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Il covo di Lambrate: Il commissario Lorenzi e il prigioniero scomparso
Il covo di Lambrate: Il commissario Lorenzi e il prigioniero scomparso
Il covo di Lambrate: Il commissario Lorenzi e il prigioniero scomparso
E-book287 pagine3 ore

Il covo di Lambrate: Il commissario Lorenzi e il prigioniero scomparso

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Info su questo ebook

Le truppe Alleate sbarcano in Sicilia per liberare l’Italia dal dominio nazifascista. E’ l’avvio dell’ultima fase della seconda guerra mondiale, quella che segnerà il crollo del fascismo. Il soldato semplice Roger Miller, della seconda brigata canadese, sbarca sulla costa dell’Ambra e combatte nella zona di Pachino. Pochi giorni dopo partecipa alla liberazione di Agira, paese dell’entroterra siciliano. Durante un momento di riposo, segnato dalla festa per la liberazione della città, incontra una giovane e bellissima contadina siciliana, Concetta Lauria. L’amore li sorprende in tempo di guerra, dove il confine tra la vita e la morte è dato dal soffio della casualità. SICILIA & MILANO 2010. Concetta Lauria ormai anziana, incarica un noto ed esperto docente di storia, il professore Moreno Palermo, di cercare notizie di quel giovane soldato canadese, disperso sul fronte italiano nel 1944, e del quale non ha saputo più nulla. Roger Miller ha lasciato un segno indelebile nel cuore di Concetta, lasciandole il dono di una bella bambina, Stella, nata nel 1944, e un’enorme nostalgia mai sopita. Sentendo avvicinarsi la fine della propria esistenza la donna vuole scoprire la verità sulla sorte di Roger. Sara, nipote di Concetta, dalla carnagione e dai lineamenti che ricordano Miller, segue il professor Palermo nella ricerca della verità. Tra i due scoppierà un grande amore anche se Sara è sposata e ha due figli. Seguendo le tracce del soldato fino in Toscana, e grazie all’aiuto di un sito che svela i segreti nascosti del regime e porta alla luce la presenza di centinaia di campi di prigionia fascisti, lo studioso arriverà ad individuare nelle campagne del sud-est milanese la presenza di luoghi dove sono stati segregati, come schiavi nei campi, molti prigionieri canadesi, in aziende agricole fedeli al regime. Durante una di queste ricerche il professore viene aggredito. Stessa sorte tocca al suo giovane assistente Marco Rossi che viene rapito durante uno scontro a fuoco nel quartiere di Lambrate, a Milano, davanti alla ex sede della fabbrica Innocenti. Il commissario Lorenzi incaricato delle indagini si troverà coinvolto in una complicata indagine, dalle mille sfaccettature, che scava nei meandri laceranti della storia del nostro Paese, alla fine del conflitto. Ma chi è realmente il vecchio Italo Merlin, proprietario terriero dal carattere violento e pericoloso? Che ruolo hanno i suoi due anziani figli Galeazzo e Pierino in tutta la vicenda? Cosa si nasconde tra i vecchi fabbricati della cascina Merla nelle campagne tra Paullo e Caleppio di Settala? Che storia nasconde Maruska, fuggita dal tremendo conflitto nei Balcani? Cosa significa la presenza di un potente capo della ‘ndrangheta negli affari dell’azienda agricola? Che attività svolge un capitano dei carabinieri legato a poteri occulti? Saranno il commissario Lorenzi e i suoi uomini, con il prezioso aiuto di Cristina giornalista di Radio Popolare e della sua assistente Marta Jovine, a trovare la soluzione al caso scavando nei momenti più bui e putridi della storia del nostro Paese al momento della caduta del regime fascista, quando anche i neri più convinti cambiarono casacca pur di salvarsi dal prezzo che dovevano pagare all’Italia libera e democratica.

