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Nearly Found
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E-book363 pagine5 ore

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Info su questo ebook

Nearly Boswell ha da poco iniziato a lavorare come stagista in un laboratorio forense, quando una ragazza del quartiere di case mobili in cui lei vive viene trovata morta. In seguito viene anche rinvenuto il cadavere di una persona scomparsa da tempo, sepolto in un campo da golf e con inciso sulle ossa un messaggio diretto proprio a Nearly.
Quando Nearly scopre che quei resti sono del padre del suo compagno di classe Eric, inizia a temere che il ritrovamento sia collegato alla scomparsa del suo stesso genitore, avvenuta cinque anni prima.
Nearly, Reece e i compagni della ragazza, Vince, Jeremy ed Eric, si dedicheranno a indagare il passato dei loro padri, un passato che rischierà però di minacciare la fragile storia d’amore tra Nearly e Reece e che farà di tutti loro un bersaglio del killer.
LinguaItaliano
Data di uscita3 ott 2022
ISBN9788855314602
Nearly Found
Autore

Elle Cosimano

Elle Cosimano's debut thriller, Nearly Gone, was an Edgar Award finalist, won the International Thriller Award for Best Young Adult Novel, and was awarded the Mathical Book Award recognizing mathematics in children’s literature. Her novel Holding Smoke was a finalist for the Bram Stoker Award and the International Thriller Award. Her books for young adults have appeared on several statewide school and library reading lists. Elle lives in the Blue Ridge Mountains of Virginia with her husband, her sons, and her dog. You can learn more about her at www.ellecosimano.com.

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    Anteprima del libro

    Nearly Found - Elle Cosimano

    Capitolo 1

    Dalle finestre aperte si diffuse il rumore di ghiaia calpestata e dei bassi smorzati di uno stereo. Mi leccai il burro d’arachidi dalle dita e tirai indietro la tenda. Il tessuto odorava di fumo, anche se mia madre aveva smesso di fumare due mesi prima.

    All’esterno, una vecchia Mercedes nera col cofano che irradiava calore bloccava il mio portico d’ingresso. Reece Whelan era seduto al posto di guida, indossava occhiali da sole stile aviatore e muoveva le labbra al ritmo di una canzone che non riconoscevo.

    Spalancai la porta mentre lui scendeva all’auto.

    «Dov’è la tua moto?» chiesi, lasciando che la zanzariera sbattesse alle mie spalle.

    Lui raddrizzò la schiena, aprendo le braccia per sfoggiare la Benz. «Perché, questa non ti piace?»

    Mi morsicai il labbro, osservando il modo in cui la maglietta si tendeva lungo le ampie spianate del suo petto. «Mi piace molto, ma non appartiene al detective Petrenko?»

    Reece salì i gradini due alla volta e mi tirò a sé con aria tronfia. Non mi ero ancora del tutto abituata al suo taglio corto di capelli, a come mi pungevano delicatamente le dita quando vi passavo in mezzo le mani. La sua maglietta aveva un odore di detergente per auto e pelle, diverso dal cuoio consumato del suo giubbotto in cui amavo sprofondare il viso quando ero seduta sul retro della sua moto. Ma sotto tutti quegli odori c’era quello familiare della sua colonia, agrumi e sandalo, e lo assaporai.

    Lui agitò le chiavi in mezzo a noi e mi stuzzicò: «Probabilmente non ne sentirà la mancanza. Vuoi farci un giro? Ha l’aria condizionata.»

    Si sporse per baciarmi ma io lo tenni a distanza. «Aspetta. Hai rubato l’auto ad Alex Petrenko?»

    Lui inarcò il sopracciglio con il piercing. «Non l’ho rubata. L’ho presa in prestito. Mi sono fermato a casa di Gena per un saluto e c’era anche Petrenko. Erano... occupati in altre attività.» Reece mi guardò dalla testa ai piedi, in quel suo modo che ancora riusciva a farmi tremare le ginocchia persino quando avevo voglia di strangolarlo.

    Repressi un sorriso. «Okay, capito. E...?»

    «E le sue chiavi erano sul bancone della cucina. Ho bussato alla porta della camera da letto, ho urlato Posso prendere in prestito la tua macchina? e lui ha gridato una cosa del genere Sì, sì. Dio, sì. A quel punto Gina ha ululato di togliermi dalle palle. Io l’ho fatto ed eccomi qua.» Sorrise raggiante, senza smettere di agitare le chiavi. «Aria condizionata.»

