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Il caro figliuolo
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E-book243 pagine3 ore

Il caro figliuolo

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Il caro figliuolo, di Antonio Accordino.
LinguaItaliano
Data di uscita18 ago 2022
ISBN9791221425604
Il caro figliuolo

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    Anteprima del libro

    Il caro figliuolo - Antonio Accordino

    Il pescatore, Calogero Lubrano, si svegliava verso l’alba che ancora il sole sonnecchiava sotto l’orizzonte ed il giorno, tastava le onde ancora fredde della notte, si lavava, si vestiva ed usciva di casa chiudendo piano la porta, si fermava un momento sul marciapiede, uno sguardo alla montagna, alle case di destra e si dirigeva senza esitazione, verso la spiaggia, allo scarro, il posto dove teneva la sua barca, anche se gli era stato vietato, di andare a pesca, l’attività che aveva esercitato fin da ragazzino.

    Una malattia neurologica, imprevedibile, improvvisamente, gli aveva alleggerito la memoria, indebolita la zona del cervello ad essa preposta, riportandolo all’infanzia, ai giuochi ed ai capricci ad essa legati, e giocoforza, il neurologo, l’aveva messo riposo.

    La terapia dello scienziato in vox populi, forse per una dose eccessiva di farmaco, l’aveva mandato in coma per una quindicina di giorni, la fibra robusta, e soprattutto l’affetto dei familiari, alcuni mesi dopo, l’avevano sollevato e reso autonomo, però non del tutto, quel tanto diciamo, da consentirgli di coltivare, almeno l’abitudine, l’amore per il suo mestiere, dice lo storico locale, Ettore Maniscalco.

    Calogero, continua Ettore, infatti si fermava accanto alla barca e guardava il mare amoreggiare con la battigia, scrutava le onde ed osservava la circolazione delle nuvole nel cielo, e faceva pure, qualche congettura sulle previsioni del tempo.

    Il pescatore Calogero Lubrano, con un sacco di anni sulle spalle, non più in grado di svolgere alcun tipo di lavoro, con il fianco sinistro appoggiato alla murata della barca in secca, gli occhi socchiusi nel fumo leggero di una sigaretta fatta a mano, seppure a conoscenza che ogni atto della vita è un sempre nuovo, che l’umanità, un secolo dopo l’altro, commette gli stessi errori e li sconta con il sangue, inducendo a pensare che l’esperienza non serve a niente, or dunque, convinto che nessuno lo avrebbe ascoltato, racconta Ettore Maniscalco, con uno scoppio di sana filosofia, azzarda e dice, che il viaggio di ogni opersona è un fattore fondamentale di crescita che va oltre la prova della sua cultura che è un percorso non uguale per tutti e molte volte si sviluppa per vie, non del tutto chiare, incomprensibili alla nostra ragione conoscenza, ed ecco che a queste parole, magicamente, il cielo, si apre in una limpidezza, serenità climatica, straordinaria e questo pensiero luminoso, imbocca e s’addentra in un percorso piuttosto favorevole, raggiungendo velocemente, livelli sempre più alti ed ad ogni modo, superiori ad ogni prevedibile, aspettativa.

    Lo spazio che il pensiero, s’accinge ad attraversare, con naturalezza, inconcepibilmente, gli si apriva senza opporgli alcuna resistenza, ha accolto, senza alcun pregiudizio, questa luminescenza impalpabile, seppure trasportasse in sé, un rischio, altamente pernicioso per gli equilibri dell’intero sistema, forse pensando, di poterlo mantenere sotto controllo, per la notoria caratteristica di restare in una zona invisibile, incline a non farsi notare, insomma, per motivi non conosciuti e magari incomprensibili, l’ha accolto nel grembo, nel suo essere infinito.

    Lo stato di buonismo, è risaputo, continua Ettore Maniscalco, è un probabile, concreto pericolo, però, per la forza incommensurabile, che questo pensiero aveva di andare, fu ritenuto inutile calcolare il danno che potesse derivarne, fu accettato il rischio, in parole semplici, gli fu concessa la licenza di proseguire e guarda caso, manco a dirlo, senza alcun aiuto od indicazione, è andato, fra miliardi di elementi che s’affollavano in quel piccolo cerchio, ad impregnare una goccia di luce che stava stanziata, in una galassia sconosciuta, ad una distanza, approssimativa con un calcolo terrestre, di circa, cento, cinquecento, mille anni e forse, anche molti di più, ovvero, secondo la nostra misura, un interminabile viaggio.

