalid tentava di proferire parola senza riuscirci, agitando le braccia verso la benna.

    L’autista buttò la sigaretta e gli si fece incontro. Guardò nella direzione che Khalid gli stava indicando e anche lui impallidì.

    «Madonna santa!», disse.

    Il sostituto procuratore Giancarlo Conte era già sul posto quando arrivò la macchina del commissario Daniele Ferrazza. Ne scesero lui e il suo collaboratore, l’ispettore Adelmo Ceolin. I tecnici della polizia Scientifica erano già al lavoro, a recuperare le ossa, a pulirle e a catalogarle.

    «Buongiorno commissario», lo salutò Conte andandogli incontro.

    «Buongiorno giudice».

    «Ferrazza, mi deve scusare se ho chiesto di lei per questa rogna, ma il terreno e la villa erano proprietà dell’architetto Pozzi, sulle attività del quale lei sta indagando da mesi, quindi mi è sembrato…».

    «Da anni vorrà dire, dottore», disse Ferrazza, «da anni… Qui di che si tratta? M’ha detto che hanno trovato un cadavere».

    «Più che un cadavere, un mucchio d’ossa. Stavano facendo degli scavi quando hanno trovato un cranio, le ossa di un bacino, insomma, quasi un intero scheletro… Roba di tanti anni fa, comunque. Sembra che il corpo sia stato gettato in una fossa dove i muratori mettevano la calce viva».

    «Cioè? Cosa significa?»

    «Si vede che lei è giovane, dottore…», intervenne l’ispettore Ceolin. «Io lo so cos’è, mio padre faceva il muratore, su nel bellunese, e ogni tanto quand’ero piccolo mi portava nei cantieri. La fossa serviva per fare la cosiddetta malta di calce aerea. Ci mettevano la calce viva, che poi sarebbe l’ossido di calcio, quindi la innaffiavano con l’acqua, e una reazione chimica che non so spiegarle produceva fumo e un gran calore. Mi ricordo che gli uomini dovevano rimestare continuamente con le vanghe, ed era molto pericoloso, sa, anche respirare quei fumi era pericoloso, allora mica si usavano i guanti o le mascherine. Alla fine il composto si raffreddava e si trasformava in una specie di pasta che poi univano con la sabbia per fare la malta… Metodi antichi, dottore, che adesso non si usano più, troppo lunghi, troppa fatica… Di che epoca era la villa?».

    «Anni Sessanta, mi hanno detto».

    «Ecco, appunto».

    «Grazie Ceolin», disse Ferrazza, «sei una miniera di informazioni. In poche parole, giudice, probabilmente il corpo è stato buttato nella fossa durante la fase di… Come l’ha chiamata? Di innaffiatura?»

    «Così sembra», confermò Conte. «Certo che è strano…».

    «Cosa, è strano?».

    «Dico, se il corpo è stato buttato nella fossa della calce, com’è possibile che nessuno si sia accorto di nulla? Cioè, avranno pure lavorato in quel cantiere, nei giorni successivi!».

    «Forse l’han fatto a lavori finiti… Non lo so, insomma, le possibilità sono tante».

    «Ciò però implicherebbe che l’autore del delitto fosse uno che bazzicava l’area del cantiere».

    «Probabile. O anche no, chi può dirlo?».

    «Comunque il caso è suo, Ferrazza».

    Il commissario volse lo sguardo in giro, quasi a cercare i colleghi di zona. Ma non ne vide nessuno.

    «Scusi dottore, perché non l’ha assegnato al commissariato di San Siro? Questa è zona di loro competenza, no? E quindi…»

    «Ferrazza, chi è sta già indagando su Pierluigi Pozzi e il suo compare per l’affare Macconago?».

    «Io, ma…».

    «E sul tentativo di corruzione che il Pozzi avrebbe messo in atto per non far concedere i permessi di costruzione dell’ipermercato? Proprio qui, dove abbiamo trovato lo scheletro?».