    La Mercedes gocciolava condensa sulla ghiaia. A ogni goccia io elencavo nella mia mente i tanti modi in cui rischiavamo di trovarci nei guai. Gena era un’agente della narcotici sotto copertura e aveva il compito di supervisionare Reece che lavorava come informatore, in cambio della libertà vigilata dopo una retata per droga l’anno precedente. Inoltre, era anche la fidanzata del detective Alex Petrenko.

    «Non fare quella faccia sconvolta» mi disse Reece. «A Petrenko probabilmente neanche importa. Il mese scorso gli hanno dato una promozione e gli hanno assegnato una fottuta Dodge Charger. Quest’affare non fa che stare parcheggiato a prendere polvere di fronte a casa di Gena. Tanto sarà mia tra un paio di mesi. Devo ad Alex ancora qualche rata...»

    «Un attimo, stai comprando la macchina di Alex?» Avevo visto quanto guadagnava durante l’anno scolastico come informatore della polizia della contea di Fairfax. E avevo visto gli assegni che portava a casa durante l’estate, lavorando in cucina da Nico’s Pizza. Tra un impiego e l’altro guadagnava a malapena da coprire l’affitto del suo misero appartamento a Huntington. Non ci voleva un genio della matematica per fare due conti. «E come?»

    Venne verso di me, gli occhi fissi nei miei, costringendomi a fare un passo indietro. «Ho detto a Nico che d’inverno lavorerò part-time.» Fece un altro passo verso di me.

    «E la scuola?» chiesi indietreggiando verso la porta.

    «È solo qualche sera a settimana. Me la caverò» rispose quando tra noi non ci fu più spazio. «Ma potrei avere bisogno di ripetizioni extra per stare al passo.» Con il pollice mi tolse del burro d’arachidi dal labbro, sapendo bene che attraverso la sua pelle avrei assaporato ogni sensazione dolce e maliziosa che stava provando. Le sue intenzioni erano decisamente più peccaminose del dividersi qualche panino.

    «La tua moto?»

    «Tra qualche settimana farà comunque troppo freddo per poterci andare.» Le sue labbra indugiavano a pochi centimetri dalle mie. «E poi la moto non ha il sedile posteriore» sussurrò.

    Attraverso la zanzariera della porta, mia mamma si schiarì forte la gola.

    «Prendo i panini» sospirai, spingendolo via.

    «Niente panini. Andiamo da Gena per un barbecue.»

    Reece mi seguì dentro. Mia madre era in cucina, in vestaglia e con una tazza di caffè tra le mani.

    «Ciao, Mona.» Reece le porse uno dei panini con burro d’arachidi e marmellata che avevo fatto per noi e iniziò a ingurgitare l’altro.

    Mia madre alzò un sopracciglio appesantito dal sonno. Per quanto le piacesse farmi discorsetti sull’andarci piano e stare attenti, adorava Reece, anche se nel suo modo distante e cauto. Immerse nel caffè la crosta del panino e sorrise tra sé.

    «Prendo i libri.» Gli strappai un angolo di panino.

    «Leigh, oggi è il Labor Day! Conosciuto anche come giorno in cui nessun lavoratore fa un tubo e ci strafoghiamo tutti di torta e uova ripiene.» Reece mi seguì in corridoio e lo sguardo attento di mia madre fece lo stesso, quindi tenni la porta aperta.

    «Sei consapevole che domani ricomincia la scuola e abbiamo ancora due capitoli di algebra da ripassare prima del tuo test d’ingresso di questa settimana?»

    Il semestre precedente Reece era stato sospeso due volte per colpa mia, ed ero decisa a farlo rimettere in pari in modo che durante l’ultimo anno non rimanesse invischiato nei corsi di recupero.

    «Niente libri» mormorò Reece a voce bassa quando fummo soli nella mia camera. «Non ho intenzione di studiare.» Mi afferrò per la vita e gemette quando allungai la mano verso il mio zaino.

    Era diverso da chiunque avessi mai incontrato. Entrava ovunque – e nella mia vita – con avventata confidenza. Come se non avesse niente da perdere.

    «Hai preso l’opuscolo d’orientamento?»

    «Sì.» Mi prese lo zaino dalle mani e lo fece cadere a terra.

    «Posso vederlo?»

