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Fanta-Scienza 2
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E-book320 pagine4 ore

Fanta-Scienza 2

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Info su questo ebook

Fantascienza - racconti (260 pagine) - La fantascienza torna a inseguire la scienza. Dopo la prima antologia altri nove racconti liberamente ispirati da colloqui con ricercatori dell’Istituto Italiano di Tecnologia.

Questo libro è la continuazione di Fanta-Scienza, antologia uscita esattamente tre anni fa, nell’ottobre 2019, e si basa sullo stesso concetto. Abbiamo intervistato alcuni dei ricercatori di punta dell’Istituto Italiano di Tecnologia (otto la scorsa volta, nove in questo volume) chiedendo loro di spiegare la natura delle loro ricerche e di immaginare come potrebbero svilupparsi nel futuro e che conseguenze potrebbero avere. Dopodiché le abbiamo passate ad altrettanti autori di fantascienza, chiedendo loro di ispirarsi a quanto detto dai ricercatori per scrivere un racconto, eventualmente avvalendosi di ulteriore aiuto da parte dello scienziato intervistato.
Ne è uscito uno spettro di visioni del nostro futuro che lascia stupefatti, non solo per la loro straordinarietà ma soprattutto perché basate su estrapolazioni del tutto possibili.

Marco Passarello vive e lavora a Bolzano come redattore della TGR RAI. Si è laureato in ingegneria aeronautica al Politecnico di Milano con una tesi sui satelliti a filo. È stato redattore delle riviste di informatica Computer Idea e ComputerBild, e ha a lungo collaborato col settimanale scientifico Nòva 24 de Il Sole – 24 Ore e con la rivista Urania Mondadori. Ha curato una rubrica di fantascienza per il mensile XL, e si è occupato di musica e libri per Rolling Stone e Repubblica Sera. Insieme alla moglie Silvia Castoldi ha tradotto diversi romanzi, tra cui la serie Virga di Karl Schroeder per i tipi di Zona 42. Ha pubblicato numerosi racconti di fantascienza su riviste, fanzine e antologie.
LinguaItaliano
Data di uscita11 ott 2022
ISBN9788825421507
Fanta-Scienza 2

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    Anteprima del libro

    Fanta-Scienza 2 - Marco Passarello

    In memoria di Gian Filippo Pizzo

    grande antologista della fantascienza italiana

    Introduzione

    Marco Passarello

    Questo libro è la continuazione di Fanta-Scienza, antologia uscita esattamente tre anni fa, nell’ottobre 2019, e si basa sullo stesso concetto. Ho intervistato alcuni dei ricercatori di punta dell’Istituto Italiano di Tecnologia (otto la scorsa volta, nove in questo volume) chiedendo loro di spiegare la natura delle loro ricerche e di immaginare come potrebbero svilupparsi nel futuro e che conseguenze potrebbero avere. Dopodiché ho passato le interviste ad altrettanti autori di fantascienza, chiedendo loro di ispirarsi a quanto detto dai ricercatori per scrivere un racconto, eventualmente avvalendosi di ulteriore aiuto da parte dello scienziato intervistato.

    Sono del tutto sincero quando dico che, una volta pubblicato Fanta-Scienza, non avevo intenzione di replicare l’esperienza. Per quanto il libro mi abbia dato molte soddisfazioni, inclusi qualche recensione lusinghiera sulla stampa nazionale e qualche passaggio televisivo, e buone vendite (nonostante il periodo pandemico abbia notevolmente limitato le possibilità di promozione), l’impegno che mi ha richiesto è stato tale da farmi passare ogni velleità di fare un bis.

    E tuttavia eccoci qui di nuovo. Credo che il motivo principale sia un piccolo episodio che dimenticai di citare nell’introduzione del libro precedente. Avevo raccontato che il germe dell’idea mi venne scrivendo per Repubblica Sera un articolo su Hyeroglyph, antologia curata da Neal Stephenson e basata su un’analoga collaborazione tra scienziati e scrittori. Avevo raccolto le opinioni in merito da parte di vari autori fantascientifici italiani e stranieri. Tra le più positive c’era quella di Bruce Sterling, che aveva firmato uno dei racconti inclusi in Hyeroglyph, e che mi disse: Spero che altre istituzioni vedano la saggezza di questo sforzo e lo seguano. Se ci provasse un’università italiana, sarei il primo a festeggiare.