    «Sempre io… Ho capito. E nel pacchetto ci mettiamo pure questo. Grazie, eh, dottore…».

    A Conte sfuggì un sorriso.

    «Giudice, glielo dice lei però a Carmine Sammartini del commissariato di San Siro che io non c’entro in questa decisione.»

    «Tranquillo. È stato lui a chiamare in procura per avvisarci, aveva ricevuto una telefonata da un autista della ditta… Quello là che sta parlando con un agente, vede, quello con il giubbotto grigio. Dicevo di Sammartini… Gli ho detto di non venire, che il caso sarebbe stato assegnato a lei per i motivi che le ho spiegato. Inutile stargli addosso in due, al Pozzi».

    «E lui come l’ha presa?».

    «Mi pare bene, niente di che. Anzi mi ha quasi ringraziato: Un omicidio di cinquant’anni fa? E cosa indaghiamo a fare? Che se la sfanghi il padovano».

    «Che poi sarei io. Grazie, Carmine, di cuore!».

    «Comunque, detto tra noi, Ferrazza… In effetti non è che Sammartini abbia tutti i torti. È passato mezzo secolo, saranno tutti morti o quasi…».

    Ferrazza contrasse le labbra.

    «Tranne Pierluigi Pozzi», disse, lo sguardo rivolto verso un mare di macerie. I resti della villa che Antonio, il padre dell’architetto, aveva fatto costruire a gloria perenne di una vita di lavoro.

    2

    Giuseppe Stoppa rimase sulla porta dell’appartamento finché Guido Barbieri non raggiunse l’ascensore. Quindi rinnovò i saluti e si chiuse dentro con due mandate di chiave.

    Aspettare l’ascensore o scendere le scale a piedi?.

    Guido rimase per qualche istante come in trance, il pensiero della lesione al menisco che gli avevano diagnosticato alla Sant’Agostino gli ricordò che forse era meglio non sforzarsi troppo.

    «Lesione spontanea a causa della degenerazione della cartilagine e perdita dell’elasticità».

    «Dottore, è… Irreversibile?».

    «Be’, se non ci poniamo qualche rimedio, è sicuramente degenerativa. E alla fine dovremo operare».

    Gli aveva parlato di una particolare ginnastica da fare nel loro reparto ortopedico. Che però lui non aveva ancora cominciato.

    Anche se si trattava soltanto di due piani, optò per la soluzione ascensore. Ormai aveva sessantotto anni e quello era solo il primo degli acciacchi che l’avanzare dell’età gli avrebbe probabilmente regalato. Pensò all’agilità con la quale sfuggiva alle cariche della polizia negli anni giovanili, scosse la testa e pigiò il pulsante di chiamata.

    L’ascensore arrivò lento, Guido entrò e iniziò la discesa. Uno scatto, due scatti, arrivo. Un lieve sobbalzo e la porta si aprì con un soffio.

    L’uomo attraversò l’atrio e uscì, seguito dallo sguardo accigliato del portinaio ecuadoregno che aveva appena finito di lavare il pavimento. Si fermò qualche istante sul marciapiede, sollevando il viso verso l’alto, verso la fetta di cielo che filtrava attraverso il fogliame fitto degli alberi di viale Abruzzi. Una giornata tersa di fine ottobre. L’aria rarefatta gli accarezzava le guance procurandogli uno struggimento più acuto delle fitte al ginocchio. Forse perché rivelava l’inganno di un tempo bugiardo, che si imbellettava per nascondere l’arrivo di lì a poco del freddo e del buio dell’inverno.

    Il freddo. Il buio.