    Mi avvicinò a sé e mi sfiorò l’orecchio con il naso. «Ti faccio vedere il mio se mi fai vedere la tua.»

    «Affare fatto.» Lo spinsi via e gli porsi la lettera della scuola, dopo averla presa dal comodino.

    Lui sospirò e pescò una busta ripiegata dalla tasca posteriore dei jeans. Mi sedetti sul bordo del letto e la aprii. Ebbi un tuffo al cuore vedendo il mittente.

    «Vai alla Spring Run? Ma è dall’altra parte della contea.»

    Reece alzò le spalle. «È l’opzione più sicura per me. Ormai tra la West River e la North Hampton mi conosce troppa gente.»

    Cercai di calcolare il percorso degli autobus dalle case mobili di Sunny View alla sua scuola, ma mi arresi dopo il terzo cambio.

    Lui lesse a labbra tirate la mia lettera della West River. Si sedette accanto a me. «Pensi che starai bene? Sai, a tornare là.»

    Mi stampai sulla faccia un sorriso convincente. «Me la caverò.»

    Mi prese il viso tra le mani e mi passò un pollice sulla guancia. Il suo tocco era dolce amaro, un misto di compassione e ansia. «Sei sicura che non sia troppo presto? Potrei parlare con Nicholson. Magari trova un modo per farti venire alla Spring Run insieme a me.» Appena quelle parole gli furono uscite di bocca, sentii quanto gli risultassero sciocche.

    «Per quanto ami l’idea di andare nella stessa scuola, vivo troppo lontano perché tu possa accompagnarmi in macchina. E poi lavorerai. Non è che potremo passare molto tempo insieme.»

    «E se ricominciassero gli incubi? Hai appena ripreso a dormire.»

    I sogni mi avevano tormentato per tutta l’estate; immagini di TJ che mi fissava dalla canna della pistola un istante prima di fare fuoco, i volti dei miei amici morti, la voce di TJ che mi diceva che non ero stata abbastanza intelligente da salvarli. Gli incubi si erano placati solo dopo il suo incarceramento. Dopo che i notiziari e i giornali avevano finalmente smesso di mostrarmi la sua faccia.

    «Hai guardato l’orario delle mie lezioni? Non avrò il tempo di pensare a quello che è successo l’anno scorso, tantomeno dormire. Starò bene.» Per forza. Le domande per il college andavano presentate a dicembre, il che voleva dire che mi rimaneva solo qualche mese per migliorare il mio punteggio cumulativo e i voti dei compiti.

    Reece esaminò il mio orario, come per impararlo a memoria: scienze politiche avanzate, basi di spagnolo, fisica avanzata 2, informatica, calcolo avanzato e letteratura inglese avanzata. Il suo sguardo indugiò sull’assegnazione del mio nuovo armadietto, troppo vicino alla presidenza per potersi arrischiare a venirmi a trovare a scuola. «Immagino che avrai un carico bello pesante questo semestre.»

    «Anche tu.» Si sarebbe destreggiato tra due lavori: quello in pizzeria e quello come informatore della polizia. «Non sono preoccupata» dissi cercando di non suonare tale. «Ci inventeremo qualcosa.»

    Reece mi prese dalle mani l’orario e gettò quelli di entrambi oltre la spalla. «Al diavolo! La scuola non comincia fino a domani. Al momento abbiamo cose più importanti da fare.»

    «Più importanti della scuola?» lo presi in giro.

    Mi tirò a sé e cadde sul materasso, uno sguardo alla porta.

    «Molto meglio della scuola.» La sua voce, intensa e bassa, mi solleticò l’orecchio. Mi tolse gli occhiali e li gettò da parte. Poi sfilò delicatamente l’elastico dai miei capelli, facendomeli ricadere sulle spalle in disordinate onde castane.

    «Non dovremmo andare da Gena?»

    «Posso essere rapido» disse lasciandomi una scia di baci sul collo.

    Ma non volevo che quel che rimaneva della nostra estate si riducesse a una cosa rapida. Volevo che durasse. Volevo assaporarlo, come i pigri pomeriggi dei sabati estivi trascorsi rannicchiati su una coperta da picnic sotto un vecchio albero del Jones Point Park, con i libri scolastici di Reece abbandonati sull’erba.

    «Non dobbiamo andare per forza da Gena» disse. «Possiamo andare a casa mia.»