    La goccia di luce, destinataria del pensiero filosofico, penetrata, agitò il nucleo, nel quale, era domiciliato, Mariano Monacello, carico di un enorme desiderio, di conoscere il luogo sul quale era nata e vissuta la sua specie, una stirpe evoluta che però, con una parte consistente del suo cervello, è rimasta nella caverna, a costruire armi, a pensare a come difendersi, da un probabile nemico, a come sopraffare il vicino, ad assaltare altri suoi simili, con l’intento di sottometterli, sicuramente, di usarli, di farne degli schiavi, di porli al suo servizio.

    Mariano Monacello, in uno stato di spasmodica attesa, tanto che lo accolse con una gioia, che a dire spumeggiante, risulta minimale, fu insuperabile, che ancora a tutt’oggi, dice Ettore Maniscalco, e dire che ormai, son passati, centinaia, migliaia, di anni, è ritenuto impossibile comprendere pienamente, la sua essenza intrinseca.

    La decisione fu subito presa e Mariano Monacello, continua Ettore Maniscalco, s’accinse ad intraprendere la strada all’incontrario, di andare su quel pianeta tanto sognato, che i suoi avi avevano lasciato alla ricerca di un mondo migliore, quindi afferrò per la coda, un Nano accademico, così denominato, un raro mezzo di trasporto, vettore specializzato, in grado d’immergersi in ogni strato delle galassie, che fortunosamente, stava sopraggiungendo ammantato di un alone bianco sfavillante, e s’infilò nell’infinito, in fondo al sistema, verso quel puntino nero, chiamato terra.

    L’orbita che gli era più vicina e con la quale intratteneva rapporti molto amichevoli, quasi di fratellanza, entrò in una confusione parossistica, conoscendo però, la sua irrequietezza, sapendolo ben determinato, assunse un aspetto di riservatezza conciliante e come a lanciargli la partenza, spinse fuori da una crepa, un corno di luce di diversi e variopinti colori e lo lanciò al seguito di un gruppo di Corpi celesti che sovraintendevano alle coordinate delle dimensioni, dei livelli che si coniugavano con l’infinito, dunque si schiacciò a formare una piattaforma di lancio, per agevolare la discesa, emise un enorme sbuffo di vapore latteo, e quasi a scusarsi, s’inchinò appiattendosi su se stessa, disegnando un enorme disco leggermente gibboso, quasi a creparsi, aprendogli la porta del cerchio e lo invitò ad andare, lasciandolo immergere nello spazio verso la successiva, osservando con una grande nostalgia, la sublime luminosità che dire scoppiettante, non significa nulla, che lo riempiva e soprattutto, lo distingueva da ogni altro elemento di quel cortile.

    La goccia di luce nella quale Mariano Monacello, aveva la sua residenza, con l’euforia del viaggio e l’incoscienza di un ragazzino, saltellando con allegria, forse per fare fronte agli atteggiamenti che il nuovo stato gli richiedevano, non certo per indifferenza o peggio, per altezzosità, si lanciò in picchiata in quell’infinito di oscurità, volò via, senza neanche abbozzargli, un cenno di saluto. Le orbite, man mano che s’allontanava da casa, s’accorciavano e gli strati si facevano sempre più evanescenti, pare che perdessero forza, il loro vapore si schiariva, ed il Nano accademico si sentiva più libero ed acquistava velocità nel segno manifesto di una lontananza ancora percorribile, seppure Mariano Monacello, la sua entità acquisiva consistenza, e la luminescenza si affievoliva in un irrimediabile e costante, forse naturale decadimento.

    La diminuzione della distanza verso la terra, diciamo contemporanea brevità, produceva in Mariano Monacello, un ritocco somatico, una trasformazione corporale e psicologica, che lo mutava, lo modellava, configurandolo, con qualche diversità e caratteristica, impercettibile nell’essere dal quale proveniva la sua genia.

    La luminescenza, infatti decadendo si sfilacciava in una miriade di filamenti, si scioglieva in nastrini che si differenziavano assumendo colori diversi e Mariano Monacello, con un fare quasi protettivo ed insieme speculativo, arrotolò senza che se ne lasciasse scappare neanche uno, forse prevedendone a suo tempo un adeguato sfruttamento che il luogo, che stava per raggiungere, ancora sconosciuto, probabilmente, immancabilmente, gli avrebbe richiesto.