Luigi Pietro Romano Marchitelli, detto “Gino”, ha lavorato per molti anni sulle piattaforme petrolifere della Saipem, per la ricerca del petrolio in mare, come tecnico elettronico. È attivo nel campo delle energie rinnovabili e nell’impiantistica elettrica ed elettronica. Militante nella CGIL e in Democrazia Proletaria ha partecipato alle dure lotte dei lavoratori delle piattaforme petrolifere in mare. Attualmente fa parte del direttivo A.N.P.I. di San Giuliano Milanese e dell’Osservatorio Contro le Mafie nel Sud di Milano. È cantautore ed è stato finalista al concorso Camaleonte 2013 – Salone del Libro di Torino, con un brano dedicato agli operai caduti alla ThyssenKrupp. È autore del noir d’esordio Morte nel Trullo
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2018
ISBN9788869433177
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    Il covo di Lambrate - Gino Marchitelli

    PROLOGO – DICEMBRE 2010

    È buio pesto lungo via Caduti di Marcinelle.

    Il furgone scuro Mercedes lo percorre lentamente.

    L’autista continua a tenere sotto controllo, attraverso gli specchietti retrovisori, la strada che costeggia i resti dell’archeologia industriale di Lambrate, dei capannoni della Innocenti.

    Tra strutture dismesse e demolite lo scenario è davvero spettrale Dalla parte di via Rubattino l’unica realtà ancora attiva è ciò che rimane della Innse, con gli operai in lotta da tempo per salvare il posto di lavoro. Hanno messo in piedi un presidio che dà su viale. Sono troppo impegnati a controllare l’ingresso dello stabilimento per impedire che vengano portati via i macchinari; a fronteggiare e tener d’occhio la polizia e la Digos, per avere il tempo di curiosare sui movimenti degli autoveicoli che passano nella via posteriore. Di giorno il traffico è soprattutto a carattere lavorativo verso le aziende rimaste aperte vicino alla rotonda e all’area dove sorge il nuovo centro commerciale.

    Di notte non passa quasi mai nessuno.

    Anche le prostitute e i loro protettori si tengono alla larga da quella via oscura che incute timore.

    Il capo della banda non è ancora convinto che sia giunto il momento di eliminare il ficcanaso. È molto cauto.

    Non è una questione di scrupoli.

    Non ne ha mai avuti e ha ammazzato con le proprie mani così tanta gente nel corso della vita che non è certo un problema eliminare uno che si è messo di traverso al suo più caro amico.

    Questo però è il punto vero del sospetto che lo pervade.

    L’amico non è più quello di una volta, lo ha letto nei suoi occhi e nei suoi gesti, nelle sue parole quand’è andato a trovarlo. È diventato vecchio e inaffidabile.

    Commette errori e gli errori possono costar caro a entrambi. C’è una certa storia che non deve venire a galla per nessun motivo, e non è per la paura del carcere, alla loro età chissenefrega di finire in gabbia.

    Piuttosto è una questione d’onore.

    Non si debba mai dire che lui finisca la sua vita in galera per una cazzata. La polizia per il momento brancola nel buio ma l’indagine assegnata al commissario Lorenzi lo inquieta. È un osso duro quello, e il magistrato che lo dirige è di quelli della scuola degli incorruttibili.

    E di sparare sulla polizia a Milano non se ne parla.

    Troppo grandi gli interessi delle famiglie in gioco, basta un errore, una leggerezza, e di avvoltoi pronti a farti il funerale e prendere il tuo posto ce ne sono fin troppi.

    Ha deciso di far trasferire l’ostaggio sotto il naso della polizia, proprio all’interno di uno dei ruderi dei vecchi stabilimenti, dove sotto terra hanno realizzato un piccolo bunker segreto.

    È il posto giusto per tenerlo rinchiuso ancora qualche giorno, poi si vedrà.

    Nemmeno il suo amico conosce l’esistenza di quel covo.

    Le forze dell’ordine hanno già perquisito tutta la zona, senza riuscire a individuare quella tana così ben protetta ad occhi estranei.

    E poi c’è qualcuno davvero importante che gli deve molto e coprirà il luogo e depisterà anche all’interno della polizia.

    Una piccola luce si accende e si spegne lungo via dei Caduti di Marcinelle. L’autista spegne i fari e si avvicina.

    Lungo la via due auto tengono sotto controllo il viale affinché non si avvicinino veicoli sospetti.