    «Se mia madre lo scopre mi metterà in punizione per il resto dell’anno» risposi divincolandomi da sotto di lui. Frugai nella coperta alla ricerca dei miei occhiali. Era il nostro ultimo giorno d’estate anche con Gena, e non volevo deluderla. «E poi devi restituire la macchina ad Alex. Magari sarà più indulgente con un hamburger davanti.»

    Si girò sulla schiena. «Va bene, andiamo da Gena.»

    Lo tirai in piedi. Gli avvolsi le braccia al collo e lo baciai, riconsiderando le nostre opzioni. Lui sbatté la porta con il tallone. Mia madre si schiarì la gola di nuovo, e Reece sorrise malizioso prima di pulirsi le labbra e riaprirla.

    «A più tardi, Mona» la salutò.

    «Non troppo tardi.» Mamma alzò lo sguardo dal quotidiano che stava fingendo di leggere, chiaramente notando l’assenza del mio zaino. La sua espressione sorniona diceva: Non fare niente di stupido nello stesso modo diretto-ma-indiretto in cui una volta, a giugno, mi ero trovata dei preservativi sul comodino.

    Quando le diedi un bacio di saluto, mi sentivo avvampare. Aveva un sapore di vago divertimento. E magari di leggera nostalgia.

    Reece mi tenne la portiera aperta. L’interno della vecchia Benz era stato pulito con l’aspirapolvere e il cruscotto brillava. Un air-fresh auto nuova era appeso allo specchietto.

    Salii pensando al mio vicino, Lonny Johnson, e alla sua ossessione per la sua Lexus. Al modo in cui quell’auto proiettasse l’immagine di ciò che lui voleva essere: un uomo d’affari ricco e di successo, invece che lo spacciatore adolescente del quartiere che non riusciva ad andarsene da Sunny View. Un tempo il detective Petrenko vendeva droga insieme a lui, quando lavorava sotto copertura. E guidava la Benz che adesso sarebbe passata a Reece. I miei occhi si spostarono verso la casa mobile di Lonny, ma non c’era traccia di lui o della sua auto.

    Reece raggiunse il fondo della mia via e si fermò di fronte al Bui Mart.

    «Perché ci fermiamo?» Una Honda Civic bianca era parcheggiata accanto a noi. Apparteneva al mio ex migliore amico, Jeremy Fowler.

    «Ho chiesto a Gena cosa possiamo portare e ci ha incaricati di prendere bibite e patatine.»

    «C’è un 7-Eleven più avanti.»

    «Siamo già qua» rispose lui sganciando la cintura e scendendo.

    Io affondai nel sedile. «Aspetto in macchina.»

    Reece tornò a sedersi. Guardai fisso fuori dal finestrino, in direzione della Civic di Jeremy. Lui mi prese la mano e la strinse, infondendomi un po’ di sicurezza.

    «Non puoi evitarli per sempre» mi fece notare.

    Avrei voluto che si sbagliasse. Le due persone a cui tenevo di più a parte lui mi trattavano come se non esistessi. Un vero schifo, perché probabilmente Anh Bui e io saremmo finite a essere compagne di laboratorio come ogni anno. E dato che Jeremy e Anh erano una coppia, vederli insieme a scuola sembrava inevitabile.

    Seguii Reece nel negozio. Le campanelle sulla porta annunciarono il nostro arrivo e Anh sollevò lo sguardo dalla cassa. Suo fratello Bao, direttore del negozio, doveva avere la serata libera. Jeremy era appollaiato dietro al bancone. Mi guardò da sopra il bordo degli occhiali e, trovandomi evidentemente indegna della sua attenzione, tornò a rivolgerla alla rivista. Anh, l’espressione esitante, optò per un sorriso neutro, come se non fosse sicura di dovermi servire in quanto cliente, visto che la nostra amicizia era finita. Le risparmiai la fatica di decidere e mi diressi verso la stanza frigo in fondo al negozio. Probabilmente là dentro avrei trovato un’atmosfera più calorosa.

    Aprii la pesante porta di vetro ed entrai, sfregandomi le braccia per tenere lontano il gelo. Da un lato, le pareti erano piene di scaffali di birra e bibite, mentre dall’altro c’erano delle grandi vetrine che davano sul negozio. Ero grata dei poster attaccati da Bao sul vetro, grazie ai quali non dovevo sentirmi addosso gli sguardi di Jeremy e Anh. Afferrai una Coca da due litri e una Diet per Gena, mentre Reece andava al bancomat e poi prendeva le patatine.