    Sensazioni che gli ballavano in testa da tempo, ormai. Da quando era andato in pensione e aveva dovuto abbandonare le aule del liceo nelle quali aveva insegnato storia e filosofia per quasi quattro decenni. Fino ad allora il passare degli anni non gli aveva lasciato troppi segni nell’animo. A dispetto dei solchi che si erano andati addensando profondi sulla pelle, si percepiva uguale a sempre. Adesso invece capiva che era solo apparenza. Adesso, in un presente totalmente estraneo al suo sempre, si vedeva invecchiato di colpo, intristito. La sua carriera di carta ridotta a un ferrovecchio arrugginito. Come parevano ferrivecchi arrugginiti gli strumenti del suo sapere, con i quali per tanto tempo si era baloccato a decifrare la realtà. La sua realtà, immobile come la terra al centro del sistema tolemaico. Quando il mondo, invece, aveva avviato da tempo la rivoluzione copernicana. Lui dava per assodata una cosa, e questa era già cambiata. La società liquida, aveva scritto qualcuno.

    In fondo era per questo che aveva deciso di intraprendere la sua nuova attività, una ricerca storica sulla Milano dal dopoguerra a oggi. Per scuotersi di dosso l’apatia che stava iniziando ad avvolgerlo come un sudario. Per combatterla ripercorrendo il filo del passato e tentare alla fine di ricongiungerlo al presente.

    E comunque era la sua materia, la storia, fin dai tempi dell’università. Sognava di diventare professore universitario e saggista di fama, poi la vita aveva preso tutt’altra piega. Adesso che poteva disporre di tutto il tempo che voleva, era il momento giusto per tornare agli antichi interessi. Per questo quel pomeriggio era andato a trovare Giuseppe Stoppa, un vecchio collega. Lo sapeva profondo conoscitore della storia sociale del Novecento, e infatti gli aveva dato spunti preziosi sui quali lavorare.

    Guido salì sulla 92 e rimase in piedi, quasi appeso al sostegno orizzontale che correva lungo il tettuccio del filobus. Nessuno si premurò di offrirgli un posto a sedere. Solo il silenzio dei volti fissi sugli smartphone, l’odore acre della pelle sudata di un gruppo di neri che rideva in una lingua sconosciuta, il grosso braccio tatuato di un sudamericano che cingeva le spalle di una donna dai seni prosperosi. Era soprattutto nei mezzi pubblici che poteva toccare con mano la trasformazione radicale che la città stava affrontando.

    Nel suo lavoro di ricerca era giunto agli anni Sessanta. Allo scopo si era pure procurato i dvd di alcuni film dell’epoca, a partire da Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, una pellicola che gli aveva offerto parecchi spunti di riflessione, come la censura assurda che aveva subìto all’epoca della sua uscita. Si stava appassionando, a quel periodo. Anni di grande rilevanza storica e sociale, il decennio che avrebbe visto lo sviluppo massiccio della classe operaia e la migrazione verso il Nord di masse di disperati dai territori del Sud Italia. Quelli che adesso stavano in prima fila nel voler ricacciare a casa loro gli stranieri provenienti da un Sud ancora più a sud del loro Sud.

    Scese dopo poche fermate. Da via Piccinni al condominio in cui abitava, in viale Gran Sasso, non c’era molta strada e ponendo attenzione a come muoveva la gamba in una decina di minuti arrivò al portone di casa. Quasi si scontrò con la signora Elvira che stava uscendo di fretta. Lui le cedette il passo, lei lo ringraziò.

    «Come va signora?».

    Un piumino sintetico rosso amaranto con il collo di pelo, di una taglia più piccolo, la stringeva dalle spalle fino a metà coscia. Poteva avere quarantacinque anni.

    «Sempre di corsa, professore. Devo andare all’Esselunga e sono già le cinque».

    «Be’, vorrà dire che suo marito stasera mangerà un po’ più tardi».

    «Eh, ha ragione, se saltasse qualche pasto sarebbe meglio, grasso com’è!».

    «E lei gli prepari una bistecchina con una foglia d’insalata».

    «Sì, bravo, così mi butta giù dal balcone. Piuttosto lei, professore, dovrebbe mangiare di più, è magro come una sardina. Mi scusi, eh, se mi permetto…».

    «È vero signora, ma, vede, non ho più molto appetito…».