    Il tipo che faceva il segnale apre un varco predisposto nella recinzione e il Mercedes entra lentamente fino a un punto dove c’è una folta vegetazione cresciuta selvaggiamente, a circa 60-70 metri dalla strada.

    Aprono lo sportello posteriore.

    Prendono il corpo per la testa e per i piedi. L’autista fa strada con la torcia. Pochi metri e sono nella parte diroccata. Il tizio indica un punto e apre un passaggio che sembra far parte della vecchia struttura.

    I due che trasportano il corpo scendono a fatica e lo appoggiano su una branda.

    L’autista del furgone saluta.

    Quello che faceva i segnali lo accompagna fino a riprendere la strada e rientra nel covo.

    Accende le luci, realizzate con un paio di lampadine attaccate in qualche modo al soffitto.

    ’Sto spostamento proprio non lo capisco. Chi ha deciso ’sta minchiata? chiede l’ultimo arrivato.

    Se ti sente il capo ti ritrovano fatto a pezzi al Parco Lambro. Non dobbiamo farci domande. Non è compito nostro.

    Meglio non parlare, pensò quello che faceva il carceriere all’ostaggio da diversi giorni nel precedente nascondiglio, e che era appena arrivato lì con l’autista. Quell’altro non lo conosceva, e se fosse andato a informare il capo delle sue critiche poteva finire male per davvero.

    Ma in quel cazzo di buco che sembrava una tomba non ci voleva stare, lo avrebbe detto di trovargli qualcuno che gli desse il cambio.

    Gli mancava già l’aria.

    Fanculo.

    OTTOBRE 2010

    CARRUBA DI GIARRE – SICILIA ORIENTALE

    Lo aspettavo.

    Ero impaziente di vederlo spuntare lungo il piccolo viale lastricato di pietra lavica contornata da mattoni che disegnavano particolari geometrie rettangolari.

    La grande villa era immersa nei dolci suoni della campagna che avevamo imparato ad ascoltare, e apprezzare nel corso dei nostri appuntamenti segreti.

    Era più vecchio di me di dodici anni eppure quella differenza d’età non aveva mai costituito un ostacolo alla nostra relazione.

    Filippo, il tenutario, non mi aveva posto domande, come al solito.

    Si era abituato ai nostri incontri clandestini ed ero certa che, con il passare del tempo, si fosse affezionato a noi.

    Lo notavo da quel suo osservarmi con il sorriso in fondo agli occhi, nelle piccole attenzioni e nella cura della stanza che ci veniva riservata, nella familiarità con la quale mi accoglieva e mi offriva il caffè non appena arrivavo in quella vecchia cucina che sapeva di tradizione e di antico.

    Non mi aveva mai fatto domande.

    Seduta nel cortile mi lasciavo andare ai profumi delle piante che avevano preso possesso con rispetto, quasi con discrezione, della bella casa dai muri color ocra e rosso pompeiano.

    I passerotti, a decine, si scambiavano chissà quali messaggi tra i rami degli alberi, e con il pensiero anch’io vagavo pensando alla mia terra, alla rigogliosa ricchezza naturale, spesso stuprata, della Sicilia. I profumi degli agrumi si manifestavano dolcemente alle mie narici e se chiudevo gli occhi mi sembrava di poter assaporare la benedizione dei frutti dorati della Trinacria.

    A casa sapevano di miei ripetuti corsi di aggiornamento lontano da Messina, mio marito non aveva mai sospettato nulla o, forse, aveva consapevolmente scelto di non porsi domande che avrebbero potuto destabilizzare la nostra routine matrimoniale.

    I miei figli, presi dall’esplosione ormonale adolescenziale, non facevano caso alla mia assenza se non per accusarmi, ogni volta che partecipavo a un corso, di non aver provveduto a lavare e stirare i vestiti che lasciavano sparsi a decine, ammonticchiati lungo tutta la casa.

    Non rammento con precisione quando fu la prima volta che lo incontrai, forse a una conferenza in municipio.

    Fu mia madre a presentarmelo lodando le qualità culturali e letterarie di quell’uomo originario della nostra terra che viveva a Milano.

    Lui tentò di minimizzare quegli apprezzamenti sulla sua persona, quasi imbarazzato al mio cospetto.