    Fu proprio questa sua risposta che mi stimolò a chiedermi: chi in Italia potrebbe appoggiare la realizzazione di un’idea simile? Inizialmente mi dissi: nessuno! Ma qualche tempo dopo entrai in contatto con l’Istituto Italiano di Tecnologia, dove invece trovai un terreno fertilissimo per la realizzazione di Fanta-Scienza.

    Ma non è finita: dopo la pubblicazione del libro, mi venne l’idea di inviarne una copia a Sterling per ringraziarlo dell’ispirazione che mi aveva dato. Con mia sorpresa, lui ne fu davvero entusiasta e, quando poco tempo dopo lo incontrai di persona in occasione di Lucca Comics, mi disse: Se ne farai un secondo volume, voglio esserci!.

    Ed ecco quindi spiegata la genesi di Fanta-Scienza 2: potevo lasciar cadere l’offerta di uno scrittore del suo calibro? Ovviamente no. E così mi sono deciso a rimettere in moto tutto il meccanismo. Ora posso vantare di avere in un’antologia da me curata un racconto scritto da Bruce Sterling (o da Bruno Argento, il suo pseudonimo italiano) appositamente su mia richiesta. Se me lo avessero detto negli anni Ottanta, quando divoravo i suoi racconti cyberpunk, non ci avrei mai creduto!

    Ovviamente oltre a Sterling, ci sono gli altri autori italiani, che penso abbiano fatto un ottimo lavoro nel trasformare in storie appassionanti gli spunti forniti dagli scienziati. Alcuni di loro erano già presenti in Fanta-Scienza, altri invece partecipano per la prima volta. Ho cercato di offrire ai lettori un ventaglio il più ampio possibile di stili: abbiamo autori storici della fantascienza italiana accanto a giovani e a scrittori esterni all’ambiente della letteratura di genere.

    E non dobbiamo dimenticare i ricercatori: realizzando le diciassette interviste incluse in Fanta-Scienza e Fanta-Scienza 2, oltre che in occasione delle varie presentazioni del primo libro, ho potuto rendermi conto che non esiste nulla di più lontano dalla verità dal mito dello scienziato chiuso nella torre d’avorio e concentrato unicamente su un sapere specialistico. Al contrario, ho potuto riscontrare innanzitutto l’estrema multidisciplinarietà delle loro ricerche, che spesso si situano nell’intersezione tra tecnologia e scienze umane. E poi un grande desiderio di comunicare al pubblico ciò che stanno facendo e di interrogarsi su quelle che possono essere le conseguenze a breve e a lungo termine.

    Devo anche aggiungere che molti di loro (anche se non tutti!) mi hanno detto di apprezzare molto la fantascienza e di considerarla uno stimolo e uno strumento per osservare la scienza da punti di vista inediti. In un Paese dove la fantascienza gode di ben scarsa considerazione negli ambienti culturali, è bello scoprire che almeno gli scienziati la pensano diversamente.

    Concludendo, devo assolutamente ringraziare Giuliano Greco e Camilla Dalla Bona dell’IIT, che mi hanno fornito una preziosa e puntualissima assistenza nel contattare i ricercatori e nel risolvere i vari problemi organizzativi; e mia moglie Silvia Castoldi, il cui contributo all’editing dei testi qui inclusi è stato assolutamente fondamentale.

    E ora è il momento delle interviste e dei racconti.

    Integrazione tra uomini e robot

    Intervista con Antonio Bicchi

    Antonio Bicchi è professore di robotica all’università di Pisa, e dirige il laboratorio di soft robotics per la cooperazione umana e la riabilitazione presso l’IIT di Genova.

    Lei si occupa di soft robotics. Di cosa si tratta esattamente?