    Anh ci batté il totale. «Diciannove dollari e ottantatré. Per piacere» aggiunse sottovoce, come se non volesse farsi sentire da Jeremy. Sollevò lo sguardo sul mio, poi lo distolse rapidamente mentre imbustava gli acquisti. Reece lasciò un pezzo da venti sul bancone e Jeremy girò rumorosamente una pagina della sua rivista.

    «Pubblico difficile» osservò Reece una volta tornati in auto.

    Era passata tutta l’estate e ancora non mi avevano perdonata. La famiglia di Anh era in collera con me perché non ero andata alla polizia quando in primavera erano iniziati i delitti, prima che lei fosse drogata, rapita da TJ e quasi uccisa. E Jeremy era ancora arrabbiato per vari motivi, non ultimo il fatto che aveva passato l’estate in riabilitazione ambulatoriale. Era difficile credere che fossimo le stesse persone che una volta si dividevano le merendine e sgattaiolavano uno in casa dell’altra quando non c’erano i genitori, giusto per passare del tempo insieme. Che una volta parlavamo ogni giorno, di tutto.

    «Te l’ho detto, non è cambiato niente.» Frugai nella borsa della spesa cercando le patatine gusto sale e aceto. La mia mano trovò qualcosa di soffice. Un Twinkie.

    «Non c’era bisogno che me lo comprassi per farmi stare meglio» dissi aprendo l’incarto.

    Reece mi guardò prendere il primo boccone. Mentre usciva dal parcheggio alzò un sopracciglio pensieroso e sorrise. «Non sono stato io.»

    Avevo la bocca piena di pan di spagna e crema. Smisi di masticare. Anh doveva avermi infilato il Twinkie nel sacchetto insieme alla spesa. Presi lo scontrino. Non ce l’aveva fatto pagare.

    Lo mangiai lentamente, assaporandolo. Sembrava un ramoscello d’ulivo con il sapore della speranza.

    Ci dirigemmo verso casa di Gena tenendo le dita intrecciate, la radio di sottofondo e Reece che ululava canzoni mentre usava la mia mano come la tastiera di una chitarra virtuale. Al semaforo successivo lo sorpresi a guardarmi. Colsi il mio sorriso riflesso nei suoi occhiali da sole. Era diverso da quando mi tenevo ai suoi fianchi mentre le ruote della moto stringevano le curve. Seduti fianco a fianco, lo guardai osservarmi con quel sorriso in faccia mentre la sua felicità si trasformava in desiderio.

    La Mercedes si fermò davanti alla villetta a schiera di Gena.

    «Non sanno che siamo qua. Possiamo ancora cambiare idea e andare a casa mia» propose Reece sporgendosi per un bacio. Sussurrò qualcosa sul fatto che sapessi di Twinkie e me ne diede un altro, più appassionato.

    Entrambi sussultammo sentendo picchiare sul vetro. Alex era in piedi accanto all’auto, a braccia incrociate. Non aveva l’aria felice.

    Reece tirò giù il finestrino e lui allungò la mano per riavere le chiavi. «La prossima volta che mi rubi la macchina ti faccio perquisire le cavità corporee.»

    «Non l’ho rubata. È mia al trenta per cento.»

    «Ottimo. Mi assicurerò di mandarti la fattura per il tuo trenta per cento di assicurazione, benzina e controlli.» Alex fece un sorriso teso, come se si stesse trattenendo dal dargli una botta in testa. «A proposito, ha bisogno di una messa a punto e di una convergenza.»

    Reece alzò gli occhi al cielo e gli fece cadere nella mano le chiavi.

    «E beve solo benzina super senza piombo» urlò Alex mentre entrava in casa.

    Lui gli mostrò il medio, reprimendo un sorriso.

    Afferrammo le patatine e le bibite e seguimmo Alex.

    «Di qua!» ci chiamò Gena. Il profumo stordente di cipolle grigliate e panini caldi ci attirò in cucina. Stava versando del ripieno alle mele in una base per torta. Sul suo grembiule c’era scritto Baciate la cuoca e Reece obbedì dandole un bacetto sulla guancia. Passò un dito nella scodella e lo leccò, così lei gli diede un colpetto con il cucchiaio di legno. Lui roteò gli occhi con aria estatica.