    Ricordo però di come si incrociarono i nostri sguardi, un’attrazione che non si manifestò per lungo tempo ancora fino a quando mia nonna non mi raccontò di quella storia antica che mi spezzò il cuore e mi fece rabbrividire nel profondo dell’animo.

    A lui aveva affidato la ricerca della verità su di lei, su mia madre, e sulla nostra vita spezzata molti decenni prima, dalla violenza dell’uomo sull’uomo, dal conflitto bellico, dal non aver mai più avuto notizie di quello straniero dallo sguardo del cielo primaverile, che aveva attraversato quelle strade polverose per liberare l’Italia.

    Mia nonna me ne aveva parlato solo dopo che erano trascorsi molti anni da quei tempi. Era già molto vecchia, e io non avevo poi fatto altre domande anche se osservando successivamente i fratelli di mia madre mi balzarono agli occhi le profonde differenze tra loro.

    Le efelidi e la carnagione di latte di mia madre stonavano con la rude pelle olivastra dei suoi fratelli Paride e Attanasio. I suoi capelli dorati, che assorbivano i raggi del sole fin quasi a renderli abbaglianti, contrastavano con il moro color saraceno delle capigliature dei miei parenti.

    Io no, avevo la chioma bionda normanna e gli occhi azzurri, e data la somiglianza con mia madre non mi ero mai posta domande sul mio aspetto così differente.

    Il professore fu incaricato di cercare notizie su quello che scoprii essere mio nonno, di lui Concetta, mia nonna, ricordava bene il nome Roger e un cognome, Miller.

    Un grande amore fugace durato lo spazio di un attimo.

    Era un soldato straniero, mi disse. Un canadese, uno tra i tanti che nelle file alleate passarono per portare libertà alle nostre genti stremate dalla fame e dalla guerra, dal dominio del regime devastante che aveva sepolto la giustizia e la libertà sotto le fiamme del potere nero, di camicie e di menti perverse.

    Incontrai spesso il professore, e ogni volta lo osservavo con curiosità quando veniva nella nostra casa a informarci su come procedevano le ricerche.

    Difficili, se non impossibili.

    Il tempo aveva steso cumuli di polvere sui ricordi e anche coloro che rammentavano particolari o episodi che potevano condurlo verso la verità avevano spesso timore di rimestare con la memoria dentro tutto a quel fango.

    Nel corso del tempo, mi innamorai di lui e ci ritrovammo nelle braccia l’una dell’altro.

    Avvenne tutto in un modo così naturale che ho preferito non farmi mai domande, ho scelto la strada della menzogna a me stessa per non aprire un baratro nella mia famiglia, nei miei affetti, ma di lui non posso più fare a meno.

    È qualcosa di molto più profondo ed eletto di un amore normale, lui è capace di cogliere la mia anima.

    Con lui ho scoperto la tenerezza dell’amore adulto ed equilibrato nel rispetto di me stessa, pur essendo io esperta e prossima ad affacciarmi alla terza fase della vita.

    Tutte le volte che mi raggiungeva e ci incontravamo, quando lui partiva all’improvviso dalla grande metropoli lombarda, il nostro rapporto si consolidava e diveniva sempre più profondo e intimo.

    Con mio marito non ho mai provato un piacere così intenso. Il professore mi ha sempre accolta come se fossi un fragile velo di carta con impressa una antica sinfonia musicale. Lasciandomi andare a lui ho capito il significato sublime dell’essere nota musicale nel pentagramma dell’universo.

    Sara, amore mio mi diceva sussurrando il mio nome mi hai riportato alla vita, ora so che vale la pena viverla davvero, e fino in fondo.

    Mentre mi faccio conquistare dai profumi dei gelsomini dai riflessi bianchi e rosa osservo la camera, il nostro talamo con la porta a vetri in ferro battuto e i lunghi mattoni lavici che la contornano, nell’ocra scaldato dai raggi del sole mediterraneo… penso a questo nuovo incontro, a come lui saprà intonare nuove armonie sulla mia pelle, a come potrò provare ancora, e ancora il significato di amore e dolcezza.

    Eccolo.

    Lo vedo arrivare, nel suo bianco vestito.