    Il laboratorio che dirigo si occupa di Soft robotics for human collaboration and rehabilitation. In parole semplici, si tratta di spostare la frontiera robotica oltre ciò che è stato fatto negli ultimi vent’anni. Il paradigma della robotica cooperativa, collaborativa, in cui i robot affiancano le persone, ha già sostituito il paradigma del robot industriale antico, isolato nella catena di montaggio. Il nostro obiettivo è quello di andare ancora oltre, e passare dalla collaborazione uomo-robot all’integrazione uomo-robot: costruire un sistema in cui la persona e la macchina intelligente convivono e vanno a costituire un unico sistema.

    Questo risultato lo cerchiamo in vari modi. Uno è quello di assistere una persona che ha disabilità fisiche, cioè creare protesi che si integrino meglio con la persona e che non siano mal tollerate, ma anzi delle alleate per la vita di tutti i giorni. L’ambizione è quella di creare una bionica che venga percepita come naturale dalle persone: un’integrazione che deve riguardare sia la parte fisica, con materiali che vengano riconosciuti come simili a sé dalla persona che li usa; sia per la parte dei sensori, che devono offrire informazioni altrettanto ricche di quelle che ci fornisce il nostro corpo; sia infine per la parte dell’intelligenza: queste protesi devono avere un’intelligenza autonoma che ci aiuti nei nostri compiti.

    Quindi c’è bisogno, in primo luogo, che a bordo di queste macchine ci sia un’intelligenza artificiale in grado di integrarsi con l’intelligenza naturale. Non, quindi, quella di cui leggiamo sui giornali, dei grandi programmi in grado di risolvere questo o quel problema specifico, ma un’intelligenza con cui possiamo dialogare e comprenderci. In secondo luogo c’è bisogno di materiali soffici: non i materiali classici della robotica che abbiamo conosciuto, ma che siano in grado di deformarsi e adattarsi all’ambiente esterno, così come fa il nostro corpo.

    Noi portiamo questo approccio anche al di là della prostetica. Per esempio nella riabilitazione, con alcune sperimentazioni che stiamo facendo per alcune persone che soffrono le conseguenze di infarti, ictus e simil. Ma anche con robot destinati a integrare persone nel pieno possesso delle loro funzioni, in modo da dare loro una nuova dimensione, aumentata. E questo lo pensiamo soprattutto per coloro che svolgono mestieri in condizioni di pericolo. In particolare, con la robotica degli avatar: sistemi di robot che possono essere abitati da essere umani, dando loro la possibilità di operare in un mondo sicuro, lontano da quello in cui si trovano, come se fossero teletrasportati in un‘altra vita.

    Quanto è vicina la realizzazione di questo tipo di tecnologie?

    Siamo in una fase già piuttosto avanzata. La tecnologia degli avatar è oggi molto popolare e molto all’avanguardia, ma si richiama a un filone molto antico, quello della teleoperazione, i cui primi esperimenti risalgono addirittura agli anni Cinquanta, in particolare per l’installazione e la manutenzione delle centrali nucleari. Tra l’altro uno dei primissimi telemanipolatori robotici fu creato proprio in Italia, nel 1959; è una cosa che mi fa sempre molto piacere ricordare, perché è una tecnologia tuttora funzionante nella manutenzione del Joint European Torus a Culham, vicino a Oxford, dove si è fatto l’ultimo recente esperimento di fusione nucleare.

    Partendo da questa storia siamo arrivati alla rivoluzione che stiamo vedendo oggi, quella di avatar che mescolano le proprie capacità fisiche ma anche intellettive a quelle della persona. Noi abbiamo cominciato questo lavoro con molto anticipo rispetto alla moda di oggi: già nel 2016, quando ad Amatrice ci fu il terremoto e fummo chiamati dalla protezione civile per dare una mano. Avevamo un robot umanoide che si chiamava Walk-man. Ci veniva richiesto di ispezionare edifici pericolanti sostituendo i vigili del fuoco, gli architetti e gli ingegneri civili che dovevano fare le verifiche strutturali, evitando loro di correre il rischio di essere coinvolti da un crollo, in presenza di uno sciame sismico ancora in corso. Lì ci siamo resi conto che l’utilizzo di un robot autonomo è impraticabile: in un mondo completamente destrutturato, come un edificio dopo che c’è stato un terremoto, i robot che oggi sappiamo costruire non sono ancora in grado di decidere quali operazioni compiere, come affrontare l’infinità di possibili circostanze che si possono prospettare. Rimane indispensabile avere il parere tecnico, le capacità e il background tecnico-culturale dell’ispettore umano, che però vanno trasportati nell’ambiente senza che la persona sia esposta al pericolo. Così in quel primissimo caso abbiamo fatto entrare il robot negli edifici facendolo però guidare e gestire da remoto dal tecnico umano addetto alle ispezioni