    «Deve andare in giro di più, camminare, faccia movimento, e la fame le viene di sicuro, non fa mica bene stare sempre sui libri, sa…».

    «Forse ha ragione, grazie del consiglio, signora. Buona sera, e buona spesa».

    «Buona sera a lei. E mi saluti sua figlia Laura, mi raccomando. La guardo sempre in televisione, sa, anche ieri sera, proprio una bella donna, e brava, anche, complimenti».

    «Non mancherò, grazie».

    Guido salì al secondo piano, entrò in casa e accese la luce.

    L’unico essere che gli venne incontro fu il gatto. Il soriano grigio si stirò, sbadigliò, si avvicinò e si strusciò contro i suoi pantaloni. Lui gli sorrise, lo prese in braccio e sospirò.

    Anche se erano trascorsi quattro anni, ancora non si era abituato all’idea che sua moglie Clara non ci fosse più. Rapita da una cardiopatia ischemica che l’aveva uccisa.

    Si levò il soprabito e andò in quella che fino a una decina d’anni prima era stata la stanza di Laura e che adesso era diventata il suo studio. Posò la cartelletta degli appunti sul ripiano della scrivania e lavorò al computer fino alle diciannove. Poi tolse dal frigo un piattino di risotto ai funghi, il residuo del pasto di mezzogiorno, lo riscaldò nel forno a microonde, aprì una scatoletta di tonno, un ciuffo d’insalata già lavata e andò a mangiare seduto sul divano del soggiorno.

    Si guardò intorno.

    Libri ovunque, sugli scaffali delle Billy che riempivano le pareti, sul tavolino di fronte al divano, o accumulati in un angolo della stanza.

    Cenava con Clara in cucina e meditava sulle cose importanti. La fame nel mondo, il capitalismo finanziario, le nuove guerre, l’islam radicale… E si rabbuiava. Fuori il mondo cambiava pelle senza avvertirlo, e lui era costretto a dedicarsi a cose futili come apparecchiare la tavola e condire l’insalata. Mangiavano in silenzio, talvolta lei lo guardava, scuoteva la testa e volgeva lo sguardo verso la finestra, a spiare la coppia giovane che intravvedeva nell’appartamento di fronte alla luce di una lampada a stelo. Ridevano, lei si fiondava tra le braccia di lui ed entrambi cadevano a nascondersi nel fondo di una poltrona dai braccioli alti. Clara si asciugava una lacrima e tornava a fissare il marito. Accennava alla tinta alle pareti che aveva bisogno di una rinfrescata, proponeva una passeggiata per un gelato, gli ricordava della mostra di Frida Kahlo che non avevano ancora visto, lo informava che c’era la luna buona e domenica lui avrebbe potuto imbottigliare il vino. Guido annuiva, diceva che l’avrebbe fatto, che avrebbe fatto tutto quello che desiderava, anche se poi se ne dimenticava.

    Finito di mangiare, Guido afferrò il telecomando e accese la tv per il tg3 regionale delle sette e mezza. Dopo un quarto d’ora di politica locale le notizie di cronaca.

    «In zona San Siro a Milano, alla fine di via degli Odescalchi verso viale Caprilli, una macabra scoperta ha funestato questa mattina il lavoro di Khalid Buhar, macchinista dell’impresa edile Milano Costruzioni, mentre si accingeva a spianare il terreno a ridosso di una vecchia villa, abbattuta per far posto a un nuovo ipermercato di proprietà del magnate svizzero Karl Heimer. Stava operando con la scavatrice quando, dalle macerie, sono improvvisamente venuti alla luce alcuni resti umani».

    Seguiva l’intervista a Khalid Buhar, che raccontava i particolari del ritrovamento. Poi la conclusione del breve servizio.