    Il cappello a falda larga intonato con il gilè dai colori dell’arcobaleno.

    Il bastone con il quale si accompagna da quando è caduto e un ginocchio ha ceduto all’età e all’asfalto ruvido.

    Moreno Palermo, questo è il suo nome.

    Si avvicina e mi sorride.

    Le piccole rughe che gli contornano gli occhi paiono rilassarsi per ridargli un incarnato giovanile.

    Lui ha sessantadue anni, io cinquanta.

    È a pochi metri da me.

    Mi alzo e gli vado incontro, ci abbracciamo e ci baciamo come due ragazzini.

    Il figlio del tenutario ci passa di fianco calciando un piccolo pallone sgonfio, ha otto anni, è abituato alla nostra presenza e ha smesso di spiarci con la curiosità dell’infante.

    Somiglia molto al padre.

    Ci prendiamo per mano e tra il cinguettare dei passeri, nei colori del caldo pomeriggio, nei profumi della rigogliosa natura che ci circonda, ci sdraiamo nel grande letto matrimoniale di legno antico.

    Mi racconta che forse ha trovato finalmente una traccia importante per dare risposta alle domande di mia nonna, di mia madre, e anche alla mia vita.

    Ripartirà domani, mi racconta che nelle campagne nel sud della provincia di Milano forse c’è la risposta che stava cercando.

    Accucciandomi a lui dopo aver rinnovato il nostro amore, e il nostro meraviglioso amplesso, non immaginavo che stavo correndo il rischio di non vederlo mai più.

    10 LUGLIO 1943

    COSTA SICILIANA, ORE 1.35

    Da quasi un’ora gli aerei alleati avevano iniziato il bombardamento della costa e delle batterie di artiglieria delle truppe italiane di stanza a Maucini.

    All’una e trentacinque due battaglioni d’assalto della 2a Brigata canadese, a bordo di mezzi da sbarco, avevano iniziato a dirigersi verso la spiaggia della costa dell’Ambra, mentre la cannoniera Roberts colpiva ripetutamente le difese dell’aeroporto di Pachino con i suoi pezzi da 15 pollici.

    La batteria italiana aprì il fuoco contro le imbarcazioni in avvicinamento, ma, individuata per il bagliore dei colpi, fu brevemente ridotta al silenzio, annientata dall’artiglieria navale.

    Il soldato Roger Miller non pensava a nulla. Non si chiedeva nemmeno per quale motivo si trovasse su un mezzo sballottato dalle onde e flagellato dal vento in quella notte maledetta.

    Sapeva solo che doveva essere lì, come in altri combattimenti a cui aveva preso parte, per liberare il mondo dalla dittatura nazifascista.

    Nonostante avesse compiuto da poco tempo vent’anni era già un veterano di guerra, come molti dei suoi compagni d’armi stipati in attesa di sbarcare sulla spiaggia ed esporsi al fuoco nemico.

    Nell’oscurità rischiarata a tratti dal bagliore dei colpi di cannone poteva scorgere le sagome dei suoi commilitoni.

    Istanti in cui, come in un flash fotografico, quelle ombre si trasformavano in uomini in carne e ossa, per ripiombare poi nell’oscurità del destino che li attendeva sul bagnasciuga straniero.

    Stringeva con una mano la piastrina di riconoscimento che portava al collo, nell’altra il fucile mitragliatore.

    Dopo un tempo che sembrò infinito il mezzo raggiunse il punto di sbarco, il portellone venne aperto con un secco rumore metallico che si confuse con lo sciabordio del mare, poi gli ordini duri dei capi pattuglia.

    I soldati corsero verso la spiaggia tra i sibili dei proiettili e i lampi delle mitragliatrici di fronte, nell’oscurità della notte.

    Gettarsi a terra a sparare contro quei fuochi.

    Le grida dei feriti.

    Il sangue sull’arenile, impossibile a vedersi se non alle prime luci dell’alba di quel mattino, poche ore dopo.

    E rialzarsi e sparare di fronte a sé, e correre, e sparare, e buttarsi a terra, rialzarsi, correre, sparare… e ancora, nel buio, nel nulla.