    «Stai indietro, piccoletto. Lei è già presa.» Alex passò a Reece una bibita fredda e lo spinse via scherzosamente. Mi lanciò un cubo di Rubik preso dal bancone. Era un cubo speciale, più scorrevole di quello che avevo io, con la caratteristica di girare più velocemente.

    «Qual è il tuo tempo migliore?» mi chiese.

    «Un minuto e venti secondi» risposi. Sembrava da sfigati, a confronto con le sue vittorie da dieci secondi, ma lui aveva avuto qualche anno in più per esercitarsi. Alex mi aveva regalato un cubo tutto mio nei giorni dopo l’arresto di TJ, quando erano cominciati gli incubi e non riuscivo a dormire, come se sapesse che il mio cervello aveva bisogno di un modo per fuggire da tutto quel caos: un algoritmo di soluzioni semplici a un problema complesso. Il cubo era un enigma con un senso, un gioco in cui nessuno si faceva male. Era un modo per misurare i miei progressi.

    Alzò un sopracciglio. «Niente male.»

    Reece mi piantò un bacio orgoglioso sulla guancia. «Stai indietro, detective. È già presa.»

    Alex cinse con un braccio la vita di Gena e la osservò dare gli ultimi ritocchi alla torta. Quando era insieme a lei, diventava un tenerone, tutto jeans, cotone e sorrisi spontanei. Niente a che vedere con l’informatore sotto copertura che impersonava il lacchè di Lonny Johnson quando l’avevo conosciuto l’anno precedente a scuola.

    Gena gli diede un colpetto con l’anca e mise la torta in forno. Passò ad Alex una serie di pinze e lo mandò in cortile ad accendere il grill. Portai uno sgabello al bancone e la osservai mentre cucinava. Era una donna piena di sfaccettature. Alcune brillavano così intensamente – la sua sicurezza, l’aspetto, il personaggio sfacciato che mostrava al mondo – che mi ci era voluto un po’ per vedere gli strati al di sotto. Gena lavorava sotto copertura nelle scuole superiori locali. All’inizio non ci eravamo prese molto, anche perché mi ero convinta che avesse circa la mia età e uscisse con Reece, ma durante l’estate ci eravamo avvicinate. Per lui era come una sorella maggiore, la sola famiglia che gli fosse rimasta dopo che il fratello era morto e la madre l’aveva allontanato.

    Reece appoggiò la schiena al lavello, l’espressione pacifica. Se in quel momento l’avessi toccato, probabilmente avrebbe avuto lo stesso sapore della torta. Dolcezza e benessere. Come un ritorno a casa.

    «Allora, sei pronta per il tuo primo giorno di scuola?»

    C’era una ruga di apprensione nel sorriso di Gena, e sapevo che cosa mi stava chiedendo veramente. Se fossi pronta a ritornare nel posto in cui gli incubi erano cominciati.

    «Pronta come non mai» dissi con un sospiro. «E tu? C’è qualche possibilità che venga assegnata alla West River?»

    «Il dipartimento mi ha assegnata a una scuola di Arlington» rispose lei alzando gli occhi al cielo. «L’ora di punta ogni mattina sulla I-395 sarà un delirio. Sarò fortunata se non passerò l’intero semestre autunnale in punizione per i ritardi.»

    «Peccato. Speravo che potessimo studiare insieme. Quest’anno ho scelto spagnolo come lingua facoltativa.»

    Lei alzò lo sguardo dalle uova ripiene, l’espressione incuriosita. «Pensavo facessi latino.»

    Alzai le spalle. «Imparare lo spagnolo mi sembrava più...»

    «Pratico?» suggerì.

    «No. Più importante.» Strinsi le labbra. Reece e Alex conoscevano abbastanza lo spagnolo per capire Gena quando, rilassata, conversava sottovoce con se stessa. O quando esplodeva in una serie di ragionamenti infuocati a cui non si aspettava rispondesse nessuno. Immaginai di volerla capire anch’io.

    Sorrise, come se sapesse quello che cercavo di comunicare. Pulendosi la mano su uno strofinaccio mi disse: «Ho una cosa per te.» Frugò nella borsa e tirò fuori una grossa busta. «Aprila.»

    La carta intestata all’interno portava il logo del dipartimento di polizia della contea di Fairfax. Cautamente sfogliai il contenuto: una domanda generica di stage, più due lettere di raccomandazione, una firmata dall’agente Gena Delgado, l’altra dal detective Alexander Petrenko.