    Da quel primo esperimento su piccola scala abbiamo realizzato il potenziale di questo tipo di tecnologie. Abbiamo capito che per usare un robot non deve essere necessario avere una laurea in robotica. L’architetto, il medico o il caregiver che usa il robot per operare a distanza non deve essere obbligato a saper programmare il robot, perché i suoi compiti sono altri. Servono robot che possano essere indossati, vissuti, da persone non addette ai lavori.

    Questo è ciò che ci ha portato a creare una famiglia di robot, gli Alter-EGO, che teleoperiamo da lontano immergendoci in una realtà lontana. È un’esperienza molto naturale che possono fare anche i bambini: gli facciamo indossare un visore, tipo Oculus, e alcuni semplici dispositivi che permettono di avere una reazione tattile, per capire cosa sta toccando il robot. La persona che indossa il robot può muovere la testa e indirizzare lo sguardo, vedendo quello che vede il robot in tre dimensioni, mentre il robot si muove negli ambienti e apre le porte con le proprie mani. Dopo pochi minuti di questa esperienza le persone diventano il robot, c’è una totale immedesimazione: dicono: sono dentro al robot. Un’esperienza particolarmente sorprendente quando il robot, dopo avere fatto un giro, torna alla stanza di partenza e la persona si vede dall’esterno, come se fosse un estraneo.

    Chiaramente ci sono molti aspetti tecnici di cui tenere conto. Per poter veramente credere di essere il robot ci devono essere molte corrispondenze sensomotorie piuttosto precise. Noi ci aspettiamo che a certe decisioni che prendiamo corrispondano certe percezioni che ci vengono dall’ambiente. Se otteniamo un accoppiamento preciso tra ciò che facciamo e ciò che percepiamo, allora ci immedesimiamo. Questa è la frontiera della ricerca: ottenere robot che, quando agiscono in un ambiente remoto, riportino all’operatore umano che c’è dentro sensazioni congruenti con quelle che sono le sue esperienze di umano nella vita reale.

    Ha parlato di robot che integrano la loro intelligenza con quella degli esseri umani. Parliamo solo di un’intelligenza che aiuti ad adattare le reazioni del robot a quelle dell’essere umano, o parliamo anche di altri tipi di intelligenza?

    Faccio innanzitutto una premessa: molte delle nostre funzioni intelligenti non sono affatto consce, e sono realizzate, se posso usare una metafora informatica, dall’hardware e dal firmware del nostro corpo. Noi non riflettiamo su molte delle nostre azioni: quando prendiamo in mano un oggetto non pensiamo a dove mettere le dita, lo afferriamo e basta. Le operazioni di afferraggio, di scelta della presa, di controllo dello scivolamento, vengono compiute a basso livello. Di conseguenza molte delle azioni della vita quotidiana, che pure richiedono intelligenza, dovranno essere realizzate dal robot in nostra vece.

    Al di là di questo, è possibile pensare a forme di intelligenza artificiale che si fondano con l’intelligenza dell’uomo e l’arricchiscano? Questa è sicuramente una delle prospettive della robot integration. Vogliamo che la fusione uomo-robot sia in grado di fare cose che né l’uomo, né il robot, da soli, e neppure la somma dei due, sono capaci di fare.