    Roger corre e spara meccanicamente, in silenzio, non sente nemmeno i battiti del suo giovane cuore.

    Non c’è tempo per la paura.

    10 LUGLIO 1943 – ORE 8.45

    Nella zona dello sbarco non tuonavano più cannoni e mitragliatrici, né si udivano esplosioni.

    In poche ore la 1a Divisione canadese aveva raggiunto tutti i suoi obiettivi. L’aeroporto di Pachino era stato conquistato e le postazioni delle truppe italiane rese inoffensive. La spiaggia si era trasformata in un brulicante punto di raccolta per lo sbarco di altri contingenti, rifornimenti, autoblindo, camionette e carri armati, e di prigionieri italiani.

    I soldati canadesi si riposavano dopo le lunghe ore di battaglia, sostituiti dalle truppe fresche delle brigate di supporto.

    Roger Miller si era seduto, la schiena appoggiata contro una duna di sabbia, e fumava una sigaretta con lentezza, assaporando il sapore del tabacco che gli riempiva i polmoni. Osservava i giovani soldati delle retrovie che camminavano verso il fronte che si era spostato di alcuni chilometri nell’entroterra.

    Ogni tanto volgeva lo sguardo verso i suoi compagni che riprendevano fiato dopo la battaglia. William si era sdraiato facendosi riscaldare dal sole meridionale, già potente a quell’ora.

    Distrattamente vide passare i barellieri che trasportavano alcuni feriti, su altre barelle giacevano i corpi di due suoi commilitoni.

    Li conosceva ma non aveva mai parlato con loro.

    Pensò alle lettere di circostanza che avrebbero ricevuto le famiglie. Alcuni infermieri curavano i soldati italiani feriti, molti di loro indossavano divise e scarpe lacere, più che un esercito sembrava un universo di giovani smarriti.

    Erano di bassa statura al confronto con i soldati canadesi, la carnagione era per lo più olivastra e avevano, quasi tutti, i capelli corvini.

    Ve n’erano di giovanissimi.

    Roger li osservava con curiosità e cercava di immaginarsi che tipo di vita conducessero prima di ritrovarsi in guerra, chi di loro avesse moglie e figli ad aspettarli a casa.

    Lui, prima di partire volontario, studiava antropologia all’università di Montreal. Poi il richiamo, forte, di partecipare alla missione per liberare il mondo dalla tirannia aveva avuto la meglio e si era arruolato.

    Non era fidanzato e non aveva sentito quella tristezza lacerante che si prova quando parti per un destino ignoto e non sai se farai ritorno.

    Molti suoi compagni d’armi soffrivano per questo.

    Fu attratto da un fante italiano, con la fronte e un occhio bendato sporco di sangue, che lo fissava da alcuni minuti.

    Si alzò e si diresse verso di lui.

    Questi alzò il viso senza distogliere lo sguardo.

    Roger gli passò la sigaretta che aveva in bocca e quello l’accettò muovendo affermativamente il capo.

    Se ne accese un’altra e tornò sui suoi passi.

    L’italiano continuava a osservarlo, Roger gettò la sigaretta e si sdraiò dopo essersi tolto l’elmetto che stava diventando incandescente per il sole.

    Si abbandonò a quei pochi minuti di pace strappati alla morte.

    Che sporca guerra, pensò chiudendo gli occhi.

    L’AMORE IN TEMPO DI GUERRA

    La battaglia che si svolse nel territorio tra Assoro e Agira, nonostante l’accanita resistenza tedesca agevolata dal terreno aspro e montagnoso, vide i soldati della Divisione di fanteria canadese riuscire a espugnare la roccaforte, costringendo le forze tedesche a ripiegare.

    La presa della vetta di Assoro da parte del reggimento fu tanto significativa quanto drammatica, e sconvolse l’intero piano tedesco per la difesa del fronte, accelerando la successiva caduta di Agira e scrivendo una delle più importanti pagine dell’operazione Husky per la liberazione della Sicilia dall’occupazione tedesca.

    Il 28 luglio 1943 le truppe canadesi conquistarono Agira.

    Lo stato maggiore della divisione canadese decise di far esibire la banda reggimentale del Seaforth Highlanders

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