    La terra che s’avvicinava, splendeva nella sua bellezza e lui non riusciva a sottrarvi lo sguardo, ed ad ogni salto d’orbita, il desiderio di conoscerla si faceva sempre più forte, gli nasceva dentro, verso Ella, uno struggente, prorompente, pensiero d’amore, che quasi gli toglieva il fiato.

    La città di Loguma, la destinazione verso la quale era programmato, che il suo viaggio avesse termine, apparve agli occhi di Mariano Monacello, simile ad un’aquila reale con le ali ripiegate sui fianchi, la testa alzata sull’acqua e la coda a ventaglio sulla terra ferma, prona sul mare nell’atteggiamento di cova, e nel posare i piedi sul suolo, gli risultò spontaneo, pensare che fosse rientrato a casa, dopo un lungo, lunghissimo viaggio, con un vettore disagevole, che noi, dice Ettore Maniscalco, potremmo paragonare ad un treno a scartamento ridotto, sporco e puzzolente.

    I dirigenti delle Ferrovie, comandati ad offrire ai cittadini, un servizio pubblico efficiente, a buon diritto, ben curato, principio imprescindibile per una buona conduzione dell’esercizio, per risparmiare e non investire nella manutenzione, magari per spartirsi dividendi che non avrebbero, applicando una retta e regolare gestione della struttura.

    Le ferrovie dello stato, questi dirigenti, usano fare circolare questi vettori, non per il trasporto di bestiame, bensì, di viaggiatori della società civile, di lavoratori, studenti pendolari che oltre ad un prezzo esoso del biglietto, si sobbarcano sulle spalle, un sacco di ore e giungono sempre in ritardo alla stazione d’arrivo, al posto di lavoro, a scuola, con conseguenze a lungo andare, deleterie, e sinceramente, senza un compagno per giuocare, per scherzare, sollevare il peso del tempo, schiacciato da un rumore che resta selvaggio, seppure cerchi di poetizzare.

    Mariano Monacello, nell’attraversare le orbite in discesa, era fatto segno di raccomandazioni, di applicare moderazione, e nella penultima, ormai quasi in rotta con il pianeta, non del tutto mutato, munito di un’energia diversa, e di un corpo che ormai, si era trasformato in materia, realizzò che non poteva presentarsi agli stanziali di Loguma sulla quale stava per sbarcare, senza nulla addosso, insomma privo di una vestizione consona, per presentarsi ai suoi conterranei.

    Gli esseri che vedeva muoversi sulla striscia di terra che gli stava sotto, che in linea di massima, appartenevano alla sua genìa, indossavano vari, buffi, ed anche variopinti indumenti, insomma non erano proprio ignudi, e quindi, Mariano, pensò che avesse bisogno di coprire, avvolgere la sua figura, e srotolò la palla dei filamenti e la consegnò al primiero Sarto del Vettore Accademico, Mastro Peppino Gambino, che con il berretto in testa di Capo superiore e con piglio deciso, comandò ai ragazzi della bottega, di tagliare, assemblare e mettere a punto le strisce, ed ecco che sotto il suo occhio vigile, le mani sapienti dei lavoratori, fu ben vestito, fornito di pantaloni, maglietta ed anche di un paio di sandali, seppure i piedi protestavano ad allocarsi in essi, ne avrebbero fatto a meno se il territorio sul quale atterrò, per la granulosità e ruvidità, non glielo avesse imposto.

    Lo sbarco di Mariano Monacello, nella terra di Loguma, dice Ettore Maniscalco, fu, diciamo così, una specie di caduta programmata, morbida, praticamente, atterrò con un’adeguata leggerezza, che comunque, gli causò una certa, inquieta confusione, in coscienza, come si suole dire, si sentiva un poco in aria.

    Il problema, a dire il vero, era un altro e cioè, nel muoversi in cerca di una località che poteva assicurargli, una certa tranquillità per la notte, una stabilità per costituire il suo habitat, proseguendo alla ricerca di un posto adeguato, consono al suo desiderio, giusto, si sentiva insoddisfatto, credeva che non fosse buono per abitarci, la località gli sembrava avversa.