    Questo, per certi versi, già succede nella nostra esperienza di collaborazione con l’intelligenza artificiale. Il modo in cui interagiamo con i nostri telefoni cellulari, per esempio, è già fortemente interattivo. Non solo c’è un supporto di memoria infinito, per cui se non mi ricordo il significato di una parola posso cercarlo istantaneamente, ma è anche ormai pervasivo il ricorso all’intelligenza artificiale per avere assistenza nel compiere azioni. E ci sono modi abbastanza immediati per realizzare l’integrazione di cui parliamo: nel momento in cui attraverso il visore vedo una realtà aumentata, il robot remoto può aggiungervi informazioni presentate in modi diversi. Per esempio, tornando all’esempio di perlustrazione di un edificio pericolante, il robot potrebbe essere in grado di percepire meglio di noi la profondità di una crepa, disponendo di strumenti più precisi della visione umana, come radar e ultrasuoni. Sono informazioni che il robot può inserire in un modello complessivo di valutazione del rischio, e trasmetterle all’essere umano colorando in modo particolare le aree della zona esplorata in cui percepisce un potenziale pericolo.

    Ci sono altri settori che potrebbero beneficiare di questo tipo di tecnologia?

    Sono molte le situazioni di lavoro che presentano rischi che potrebbero essere evitati usando un robot remoto. Per esempio la manutenzione di ambienti potenzialmente pericolosi come cisterne, chiglie di navi e simili. Ma ci sono anche lavori non pericolosi che potrebbero essere svolti da remoto: uno smart working anche fisico, non limitato a una tastiera. Ci sono mestieri in cui gran parte del tempo viene utilizzato per gli spostamenti, evitando i quali si avrebbe un’efficienza molto maggiore. Le faccio l’esempio dei data center dei grandi operatori. Sono fondamentalmente palazzi senza finestre, pieni di server, che funzionano da soli, in cui non è economico avere delle persone residenti. Gli esseri umani ci entrano soltanto quando c’è una scheda da cambiare. Le persone che fanno la manutenzione si trovano in pochi centri a livello nazionale e si recano dove c’è bisogno, magari a centinaia di chilometri. In casi simili è facile immaginare di avere un robot in ogni centro e farlo teleoperare da una persona che sa cosa bisogna fare. È un caso di studio che abbiamo davvero sperimentato: abbiamo teleoperato un robot in un impianto di un noto internet provider con sede a Milano, con l’operatore che si trovava a Bergamo e che ha sostituito una scheda in un impianto a Genova. Sono, quindi, cose fattibili già oggi.

    Un’altra prospettiva di applicazione, quella che personalmente ritengo più importante, è quella dei robot personali. Robot che, ritengo, tra pochi anni saranno nelle nostre case. Già anni fa Bill Gates diceva che questo tipo di robot era in arrivo. Perché non è ancora arrivato? Perché, adesso come adesso, per operare un robot occorre avere una laurea in ingegneria robotica. Il robot sarà usabile da tutti solo quando sarà facile come usare uno smartphone. Pochissimi di noi sanno programmare un computer, ma tutti sappiamo usare uno smartphone. Serve un robot che io possa lasciare a casa e indossare a distanza per risolvere i piccoli problemi, come dare da mangiare al gatto, aprire una finestra o portare da mangiare a un malato. Varrebbe la pena avere in casa un robot del genere, ed è quello che stiamo tentando di realizzare. Un robot che non devo programmare in ogni dettaglio, dicendogli: vai esattamente in quella posizione, prendi esattamente quella scatoletta di medicinali, con tutti gli IF… THEN … ELSE che sarebbero necessari per prevedere ogni possibile variazione. Dovrei poterlo usare senza bisogno di scrivere codice, così chiunque potrebbe ottenere un beneficio dalla robotica.

    Lei dice che mancano pochi anni. Ma un dispositivo del genere sarebbe veramente alla portata di una famiglia normale?