    «L’hai fatto?» chiesi, guardando incredula i fogli nella mia mano. «Sei riuscita a fargli approvare uno stage forense?»

    Avevo chiesto a Gena se pensava avessi una chance di fare lo stage di fine anno presso il laboratorio regionale della Scientifica, ma quando lei aveva indagato aveva scoperto che il direttore non aveva mai approvato come stagista uno studente delle superiori. Ero convinta che sarei rimasta intrappolata dietro una scrivania per tutto l’anno, intenta a riordinare libri in una biblioteca medica universitaria o a lavare capsule di Petri per un’azienda farmaceutica.

    «Non è ancora definitivo. Devi far firmare i moduli di permesso a tua madre e avrai bisogno di una copia delle pagelle scolastiche. Il tenente Nicholson si è detto disposto a farti da garante ufficiale. Domani porta con te tutti i documenti firmati e i moduli. Ci vediamo alla centrale di polizia dopo la scuola.»

    Guardai Reece e poi Gena.

    «Non so cosa dire.»

    Lei si diede un colpetto al labbro e guardò il soffitto. «Prova con: Estoy muy agradecida. Gena Delgado es la mujer más maravillosa, increíble y bella en todo el mundo...»

    Reece le lanciò addosso uno strofinaccio e rise.

    Gena mi posò una mano sulla guancia. «Dicci solo che ti impegnerai e ci renderai orgogliosi. Te lo meriti, Leigh.» Aveva gli occhi scintillanti d’emozione. Di orgoglio. Era un’esplosione effervescente di mandarino che non mancava mai di sorprendermi. «Ah, un’altra cosa!» Allungò la mano sopra il frigo e tirò giù un paio di scatole avvolte nella carta colorata.

    «Cos’è?» Tirai con cautela i bordi della carta e aprii la prima scatola. Sotto la delicata velina c’erano una morbida camicetta bianca e un paio di pantaloni cachi con le pinces. I prezzi erano stati tagliati via dalle etichette. Nella seconda scatola c’era un paio di ballerine scintillanti in tinta, esattamente del mio numero.

    «Per il tuo primo giorno al laboratorio forense. Mia madre diceva sempre che l’abito deve essere consono alla parte» mi spiegò Gena. «Se vuoi diventare una professionista devi vestirti come se lo fossi.»

    Passai un dito sui bottoni di seta della camicetta. Non avevo mai pensato a cosa avrei indossato per lo stage. Una parte di me aveva voglia di prenderla tra le braccia, se non altro per ricordare a me stessa che credeva davvero che meritassi tutto ciò. Lei mi credeva in grado di essere la persona contenuta in quelle scatole.

    «Sono perfetti.»

    «Bene» rispose, riportando l’attenzione alle ciotole sul bancone. «Puoi indossarli anche al matrimonio. Resteremo sul semplice. Giusto qualche amico intimo e il Giudice di pace, se mai riusciremo a fissare una data.»

    Il mio orgoglio si sgonfiò leggermente. Alex e Gena avevano posticipato il matrimonio a causa del processo. Dal suo salotto erano scomparse tutte le riviste e i cataloghi, quelli con gli abiti rigonfi e i servizi di piatti eleganti.

    «Pensavo volessi un matrimonio in grande stile.»

    Lei lasciò cadere varie scodelle nel lavello. «Ora che il caso è chiuso, l’unica cosa che voglio è sposarmi. Grazie a Dio, a giugno TJ ha accettato il patteggiamento. Altrimenti Alex sarebbe così preso dalle udienze che diventeremmo vecchi e grigi prima di riuscire a trovare il tempo per la luna di miele.» Gena si tolse il grembiule e lo posò sul bancone. «È finita. TJ è in prigione, inizia un nuovo anno scolastico, e tutti possiamo andare avanti con le nostre vite.»

    «Amen!» Alex sporse la testa dalla porta esterna. «Gli hamburger sono quasi pronti.»

    Dopo cena rimanemmo in veranda, seduti intorno al tavolo a parlare fino al tramonto, poi tutti aiutammo a sparecchiare. Alex si mise il grembiule di Gena e cominciò a rigovernare, mentre lei organizzava gli avanzi, cantando piano una canzone alla radio e girando per la cucina. Io osservavo con una sensazione di pienezza, calore e sonnolenza.

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