    «La villa era stata costruita nel 1965 dal padre di Pierluigi Pozzi, il noto architetto milanese, che ha confermato di aver venduto due anni fa la villa a Karl Heimer. In un comunicato ha espresso il suo sconcerto per la vicenda e ha dichiarato di non avere alcuna informazione in grado di far luce né sull’identità dei resti rinvenuti né sulla dinamica dei fatti. Secondo il dottor Ferdinando Pastori della polizia scientifica la presenza di tracce di calce fa pensare in prima ipotesi che il corpo sia stato gettato in una delle fosse che un tempo si scavavano nei cantieri per ottenere la calcina, un materiale da costruzione ormai in disuso».

    Guido già non ascoltava più, fissava lo schermo, gli occhi spalancati.

    1965…

    Aveva diciott’anni. Frequentava la terza liceo classico, al Beccaria. E quella era la villa dei Pozzi.

    Angela…

    Angela, la sorella di quel Pierluigi nominato nel servizio. La ragazza che proprio quell’anno lui aveva conosciuto in occasione del concerto dei Beatles al Vigorelli. Cos’era, giugno… Sì, il ventiquattro giugno, come dimenticarlo.

    Gli mancò per un attimo il fiato. Tornò con la mente alla cotta che l’aveva letteralmente steso. Un amore da perderci la testa, un amore non corrisposto che lo costringeva ad annegare lo strazio nel vino del trani vicino a casa sua. Un periodo intenso, breve, durato pochi mesi. Perché in autunno Angela era scomparsa e nessuno ne aveva saputo più nulla.

    Alle venti, finito il tg3, Guido Barbieri prese il cellulare e cliccò su Laura.

    «Laura, ciao, posso parlarti? È un buon momento?».

    «Sto lavorando… Ma dimmi papà, cosa è successo?».

    Laura diventava sempre apprensiva quando vedeva comparire il suo nome sullo schermo dell’iPhone. Sapeva che soffriva di qualche acciacco, quello al ginocchio era il più visibile, ma non era il solo. Anche se lui ogni volta le ricordava che stava benissimo, che aveva un sacco da fare, che non aveva bisogno di nessuno.

    «Nulla, sta’ tranquilla, non è successo nulla», la tranquillizzò il padre. «Solo che… Ho sentito poco fa al tg3 del ritrovamento di quelle ossa… Di uno scheletro nel terreno di una vecchia villa».

    «Sì, sto montando anch’io il pezzo, qui in redazione».

    «Ecco, mi è venuta in mente una storia che forse ti può interessare. Ha a che fare con… Con un concerto dei Beatles».

    «I Beatles?».

    «Sì, proprio loro».

    Attimi di perplessità. Una ruga sulla fronte, una mano a scostare la ciocca di capelli biondi dalla fronte. Poi Laura disse:

    «Dai, passa da me più tardi, alle dieci sono a casa».

    3

    Era una bella villa. A ridosso dello stadio di San Siro, in via degli Odescalchi.

    L’aveva fatta costruire tra il 1964 e il 1965 Antonio Pozzi, un ex operaio che a metà degli anni Cinquanta si era stancato di stare sotto padrone e aveva creato la sua officina di lavorazioni meccaniche e di carpenteria. D’altronde quelli erano gli anni dell’espansione, Milano era un cantiere a cielo aperto. I lavori per la metropolitana scavavano crateri in ogni zona della città. Il frastuono delle macchine, delle scavatrici, i motori dei camion, il fumo dei gas di scarico. Nel ’55 fu eretto il grattacielo di piazza della Repubblica, nel ’58 il grattacielo Pirelli, nel ’60 la Torre Velasca. Nei seminterrati degli edifici si aprivano officine, magazzini, autorimesse, ovunque fosse possibile si costruivano fabbriche, capannoni. La silhouette delle ciminiere con il loro pennacchio di fumo grigio stava cambiando lo skyline delle zone periferiche, dando nel contempo origine a una parola fino ad allora sconosciuta: smog. La sera gli uomini, quando tornavano a casa dal lavoro, consegnavano alle mogli camicie dai colletti inesorabilmente anneriti. Le caldaie a carbone completavano

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