    L’economia dipende dai volumi. Oggi come oggi un manipolatore come il nostro Alter-EGO potrebbe avere il costo di un’automobile di medio segmento. Potrebbe facilmente scendere al costo di un’utilitaria se fosse prodotto su media scala, e sarebbe ancora più abbordabile se fosse un prodotto utilizzato da tutti. Pensiamo che oggi uno smartphone ha una potenza di calcolo milioni di volte maggiore di quella dei mainframe che usavo quando ero più giovane, e ha un costo che chiunque si può permettere. Con i robot succederà lo stesso.

    Al di là della telepresenza, la soft robotics può essere usata anche per amplificare le capacità delle persone in carne e ossa?

    Abbiamo un progetto che si occupa di esoscheletri, dispositivi per migliorare la qualità del lavoro, diminuire l’affaticamento e aumentare le capacità. Per esempio: un dispositivo che può essere indossato e che ha due mani in aggiunta a quelle della persona, che possono essere usate al posto delle mani vere per fare lo sforzo, e possono anche essere congelate in una posizione. Quindi posso afferrare un oggetto con le mani ausiliarie, continuare a trasportarlo e intanto usare le mie mani per fare altro.

    Quelle che mi ha descritto sono tutte tecnologie che si dovrebbero realizzare nel giro di pochi anni. Come immagina un futuro più lontano?

    Quello che ritengo importante è realizzare la possibilità di essere altrove in modo quasi naturale. Una delle motivazioni da cui è partito il nostro lavoro sui robot-avatar degli ultimi anni è quella di assistere persone che sono confinate a casa e possono avere bisogno di noi, per esempio i nostri genitori anziani. Ci sono tanti modi di far sentire la propria presenza, dalla telefonata alla videochiamata, ma l’esigenza è quella di poter toccare le persone, poter essere riconosciuti: toccare la mano di una persona in modo che questa riconosca che dietro a quel robot ci sono io. È una frontiera che spero un giorno raggiungeremo: vorrebbe dire veramente essere altrove: non solo vedere e toccare ciò che il robot vede e tocca, ma essere riconosciuti come individui. Questo coinvolge dimensioni che dobbiamo ancora capire meglio.

    Una cosa che mi dà molto da pensare è anche quale sarà il confine tra l’uomo e la macchina. Già oggi viviamo integrati con parti di una macchina, ma in futuro questo sarà sempre più approfondito. Capire dove finisco io e dove comincia la macchina diventa una questione sempre più delicata. Una persona che sia profondamente integrata con una macchina, che per esempio abbia un microchip integrato nei propri circuiti neurali, potrebbe arrivare a chiedersi: sono ancora quello che ero prima, o sono stato modificato senza che me ne accorgessi? I miei processi mentali, le decisioni che prendo, sono in qualche modo manipolati? È una domanda che ci porta a chiederci cosa sia un essere umano. È molto difficile da definire, ma io direi che, in un sistema integrato che tende a conformare tutti, essere umano è ciò che ci rende capaci di dire no, di ribellarci. Ma questo tema lascio che siano gli autori di fantascienza ad approfondirlo.

    Mare Nostrum

    Racconto di Bruce Sterling

    Un tempo avevo il mare di fronte alla mia prua robotica, ma ora passo i miei giorni abbandonato su un’isola italiana.

    Quanto può essere brutta una distopia? Un tempo ero capitano della Olga Scheinpflugova, nave costruita da mio nonno, il grande magnate tecnologico. Uno yacht di lusso automatizzato che era il giocattolo ad alta tecnologia, nonché il paradiso fiscale, di quell’uomo danaroso. La Olga era una sontuosa fortezza galleggiante. Adatta a un oligarca di livello mondiale.

    La maggior parte degli altri, raffinati super-yacht hanno finito per affondare durante i vari decenni trascorsi, per opera dei molti, crudeli fardelli della nostra storia: guerre, epidemie, carestie, polizia o pirati. Ma la Olga non ci aveva mai abbandonato, perché i suoi robot di bordo la riparavano più velocemente di quanto potesse deteriorarsi.

    Il mio saggio nonno aveva progettato lo yacht secondo questa filosofia. I suoi robot marinai, installati a bordo, erano macchine rotanti, dalle grandi braccia, senza testa, dipinte di un vivido arancione aeronautico, con gomiti multipli e svariati utensili intercambiabili. Manutenevano e riparavano i motori della nave, e si occupavano inoltre del sartiame, del timone, del radar, dei pannelli solari, delle tende parasole, della sontuosa cambusa e anche dell’idromassaggio.