    Le linee che seguiva, ad un tratto, gli venivano meno, si capovolgevano, s’interrompevano, costringendolo a ritornare sui suoi passi, se ne aprivano altre invitandolo a seguirle, pedissequamente, titubante, entrava in altre direzioni, e camminava, non con la stessa determinazione con la quale aveva seguito le precedenti, ed ad un tratto, improvvisamente, si ritrovava, in una strettoia impraticabile, in un enclave senza sbocco, o così gli sembrava, ed allora ritornava indietro, a cercare le prime, naturalmente non trovandole.

    Mariano Monacello, ad un tratto, si sentiva perduto, si guardava intorno, la ricerca era infruttuosa, comunque, a caso, continuava verso un’altra destinazione.

    Mariano Monacello, entrato nell’ambiente della specie umana, dal quale si erano allontanati, millenni prima, i suoi avi, ecco, appena vi mise il naso, come si suole dire, ne fu meravigliato e contrariato, perché non ebbe un buon accoglimento, pensò gli mancasse qualcosa per il contatto con il pianeta tanto sognato ed amato, e si convinse ancor di più, che non fosse, tanto amichevole.

    L’attacco di piccoli esseri invisibili o quantomeno poco percettibili, che lo colpì con una miriade di frecce, armate con sostanze irritanti, lo mise in difficoltà.

    Il lancio, forse plateale, era comunque sconsiderato, improvvise, provenivano da ogni direzione, colpivano pedissequamente, con un irrefrenabile piacere di causare indisposizione.

    Mariano Monacello, credeva fosse inadeguato, con una vestizione non confacente alle caratteristiche che richiedeva quel luogo e, corrucciato, cercava un luogo più adatto, meno indisponibile nei suoi confronti.

    Aveva bisogno di una difesa più pertinente a quella che aveva, nemici invisibili, lo stuzzicavano, lo infastidivano.

    La loro presenza con silenziose armi personalizzate, a lui sconosciute, gli procuravano bruciore e numerosi, fastidiosi puntini rossi, sulle braccia, sulle gambe, sul corpo esposto che lo pose in una grave, palpabile apprensione, ravvisando che non era del tutto protetto, e che comunque, l’utilità di coprirsi, non serviva solo per presentarsi ai suoi simili, per proteggersi da eventi climatici, ma soprattutto da altri figli della natura.

    Mariano Monacello, allora per evitare od almeno di alleviare i fastidi di quel bombardamento a tappeto, pedissequo ed irritante, decise di allontanarsi da quel luogo, dalla zona infestata da quegli animaletti dispettosi.

    La natura era stupendamente bella, colorata e corse per la radura con il desiderio di abbracciarla, stringerla forte al petto.

    Sotto l’orizzonte, in fondo, al limitare dello spazio visivo, tante piante o credeva che fossero tali, forse figure, si rincorrevano, od inconsapevolmente, gli apparivano in trasparenza, o secondo la messa a fuoco, le si riflettevano. .

    Le figure, diciamo, stavano ferme, come piantate sul posto, si elevavano verso il cielo, chi di più, altre di meno, in un modo che gli sembrò lo chiamassero, volessero omaggiarlo dei loro frutti.

    Ad un tratto, andando avanti, camminando, nota, s’accorge di alcuni animali, i più grandi, alzavano la testa verso i rami, strappavano le foglie e masticavano, i piccoli giuocavano rincorrendosi, allontanandosi od avvicinandosi, ritornando, allora Mariano, andò loro incontro, forse pensò, era il modo migliore per procurarsi il cibo, uno sguardo intorno, e fece la conoscenza anche con una capretta, dice Ettore Maniscalco, con sul processo mentoniero, una bella, caratteristica barbetta, con al seguito due pargoli non ancora svezzati, che si muovevano scodinzolando, con energia, s’attaccavano alle mammelle della madre e lentamente, si nutrivano,

    A volte, imitavano la genitrice, tentando di brucare l’erba del prato, muovendo le labbra, emettendo lievi richiami.

    Mariano Monacello, con una malcelata disinvoltura, si avvicinò a loro e scherzando, giuocando con i pargoli, s’accompagnò per un buon tratto, fino a che non si congiunsero con altri simili.

    Mariano, aveva tentato di chiedere loro qualche informazione, intendeva conoscere le abitudini, i luoghi,

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