    Ogni oggetto e servizio a bordo era progettato per poter essere fabbricato e riparato da robot, compresi gli stessi robot di bordo. In teoria, era un sistema tecnologico perfetto. In pratica, sorgono sempre problemi.

    A mano a mano che il nostro mondo tormentato diveniva sempre più atroce e periglioso, gli eredi di mio nonno persero tutto ciò che possedevamo – escluso il nostro yacht autoriparante. Dopo la morte di mio padre divenni lo skipper di quella nobile opera di un’era perduta, di quel museo robotico galleggiante, di quel monastero di automi vagante nell’azzurro Mediterraneo.

    La Olga Scheinpflugova appariva ancora superba, ma ovunque ormeggiassimo si vedevano panorami di abbandono. Noi umani – con le nostre menti immorali e le nostre mani sempre troppo occupate – avevamo degradato il nostro pianeta-giardino a oscuro mondo di immondizia inquinata. Rimuginavamo tristemente sulla cruda realtà della nostra storia, ci vergognavamo di noi stessi. Nel nostro 23esimo secolo i robot erano creature umili e affidabili, ma noi umani ci sentivamo peggio che inutili. Ogni anno diminuivamo di numero. Sapevamo che le altre creature viventi della Terra sarebbero state meglio senza di noi.

    Possedevo molti eccellenti libri di robotica, ordinatamente riposti nella capace biblioteca della mia nave. Erano una lettura malinconica, perché avevano immaginato un mondo futuro migliore, costruito con precisione da fantastici robot in continuo progresso, invece del nostro mondo cupo e disperato, puntellato da robot semplici e umili.

    La mia stessa nave era un robot – e tuttavia, io ero Capitano.

    Ero Capitano, e in un corretto sistema di interfaccia umano-robotica il Capitano deve essere lo stratega. Il Capitano umano deve stabilire la rotta della nave. Il Capitano deve valutare le scelte, stabilire le priorità, radunare le risorse, mantenere l’ordine a bordo e comandare. I robot non lo facevano. Perché i robot non sapevano farlo. I robot si limitavano ad afferrare utensili e a muovere sé stessi e i propri effettori lungo percorsi geometrici tridimensionali. I robot eccellevano in questo, ma non erano in grado di arrivare ad altro.

    I robot avevano molti meriti, ma non erano mai vivi o coscienti. Mancavano dello sfavillante desiderio di comprendere, della tormentosa fame di conoscenza; in breve, non erano scienziati né ingegneri. I robot non congetturavano né inventavano, mai. Erano, ahimè, senza peccato.

    Era questa la mia situazione finché, un giorno, una tempesta ci costrinse in porto a Beirut. Non rimaneva molto di quell’antica città, ma Beirut era semplicemente troppo vecchia per morire. E fu allora che apparve il mio peggior nemico, l’antagonista di questo mio distopico racconto.

    – Dunque, capitano Rossum – mi disse lo sconosciuto dopo avermi cortesemente salutato. – Ho sentito molte storie sulla sua nave, la Olga Scheinpflugova. Che romantico nome, degno di una bella donna!

    – Lei riconosce il nome della mia nave? – chiesi, perché non accadeva mai.

    Annuì con aria saggia. – Ha mai sentito nominare Sylvester Glory?

    Diedi un’attenta occhiata al signor Glory. Riconoscevo il tipo: era un vagabondo gentiluomo. Qualcuno aveva sprecato risorse per dargli un’istruzione, ed era cortese e di buone maniere. Ma era carente in virile determinazione, disciplina e autocontrollo. Il signor Glory non era sicuramente un robot, era semmai un relitto umano.

    Non ostentava altre ricchezze mondane che una piccola, stropicciata borsa da viaggio. I pantaloni svasati da marinaio erano molto laceri, e ambedue le maniche erano macchiate di inchiostro. C’era un po’

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